Il Convivio
 
A. IV n. 4
Ottobre - Dicembre 2003

 Per non inventarmi di Margherita Rimi (Kepos 2002)

È compito arduo leggere e commentare uno scritto! Leggere dentro delle pagine che sino a poc’anzi ci erano del tutto ignote, estranee; leggere a fondo quelle righe con le quali adesso per la prima volta ci stiamo rapportando, che solo al presente stiamo sfiorando con lo sguardo, stiamo palpando con le dita, stiamo passando allo scanner della mente. Leggere, correttamente intendere e trasferire, partecipare ad altri, gli esiti della nostra lettura... Come giammai in precedenza abbiamo sentito opportuno, allo scopo di tentare una interpretazione quanto più autentica del lavoro, cominciare dal titolo della raccolta, interrogarci su quel verbo, INVENTARE, che da solo compendia l’opera tutta. Inventare, recita il dizionario, significa “escogitare con l’ingegno, creare una cosa nuova e utile, creare con l’immaginazione fatti, personaggi e simili”; ma anche “dire cose non vere” (inventare delle calunnie, ad esempio, inventare delle scuse). Quest’ultima accezione, specie se - come del resto l’Autrice ci impone - volta al negativo, è assai intrigante, allettante. Il risultato difatti che, con questo taglio, il titolo nella sua estensione completa assume è insospettato; l’effetto, con questa chiave di lettura, rivelatore (?): per non dirmi cose non vere, PER NON MENTIRE A ME STESSA. Dunque, per dire il vero; per ammettere la verità. A se stessa per prima e, bensì, a noi tutti, suoi lettori, suo pubblico eletto, giacché ella, con la pubblicazione, ha inteso rendersi pubblica, ha preteso rivelarsi. Ma (un dilemma di ritorno ci assale) rivelare, confessare cosa? Affrancarsi da che? La risposta è… inoltrarci, affrontare il testo! Una frase di Virginia Woolf «Ho bisogno di un gergo come quello degli innamorati», posta sull’uscio dei componimenti, sembra lanciarci un segnale, metterci sull’avviso, anticiparci un indizio. E, non appena varcata la soglia, ci imbattiamo in una dichiarazione programmatica: «Ho lasciato / che i miei occhi / diventassero ciechi / perché tutto / fosse creduto / Perché essere amata / costasse / l’illusione di amare.» L’amore dunque il tema centrale, il nucleo di questa silloge! Un amore, apprendiamo, travagliato: «Non mi volevi / quello / che potevo essere.», «Mi volevi / quello / che non potevo / essere», «Né alla vita / né alla morte / questo posare impervio», opprimente: «Come faccio a respirare / con orizzonti / sul petto». «Le sere / hanno / una prigione», «Tutto può aspettare / senza accadere».Un amore, già finito: «Non mi trattiene più / il tuo richiamo», «Abituo parti di me stessa / a distaccazioni», «Sono sola / e necessaria», forse: «… ingovernabile sogno / ricompari.», «Alle promesse / ho ricreduto (ceduto) ancora», «Prima che mi / ritrovi / avrò tentato / ancora / di / non / amarti». Un amore, desumiamo da queste tracce, motivo di afflizione laddove non di annichilimento («Quando di me / non sapevo che farne»), causa di conflitto interiore per l’Autrice, di frizione tra lei e il mondo e miraggio di fuga da questo («La luna… per farsi / prendere / per farsi ritrovare») alla volta (vana) di una dimensione alta e altra di se stessi e dell’Amore. E nondimeno l’amore (il ripetuto lacerarsi perdere i pezzi frantumarsi, cadere e sollevarsi non costituisce forse una delle sue prerogative?) è solo uno degli elementi di quest’opera; quello che la tiene alla fonda.
Marco  Scalabrino