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Le foglie saranno parole
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Il titolo del nuovo
libro di Gianni
Rescigno “Le foglie
saranno parole”, edito
da Manni nel 2003,
parrebbe proporsi come
metafora di un
silenzio, proiettato
nel futuro e, forse,
riguardante un futuro
in cui il Creato non
avrà chi lo guardi
consapevolmente. Allora
le foglie al frusciare
del vento saranno,
insieme agli altri
suoni della natura,
forme diverse di
linguaggio naturale e
inconsapevole. Rescigno
pare delegato a
catalogare la bellezza
di quanto vede,
avvertendo dentro di sé
uno strappo, quasi
fosse incaricato di una
catalogazione del
cielo, del mare, della
terra, per ricordare
magari all’unico
superstite la bellezza
della terra.
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Il suo è un libro
tragico, nonostante i
colori tocca infatti
catturare la parola che
connota la natura di ogni
forma con le sue
meraviglie anche se
offese ed avvilite e
viste, a
volte, come superstiti di
un passato quando erano
più rigogliose e la
lettura terrestre
rispondeva alla musica
del sangue giovane dei
poeti. Ma anche la parola
è fuggente, perché
fra il dormire e il
non dormire c’è la
morte, il silenzio.
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Rescigno, a convalida di
questa mia intuizione,
teme che le parole
diventino «parole fredde:
/ pietre sull’anima»; ne
nasce la sua reazione che
vuole affermare la vita
creaturale e quella del
linguaggio poetico. Così
scrive parole “di
sole”, ma è un
ricordare l’ombra del
fuoco con un’intonazione
elegiaca di rimpianto che
lo distacca dalle memorie
pascoliane in un ‘De
rerum natura’ che
contempla lo spegnersi di
ogni forma vivente e le
continue trasformazioni.
Accorato il poeta annota:
«Rincorro le foglie...»,
in un’operazione di
recupero e di trapianto
quasi volesse
riattaccarle ai rami, pur
essendo sicuro del
rigetto o della
dispersione del vento.
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Il libro è pervaso tutto
dal senso della caducità
e le miserie di questo
nostro
tempo
degli oggetti si
insinuano anche nelle
anime come un veleno, da
qui l’ansia di
catalogare, di rivisitare
il mondo. «E il tempo
pare enorme / oppure ha
lo spazio / d’un
fazzoletto bagnato /
asciugato in fretta da un
canto di passero». Il
fazzoletto bagnato
connota il pianto, il
dolore che la poesia
(canto di passero)
tenta di asciugare e che
tuttavia non è
consolazione se non si
rapporta al progetto
divino di una crescita
della propria anima, in
quanto il messaggio
poetico è anch’esso
secondo i parametri umani
caduco.
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Colpisce davvero la
prefazione di Vincenzo
Guarracino, lettore in
assoluta sintonia col suo
poeta: anch’egli inizia
col cogliere il carattere
catalogale della poesia
di Rescigno in una sorta
di enumerazione: «C’è la
campagna e c’ è il mare,
ci sono venti e cieli,
suoni e odori di terra,
attese e stupori...». È
importante questo inizio
che dimostra di aver
compreso il senso
profondo di “Le foglie
saranno parole” che però
non si ferma alla
traduzione della natura
nel linguaggio ma lo
oltrepassa. La poesia qui
ha le connotazioni di
sempre, è vero, ma
oscilla tra lo stupore
d’incanto e quello di
solitudine, anzi si
sbilancia a contemplare
le perdite come se anche
la natura non fosse più
la stessa e ne cogliesse
il gemito.
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Guarracino, all’interno
di questo percorso
poetico, criticamente
scopre «tre livelli
espressivi, tre diverse
disposizioni morali e
concettuali: la
riflessione sulla parola
poetica (e qui - penso -
intervenga la criticità
dello stesso autore, ben
liofilizzata);
l’accettazione
della
propria
creaturalità
(e vi aggiungo: comune al
vivente ma disperata
nella consapevolezza di
sé) in una concezione per
così dire organicistica
del fare (farsi) poesia,
e infine la
contemplazione della
natura come obbedienza
stupita ai ritmi dei suoi
sensibili fantasmi».
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Da vero critico, da
autentico lettore prima,
Vincenzo Guarracino sa
introdurci al libro nel
modo più consono, nella
suggestione «del ricordo
di Saffo, di Alcmane e
Leopardi.» E per me che
conosco la poesia di
Gianni Rescigno, questa
critica empatica ed
insieme loica è una
consolazione. Tuttavia in
quest’ultima opera Gianni
Rescigno va oltre la
lezione pascoliana e
leopardiana per una
drammaticità che riesce
ad essere perfino
luminosa di colori e
ricca di melodie in una
disperazione rasserenata
dalla fede più scomoda
però perché vincolata
alle ‘prove’ del dolore.
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In “Le foglie saranno
parole” il messaggio è
fortemente allusivo, esce
dal particolare per
universalmente conoscersi
in tutti fino all’ultimo
uomo che, se per caso,
nella landa desolata di
distruzioni ed aridità,
dovesse trovare solo
questo libro, chiudendo
gli occhi ricorderebbe il
colore delle foglie ed il
loro rigoglio. E tutto
ciò perché il pregio
della poesia di Rescigno
sta nella comunicabilità
che porta in salvo un
granello della terra che
ama, perché dia un seme
di verità e bellezza.
Rescigno è poeta quanto
basta per parlare al
cuore di tutti e non mi
sembra cosa di poco
conto, io direi che
possiede una felicità
espressiva, una grazia
dialettale che,
penetrando nella lingua
italiana, ha concesso a
quello che pare un
linguaggio comune, una
carica di spontaneità di
vivezza sia nel dolore
che nella gioia.
