Il Convivio
 
A. IV n. 4
Ottobre - Dicembre 2003

Gianni Rescigno: poeta sincero nelle sillogi Le foglie saranno parole e Dove il sole brucia le vigne

di Maria Grazia Lenisa

Le foglie saranno parole
Il titolo del nuovo libro di Gianni Rescigno “Le foglie saranno parole”, edito da Manni nel 2003, parrebbe proporsi come metafora di un silenzio, proiettato nel futuro e, forse, riguardante un futuro in cui il Creato non avrà chi lo guardi consapevolmente. Allora le foglie al frusciare del vento saranno, insieme agli altri suoni della natura, forme diverse di linguaggio naturale e inconsapevole. Rescigno pare delegato a catalogare la bellezza di quanto vede, avvertendo dentro di sé uno strappo, quasi fosse incaricato di una catalogazione del cielo, del mare, della terra, per ricordare magari all’unico superstite la bellezza della terra.
Il suo è un libro tragico, nonostante i colori tocca infatti catturare la parola che connota la natura di ogni forma con le sue meraviglie anche se offese ed avvilite e viste, a volte, come superstiti di un passato quando erano più rigogliose e la lettura terrestre rispondeva alla musica del sangue giovane dei poeti. Ma anche la parola è fuggente, perché fra il dormire e il non dormire c’è la morte, il silenzio.
Rescigno, a convalida di questa mia intuizione, teme che le parole diventino «parole fredde: / pietre sull’anima»; ne nasce la sua reazione che vuole affermare la vita creaturale e quella del linguaggio poetico. Così scrive parole “di sole”, ma è un ricordare l’ombra del fuoco con un’intonazione elegiaca di rimpianto che lo distacca dalle memorie pascoliane in un ‘De rerum natura’ che contempla lo spegnersi di ogni forma vivente e le continue trasformazioni. Accorato il poeta annota: «Rincorro le foglie...», in un’operazione di recupero e di trapianto quasi volesse riattaccarle ai rami, pur essendo sicuro del rigetto o della dispersione del vento.
Il libro è pervaso tutto dal senso della caducità e le miserie di questo nostro tempo degli oggetti si insinuano anche nelle anime come un veleno, da qui l’ansia di catalogare, di rivisitare il mondo. «E il tempo pare enorme / oppure ha lo spazio / d’un fazzoletto bagnato / asciugato in fretta da un canto di passero». Il fazzoletto bagnato connota il pianto, il dolore che la poesia (canto di passero) tenta di asciugare e che tuttavia non è consolazione se non si rapporta al progetto divino di una crescita della propria anima, in quanto il messaggio poetico è anch’esso secondo i parametri umani caduco.
Colpisce davvero la prefazione di Vincenzo Guarracino, lettore in assoluta sintonia col suo poeta: anch’egli inizia col cogliere il carattere catalogale della poesia di Rescigno in una sorta di enumerazione: «C’è la campagna e c’ è il mare, ci sono venti e cieli, suoni e odori di terra, attese e stupori...». È importante questo inizio che dimostra di aver compreso il senso profondo di “Le foglie saranno parole” che però non si ferma alla traduzione della natura nel linguaggio ma lo oltrepassa. La poesia qui ha le connotazioni di sempre, è vero, ma oscilla tra lo stupore d’incanto e quello di solitudine, anzi si sbilancia a contemplare le perdite come se anche la natura non fosse più la stessa e ne cogliesse il gemito.
Guarracino, all’interno di questo percorso poetico, criticamente scopre «tre livelli espressivi, tre diverse disposizioni morali e concettuali: la riflessione sulla parola poetica (e qui - penso - intervenga la criticità dello stesso autore, ben liofilizzata); l’accettazione della propria creaturalità (e vi aggiungo: comune al vivente ma disperata nella consapevolezza di sé) in una concezione per così dire organicistica del fare (farsi) poesia, e infine la contemplazione della natura come obbedienza stupita ai ritmi dei suoi sensibili fantasmi».
Da vero critico, da autentico lettore prima, Vincenzo Guarracino sa introdurci al libro nel modo più consono, nella suggestione «del ricordo di Saffo, di Alcmane e Leopardi.» E per me che conosco la poesia di Gianni Rescigno, questa critica empatica ed insieme loica è una consolazione. Tuttavia in quest’ultima opera Gianni Rescigno va oltre la lezione pascoliana e leopardiana per una drammaticità che riesce ad essere perfino luminosa di colori e ricca di melodie in una disperazione rasserenata dalla fede più scomoda però perché vincolata alle ‘prove’ del dolore.
In “Le foglie saranno parole” il messaggio è fortemente allusivo, esce dal particolare per universalmente conoscersi in tutti fino all’ultimo uomo che, se per caso, nella landa desolata di distruzioni ed aridità, dovesse trovare solo questo libro, chiudendo gli occhi ricorderebbe il colore delle foglie ed il loro rigoglio. E tutto ciò perché il pregio della poesia di Rescigno sta nella comunicabilità che porta in salvo un granello della terra che ama, perché dia un seme di verità e bellezza. Rescigno è poeta quanto basta per parlare al cuore di tutti e non mi sembra cosa di poco conto, io direi che possiede una felicità espressiva, una grazia dialettale che, penetrando nella lingua italiana, ha concesso a quello che pare un linguaggio comune, una carica di spontaneità di vivezza sia nel dolore che nella gioia.
Credo sia inutile ormai parlare di grande poesia e di poesia minore, classiche per critici abituati a creare barriere, diremmo invece di poesia, quella che è consegnata a tutti e che troppi affossano o disperdono, senza che entri nel regno delle parole o della vita.
 
