Il Convivio
 
A. IV n. 4
Ottobre - Dicembre 2003

  Franco Querini
L’uomo che fabbricava pesci 

«Allah ti protegga, figliolo! Vai dove ti porta il cuore. Sappi solo che dovrai molto lavorare, molto sudare e molto faticare; e non ti saranno risparmiate neppure le umiliazioni. Io però ti conosco, so bene quanto sei forte, saggio e coraggioso: sono certo che saprai farti valere anche nel tuo nuovo paese, come già hai fatto in questo, dove però la terra è troppo avara per sfamare tutte le bocche della famiglia... Vai, figliolo, sii sempre fedele alla tua Sheila e - mi raccomando - crescete bene i vostri figli, che sono la vostra unica vera ricchezza!».
Un lungo abbraccio ed un bacio suggellarono le ultime parole del padre di Kemal sulla banchina del porto da dove stava per staccarsi la sbilenca carretta del mare, stracolma di speranze e di disperati pronti a giocarsi tutto all’en plein della vita.
Nella nuova patria Kemal si diede subito da fare: manovale, cuoco, strillone, lavamacchine, badante... Qualsiasi lavoro andava bene, ovunque, purché gli desse quello che bastava per tirare avanti la frugale famiglia e gli meritasse l’ammirazione e l’affetto di Sheila, prodiga di dolci abbandoni e di figli sorridenti.
Questi lavori precari non davano però sufficiente sicurezza e stabilità al bilancio familiare. Fu così che Kemal cominciò a pensare ad attività meno estemporanee e più stanziali; pur anche stagionali; magari in proprio.
Raggranellando i pochi risparmi strasudati, si decise al gran salto verso il lavoro autonomo: d’estate vendeva angurie ghiacciate a fette e d’inverno fumanti caldarroste a cartoccetti. Sbarcava così il lunario, e non solo nelle due piene stagioni: restava pure qualcosa per tirare avanti negli intervalli tra i lavoretti occasionali con cui riempiva le stagioni morte.
Non aveva però fatto i conti con l’avanzare inesorabile del progresso tecnologico e del quadro politico internazionale: da una parte la bio-ingegneria genetica, inventando le mini-angurie monoporzione, gli aveva sottratto una grossa fetta (è proprio il caso di dirlo!) di mercato, in quanto la gente, anziché sputacchiare neri semini in compagnia di allegri quanto casuali amiconi notturni nelle piazze, preferiva sbrodolarsi da sola in casa propria, stando comodamente seduta a tifare davanti alla tivù; dall’altra, le nuove ferree norme igieniche a tutela della salute del consumatore, gl’imponevano di arrostire le sue castagne non più sopra la brace covata in un mezzo ex bidone d’olio industriale bucherellato ad arte, bensì in un lustro braciere ipertecnologico d’acciaio inossidabile. Ed anche il coltellino con cui incideva le scorze doveva essere monouso. Costi davvero insopportabili, che erodevano inesorabilmente le sparute risorse economiche di un’impresa di quelle dimensioni!
Di fronte alla crisi congiunturale, sorda alle men che elementari esigenze della famiglia - esigenze che aumentavano di pari passo con l’aumentare del numero di figli extracomunitari che annualmente produceva - Kemal si convinse che l’unica via d’uscita era compiere un ulteriore passo avanti: l’occupazione a tempo pieno. Fu così che allargò l’ambito delle sue attività commerciali: agli angoli delle strade vendeva cassette di pesche o di pesce, a seconda delle mezze stagioni; per reclamizzare i suoi prodotti utilizzava un unico cartello, cui toglieva od aggiungeva un’acca, riuscendo così a realizzare significative economie di scala.
Una volta che non riuscì a smerciare tutto il pesce e la rimanenza, dopo alcuni pasti domestici, gli andò a male in quanto non aveva frigorifero per conservarla, si ritrovò davanti ad una poltiglia maleolente, rifiutata anche dal più indignato dei gatti randagi: assolutamente inutilizzabile. Ma che era un gran peccato sprecare, pensava.
Mentre si arrovellava il cervello per inventarsi il modo di poter riemergere da quella batosta finanziaria che rischiava di buttarlo fuori mercato, Kemal ebbe come una folgorazione: gli balenò in mente l’idea di scartare il marciume del pesce e di recuperare le sole lische, per inserirle poi dentro vezzose formine di surimi[1], dall’aspetto simile ai pesciolini rossi dei cartoni animati. Lo slogan “Fish for kids” promosse un prodotto rivoluzionario nel suo genere, solamente da diliscare e mangiare con grande tranquillità, essendo privo di altre spine traditrici.