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Credo sia inutile ormai
parlare di grande poesia
e di poesia minore,
classiche per critici
abituati a creare
barriere, diremmo invece
di poesia, quella che è
consegnata a tutti e che
troppi affossano o
disperdono, senza che
entri nel regno delle
parole o della vita.
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Dove il sole brucia le
vigne
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Il vero problema, oggi, è
dare un futuro alla
poesia, esprimendo il
proprio tempo
nell’abbraccio di
passato, presente e
futuro. Ma la poesia non
è solo un fatto
linguistico che si
sorregge alla musicalità
o alla dodecafonia
nettamente sperimentale,
ci vuole l’energia
dell’entusiasmo o del
dolore per dare
profondità e senso alla
parola.
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Il grande Bárberi
Squarotti subito pone
l’accento sulle tematiche
di Gianni Rescigno in
quello che forse è il suo
libro più bello, “Dove il
sole brucia le vigne”
(Genesi, 2003) e crediamo
di riscontrare tra il
critico e l’autore una
consentaneità che per
l’uno riguarda la vita ed
il suo amore alla
campagna,
alle colline, alla
natura, ma non la poesia
dove complice alquanto le
tessere naturali, per
l’altro è una forma di
mimesi. Subito Barberi
Squarotti ne scampa
l’insidia con le
proposizioni critiche: «Rescigno
tende a piegare a poco a
poco la descrizione e il
racconto in alto
compianto, perché
tante
forme
del
mondo sono
andate
perdute,
tanti paesaggi, tanti
minimi, ma fondamentali
momenti e aspetti della
scoperta della verità dei
sensi e del cuore (così
contraddittorie -
aggiungo - e quindi
caleidoscopio di verità
provvisorie) nel suo
luogo salernitano che è,
poi, quello di tutti
coloro che hanno
conosciuto le vicende
della vita della
campagna».
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Ne consegue
l’universalità del tema
ed una poesia che,
avvalendosi della lezione
pascoliana (che pure è
antesignana dell’
ermetismo), egli mi
appare anche una specie
rara di realista lirico,
dico rara in quanto il
rimpianto della natura
diviene elegiaca. Qui,
forse, sta l’originalità:
far sì che il passato, in
tempi tanto veloci e
dissacranti, non sia
dimenticato. Ecco allora
che Rescigno dà, per
riprendere l’inizio della
nota, un futuro alla
nostalgia agreste,
risolto spontaneamente
ogni conflitto
linguistico in una
musicalità sostanziata
più che onomatopeica. Ben
si comprende come il fine
orecchio musicale di
Marina Caracciolo ne sia
stato attratto, in quanto
l’armonia alla quale il
poeta tende, nella
tristezza, nella gioia,
«parte da nuclei vitali
per impregnarli della
sostanza umana», - come
afferma Francesco D’
Episcopo. Il critico
evidenzia il dialogo con
il Sud come ricerca dei
propri «archetipi più
ardenti, nel trascolorare
delle stagioni,
nell’avidità di atmosfere
possedute soprattutto
dentro la fermezza della
notte scandita dal bianco
totem lunare».
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Vi è nel testo un grande
amore per la vita che
genera appunto la
crudeltà del distacco non
solo da una natura, un
tempo rispettata e vista
con altri occhi, ma dal
se stesso della
giovinezza che il sole è
chiamato a simboleggiare,
nel mentre che in sé
contiene anche la morte
da cui nuovamente si
origina la vita. Le vigne
bruciano, i chicchi sono
rinsecchiti, si muore e
le viti restano spoglie,
le stagioni finiscono
nella precarietà di ogni
‘genere’, di ogni “regno”
del vivente. È «il grande
cerchio che ci conta gli
anni / e ce li brucia...»
- cita la Caracciolo che
aggiunge la bellissima
Parabola del sole,
contandone la sua
apparizione nelle poesie
trenta volte In
variazioni intese come
realtà materiale,
simbolica o metafisica.
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In sostanza la corona dei
critici è lusinghiera e
porta avanti una poesia
semplice, chiara,
fortemente comunicativa
(finalmente!) quale ci si
attende in tempi tanto
distratti e nemici...
degli ‘otia’ letterari.
Forse bisogna
ricominciare a parlare a
tutti? Ci ha pensato ad
allontanarci dal pubblico
l’omologazione televisiva
e tutti quei poeti che
hanno fatto della poesia
non “un chiaro enigma”
(il titolo è di un libro
della Montanelli), ma un
enigma dell’enigma.
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Rescigno tenta la via
dell’armonia, si fa
natura pensante,
sorpassando o
trasvolando le
degenerazioni
pascoliane del secondo
novecento e le stesse
banalità esemplari di
una mimesi che è solo
descrizione o racconto.
Tra le tante
rivisitazioni da fare,
ce n’è un’altra:
studiare come il
“Realismo Lirico” non
fosse descrizione o
racconto di sé e della
natura, ma nei migliori
esponenti esprimesse
quell’armonia che così
bene Rescigno sa
esprimere. È che
viviamo tempi distratti
e dei poeti anche
maggiori resta un
richiamo enciclopedico,
tristissimo. Il sole -
direbbe Rescigno - ha
cessato di splendere
con la loro vita! La
cittadella dei veri
poeti si fa sempre più
piccola nel mentre che
si riporta la
sensazione errata che
ve ne siano molti e che
l’espandersi della
cultura sia enorme.
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