Dove il sole brucia le vigne
Il vero problema, oggi, è dare un futuro alla poesia, esprimendo il proprio tempo nell’abbraccio di passato, presente e futuro. Ma la poesia non è solo un fatto linguistico che si sorregge alla musicalità o alla dodecafonia nettamente sperimentale, ci vuole l’energia dell’entusiasmo o del dolore per dare profondità e senso alla parola.
Il grande Bárberi Squarotti subito pone l’accento sulle tematiche di Gianni Rescigno in quello che forse è il suo libro più bello, “Dove il sole brucia le vigne” (Genesi, 2003) e crediamo di riscontrare tra il critico e l’autore una consentaneità che per l’uno riguarda la vita ed il suo amore alla campagna, alle colline, alla natura, ma non la poesia dove complice alquanto le tessere naturali, per l’altro è una forma di mimesi. Subito Barberi Squarotti ne scampa l’insidia con le proposizioni critiche: «Rescigno tende a piegare a poco a poco la descrizione e il racconto in alto compianto, perché tante forme del mondo sono andate perdute, tanti paesaggi, tanti minimi, ma fondamentali momenti e aspetti della scoperta della verità dei sensi e del cuore (così contraddittorie - aggiungo - e quindi caleidoscopio di verità provvisorie) nel suo luogo salernitano che è, poi, quello di tutti coloro che hanno conosciuto le vicende della vita della campagna».       
Ne consegue l’universalità del tema ed una poesia che, avvalendosi della lezione pascoliana (che pure è antesignana dell’ ermetismo), egli mi appare anche una specie rara di realista lirico, dico rara in quanto il rimpianto della natura diviene elegiaca. Qui, forse, sta l’originalità: far sì che il passato, in tempi tanto veloci e dissacranti, non sia dimenticato. Ecco allora che Rescigno dà, per riprendere l’inizio della nota, un futuro alla nostalgia agreste, risolto spontaneamente ogni conflitto linguistico in una musicalità sostanziata più che onomatopeica. Ben si comprende come il fine orecchio musicale di Marina Caracciolo ne sia stato attratto, in quanto l’armonia alla quale il poeta tende, nella tristezza, nella gioia, «parte da nuclei vitali per impregnarli della sostanza umana», - come afferma Francesco D’ Episcopo. Il critico evidenzia il dialogo con il Sud come ricerca dei propri «archetipi più ardenti, nel trascolorare delle stagioni, nell’avidità di atmosfere possedute soprattutto dentro la fermezza della notte scandita dal bianco totem lunare».
Vi è nel testo un grande amore per la vita che genera appunto la crudeltà del distacco non solo da una natura, un tempo rispettata e vista con altri occhi, ma dal se stesso della giovinezza che il sole è chiamato a simboleggiare, nel mentre che in sé contiene anche la morte da cui nuovamente si origina la vita. Le vigne bruciano, i chicchi sono rinsecchiti, si muore e le viti restano spoglie, le stagioni finiscono nella precarietà di ogni ‘genere’, di ogni “regno” del vivente. È «il grande cerchio che ci conta gli anni / e ce li brucia...» - cita la Caracciolo che aggiunge la bellissima Parabola del sole, contandone la sua apparizione nelle poesie trenta volte In variazioni intese come realtà materiale, simbolica o metafisica.
In sostanza la corona dei critici è lusinghiera e porta avanti una poesia semplice, chiara, fortemente comunicativa (finalmente!) quale ci si attende in tempi tanto distratti e nemici... degli ‘otia’ letterari. Forse bisogna ricominciare a parlare a tutti? Ci ha pensato ad allontanarci dal pubblico l’omologazione televisiva e tutti quei poeti che hanno fatto della poesia non “un chiaro enigma” (il titolo è di un libro della Montanelli), ma un enigma dell’enigma.
Rescigno tenta la via dell’armonia, si fa natura pensante, sorpassando o trasvolando le degenerazioni pascoliane del secondo novecento e le stesse banalità esemplari di una mimesi che è solo descrizione o racconto. Tra le tante rivisitazioni da fare, ce n’è un’altra: studiare come il “Realismo Lirico” non fosse descrizione o racconto di sé e della natura, ma nei migliori esponenti esprimesse quell’armonia che così bene Rescigno sa esprimere. È che viviamo tempi distratti e dei poeti anche maggiori resta un richiamo enciclopedico, tristissimo. Il sole - direbbe Rescigno - ha cessato di splendere con la loro vita! La cittadella dei veri poeti si fa sempre più piccola nel mentre che si riporta la sensazione errata che ve ne siano molti e che l’espandersi della cultura sia enorme.