L’uomo che fabbricava pesci
«Allah ti
protegga, figliolo! Vai dove ti porta il
cuore. Sappi solo che dovrai molto lavorare,
molto sudare e molto faticare; e non ti
saranno risparmiate neppure le umiliazioni. Io
però ti conosco, so bene quanto sei forte,
saggio e coraggioso: sono certo che saprai
farti valere anche nel tuo nuovo paese, come
già hai fatto in questo, dove però la terra è
troppo avara per sfamare tutte le bocche della
famiglia... Vai, figliolo, sii sempre fedele
alla tua Sheila e - mi raccomando - crescete
bene i vostri figli, che sono la vostra unica
vera ricchezza!».
Un lungo
abbraccio ed un bacio suggellarono le ultime
parole del padre di Kemal sulla banchina del
porto da dove stava per staccarsi la sbilenca
carretta del mare, stracolma di speranze e di
disperati pronti a giocarsi tutto all’en plein
della vita.
Nella nuova
patria Kemal si diede subito da fare: manovale,
cuoco, strillone, lavamacchine, badante...
Qualsiasi lavoro andava bene, ovunque, purché
gli desse quello che bastava per tirare avanti
la frugale famiglia e gli meritasse
l’ammirazione e l’affetto di Sheila, prodiga di
dolci abbandoni e di figli sorridenti.
Questi lavori
precari non davano però sufficiente sicurezza e
stabilità al bilancio familiare. Fu così che
Kemal cominciò a pensare ad attività meno
estemporanee e più stanziali; pur anche
stagionali; magari in proprio.
Raggranellando i
pochi risparmi strasudati, si decise al gran
salto verso il lavoro autonomo: d’estate vendeva
angurie ghiacciate a fette e d’inverno fumanti
caldarroste a cartoccetti.
Sbarcava
così
il
lunario,
e
non solo
nelle due piene stagioni: restava pure qualcosa
per tirare avanti negli intervalli tra i
lavoretti occasionali con cui riempiva le
stagioni morte.
Non aveva però
fatto i conti con l’avanzare inesorabile del
progresso tecnologico e del quadro politico
internazionale: da una parte la bio-ingegneria
genetica, inventando le mini-angurie
monoporzione, gli aveva sottratto una grossa
fetta (è proprio il caso di dirlo!) di mercato,
in quanto la gente, anziché sputacchiare neri
semini in compagnia di allegri quanto casuali
amiconi notturni nelle piazze, preferiva
sbrodolarsi da sola in casa propria, stando
comodamente seduta a tifare davanti alla tivù;
dall’altra, le nuove ferree norme igieniche a
tutela della salute del consumatore,
gl’imponevano di arrostire le sue castagne non
più sopra la brace covata in un mezzo ex bidone
d’olio industriale bucherellato ad arte, bensì
in un lustro braciere ipertecnologico d’acciaio
inossidabile. Ed anche il coltellino con cui
incideva le scorze doveva essere monouso. Costi
davvero insopportabili, che erodevano
inesorabilmente le sparute risorse economiche di
un’impresa di quelle dimensioni!
Di
fronte
alla
crisi
congiunturale,
sorda alle
men che
elementari esigenze
della
famiglia
-
esigenze
che
aumentavano di pari passo con l’aumentare del
numero di figli extracomunitari che
annualmente produceva - Kemal si convinse che
l’unica via d’uscita era compiere un ulteriore
passo avanti: l’occupazione a tempo pieno. Fu
così che allargò
l’ambito
delle
sue
attività
commerciali: agli angoli delle strade vendeva
cassette di pesche o di pesce, a seconda delle
mezze stagioni; per reclamizzare i suoi
prodotti utilizzava un unico cartello, cui
toglieva od aggiungeva un’acca, riuscendo così
a realizzare significative economie di scala.
Una volta che non
riuscì a smerciare tutto il pesce e la
rimanenza, dopo alcuni pasti domestici, gli andò
a male in quanto non aveva frigorifero per
conservarla, si ritrovò davanti ad una poltiglia
maleolente, rifiutata anche dal più indignato
dei gatti randagi: assolutamente inutilizzabile.
Ma che era un gran peccato sprecare, pensava.
Mentre si arrovellava il
cervello per inventarsi il modo di poter
riemergere da quella batosta finanziaria che
rischiava di buttarlo fuori mercato, Kemal ebbe
come una folgorazione: gli balenò in mente
l’idea di scartare il marciume del pesce e di
recuperare le sole lische, per inserirle poi
dentro vezzose formine di surimi,
dall’aspetto simile ai pesciolini rossi dei
cartoni animati. Lo slogan “Fish for kids”
promosse un prodotto rivoluzionario nel suo
genere, solamente da diliscare e mangiare con
grande tranquillità, essendo privo di altre
spine traditrici.