Fu un successone, superiore a qualsiasi aspettativa, in quanto ne rimasero ingolositi non solo i bambini, ma anche gli adulti, che ritrovavano in quei simulacri ittici i variopinti brandelli della loro perduta gioventù, e quindi ne facevano frequenti ed abbondanti pasti simbolici.
Le richieste cominciarono a piovere da ogni dove, al punto che Kemal iniziò una raccolta sistematica di lische d’ogni forma e dimensione, dando così avvio ad una vera e propria piccola attività regolare, non ben definibile dal punto di vista normativo: ittico-conserviera? di trasformazione? artistica? La Camera di Commercio optò per classificarla come “industria estrattiva”. Il grande passo verso l’imprenditoria privata era finalmente compiuto!
Anche i lussuosi ristoranti specializzati in pesce fresco apprezzavano questo innovativo prodotto, per svariati motivi: la lunga conservazione, la dimensione rigorosamente standardizzata, l’aspetto allegro della pietanza, la facilità di cottura e di servizio, senza più interiora e squame da pulire. Con quelli più importanti si stabilirono addirittura dei veri e propri contratti di buy-back, col riacquisto a prezzi prefissati delle lische - se integre - utilizzate nelle precedenti forniture.
A mano a mano che il nuovo pesce si affermava su tutte le tavole, Kemal cominciò a lanciarne delle varianti per soddisfare specifiche esigenze, non volendo trascurare neppure i mercati cosiddetti “di nicchia”: ad esempio, cefali al sapore di tamarindo, di cui si dimostravano ghiotte le belle signore della buona borghesia, oppure una specie di pesce-palla colorato di marrone, rosso, verde e oro al sapore di fagiano tartufato, fatto apposta per i cacciatori dotati di mira poco affinata e di palato molto raffinato. Il massimo dei massimi lo raggiunse, però, con il pesce parlante. Era, questo, un buffo delfinotto fucsia e verdino - nelle versioni da sei e da dodici porzioni - studiato appositamente per le feste di compleanno, e che, grazie ad una minuscola batteria ad accumulo di calore che alimentava un circuito elettronico miniaturizzato, non appena si cominciava ad affettarlo si metteva a fischiare “tanti auguri a te...” fino a quando non si raffreddava.
Gli affari andarono a gonfie vele, i soldi arrivarono a palate e Kemal, con la saggezza popolare che l’aveva forgiato in gioventù e sempre accompagnato nella maturità, decise che era giunto il momento di rientrare in patria, per godersi in pace gli ultimi bagliori di vigoria e gratificare il vecchio padre, confortandolo con quegli agi che gli erano mancati da sempre: vendette tutte le sue attività ad una multinazionale americana, imbarcò la sua Sheila con la numerosissima e ben scalata prole sullo strepitoso yacht che si era comprato e fece rotta verso oriente.
Attraccò al porto da cui era partito, proprio sotto il paesello natio, un villaggetto senza tempo abbarbicato su per i pendii impolverati di una petrosa montagna, eternamente condannato ad un’asfittica economia agro-pastorale.
Al suo arrivo, tutta la gente del luogo - padre in testa - corse incontro al redivivo, di cui ben poco si sapeva dal lontano giorno in cui era partito. Furono baci affettuosi, abbracci calorosi, racconti meravigliosi. E fu gioia in ogni casa. Kemal, infatti, aveva pensato proprio a tutto ed a tutti: la grande fortuna di uno doveva essere anche la piccola fortuna di ognuno, foss’anche solo un regalino. Quella notte passò così, tra canti e balli, in gran festa.
Il mattino dopo, di buon’ora, Kemal fu svegliato bruscamente da sei miliziani che lo strascinarono senza troppi complimenti davanti all’Alta Corte dei Saggi, i quali - venuti a conoscenza della sua trascorsa attività di fabbricante di pesci - all’istante decisero unanimemente di condannarlo ad una pena severissima. La motivazione della sentenza fu: «Un uomo non deve fare ciò che può fare solamente Allah».
[1] Prodotto alimentare a base di farina di pesce, che si presenta come gommoso impasto bianco, sovente colorato di arancione sulla superficie esterna. È conosciuto anche col nome di polpa dì granchio.

 Racconto

 

 Racconto