Fu un successone,
superiore a qualsiasi aspettativa, in quanto ne
rimasero ingolositi non solo i bambini, ma anche
gli adulti, che ritrovavano in quei simulacri
ittici i variopinti brandelli della loro perduta
gioventù, e quindi ne facevano frequenti ed
abbondanti pasti simbolici.
Le richieste
cominciarono a piovere da ogni dove, al punto
che Kemal iniziò una raccolta sistematica di
lische d’ogni forma e dimensione, dando così
avvio ad una vera e propria piccola attività
regolare, non ben definibile dal punto di
vista normativo: ittico-conserviera? di
trasformazione? artistica? La Camera di
Commercio optò per classificarla come
“industria estrattiva”. Il grande passo verso
l’imprenditoria privata era finalmente
compiuto!
Anche i lussuosi
ristoranti specializzati in pesce fresco
apprezzavano questo innovativo prodotto, per
svariati motivi: la lunga conservazione, la
dimensione rigorosamente standardizzata,
l’aspetto allegro della pietanza, la facilità
di cottura e di servizio, senza più interiora
e squame da pulire. Con quelli più importanti
si stabilirono addirittura dei veri e propri
contratti di buy-back, col riacquisto a prezzi
prefissati delle lische - se integre -
utilizzate nelle precedenti forniture.
A mano a
mano che il nuovo pesce si affermava su tutte
le tavole, Kemal
cominciò a lanciarne delle varianti per
soddisfare specifiche esigenze, non volendo
trascurare neppure i mercati cosiddetti “di
nicchia”: ad esempio, cefali al sapore di
tamarindo, di cui si dimostravano ghiotte le
belle signore della buona borghesia, oppure
una specie di pesce-palla colorato di marrone,
rosso, verde e oro al sapore di fagiano
tartufato, fatto apposta per i cacciatori
dotati di mira poco affinata e di palato molto
raffinato. Il massimo dei massimi lo
raggiunse, però, con il pesce parlante. Era,
questo, un buffo delfinotto fucsia e verdino -
nelle versioni da sei e da dodici porzioni -
studiato appositamente per le feste di
compleanno, e che, grazie ad una minuscola
batteria ad accumulo di calore che alimentava
un circuito elettronico miniaturizzato, non
appena si cominciava ad affettarlo si metteva
a fischiare “tanti auguri a te...” fino a
quando non si raffreddava.
Gli affari
andarono a gonfie vele, i soldi arrivarono a
palate e Kemal, con la saggezza popolare che
l’aveva forgiato
in
gioventù e
sempre accompagnato nella maturità, decise che
era giunto il momento di rientrare in patria,
per godersi in pace gli ultimi bagliori di
vigoria e gratificare il vecchio padre,
confortandolo con quegli agi che gli erano
mancati da sempre: vendette tutte le sue
attività ad una multinazionale americana,
imbarcò la sua Sheila con la numerosissima e ben
scalata prole sullo strepitoso yacht che si era
comprato e fece rotta verso oriente.
Attraccò
al porto da cui era partito, proprio sotto il
paesello natio, un
villaggetto senza tempo
abbarbicato su per i pendii impolverati di una
petrosa montagna, eternamente condannato ad
un’asfittica economia agro-pastorale.
Al suo arrivo,
tutta la gente del luogo - padre in testa -
corse incontro al redivivo, di cui ben poco si
sapeva dal lontano giorno in cui era partito.
Furono baci affettuosi, abbracci calorosi,
racconti meravigliosi. E fu gioia in ogni
casa. Kemal, infatti, aveva pensato proprio a
tutto ed a tutti: la grande fortuna di uno
doveva essere anche la piccola fortuna di
ognuno, foss’anche solo un regalino. Quella
notte passò così, tra canti e balli, in gran
festa.
Il mattino dopo, di buon’ora, Kemal fu
svegliato bruscamente da sei miliziani che lo
strascinarono senza troppi complimenti
davanti
all’Alta Corte dei Saggi, i quali - venuti a
conoscenza della sua trascorsa attività di
fabbricante di pesci - all’istante decisero
unanimemente di condannarlo ad una pena
severissima. La motivazione della sentenza fu:
«Un
uomo non deve fare ciò che può fare solamente
Allah».
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Prodotto alimentare a base di farina di
pesce, che si presenta come gommoso impasto
bianco, sovente colorato di arancione sulla
superficie esterna. È conosciuto anche col
nome di polpa dì
granchio.
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Racconto
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