Il Convivio
 
A. IV n. 4
Ottobre - Dicembre 2003

 Giuseppe Verdi: Ricordo del sommo maestro

Sono trascorsi esattamente cento anni dacché il maestro Giuseppe Verdi ha concluso il suo itinerario terreno. E se ora il suo corpo giace immobile e senza vita nella cripta della casa di riposo per musicisti a Milano, da lui fatta costruire e a lui intitolata, la sua grande anima continua a guardarci da altre dimensioni, sdegnosa della falsità di questo mondo, un po’ austera e burbera, come lo era in vita. È vero, sono trascorsi cent’anni dalla sua morte, e con essi più generazioni e due terribili guerre mondiali. Eppure anche in questa nostra epoca, così violenta e poco propensa all’arte e ai valori spirituali, il suo nome continua a correre sulle labbra e nel pensiero di tutti coloro che amano la vera musica, quasi fosse un personaggio ancora vivente e operante tra di noi. Le stagioni liriche di tutto il mondo continuano a inaugurarsi e a basarsi nel nome prestigioso di Verdi.
Il Maestro, nella più ammirabile delle sue virtù, la modestia, era avvezzo a dire ai suoi interlocutori che le sue opere sarebbero rimaste sulle scene non più di quaranta o cinquanta anni (almeno quelle di maggior successo); poi sarebbero state dimenticate, come tutti i frutti del limitato ingegno umano. È destino degli esseri umani, caro Verdi, a passare, prima o poi, nel dimenticatoio; di quasi tutti gli uomini. Ma ci sono alcun esseri privilegiati, il cui privilegio sta nel “non morire”, nel continuare a vivere nelle generazioni future. Questi esseri privilegiati sono i grandi artisti, i geni. Se il maestro potesse vedere il successo che le sue opere, le sue creature predilette, mietono ancora oggi sui palcoscenici di tutto il mondo, rimarrebbe, se non stupito, almeno meravigliato. La sua popolarità non accenna a diminuire (perfino Bach, Mozart e Rossini hanno conosciuto momenti di dimenticanza e di oblio) e le sue opere continuano a stupire e a meravigliare i pubblici di tutto il mondo.
Vani sarebbero in questo giorno, nello stesso tempo triste e festoso, discorsi commemorativi, ricordanze altisonanti, memoriali patinati, o altre cose del genere. Tutto questo il più delle volte non soddisfa il vero amico verdiano, anzi, più spesso lo annoia. Chi infatti non conosce, almeno in parte, la vita e i “miracoli” di questo grande artista? Farà senza dubbio più piacere riascoltare un bel pezzo della sua musica, specialmente quella poco eseguita e ritenuta, non sempre a ragione, “minore”, rivedere qualche sua rara fotografia, commemorandolo in noi stessi, nell’intimità dei nostri cuori. Io ho avuto l’inaspettata gioia di trovare, per caso, su un vecchio giornale illustrato, una foto rarissima del Maestro. La fotografia ce lo mostra proprio il giorno prima che fosse colpito dall’ictus che doveva poi portarlo, in breve tempo, alla tomba.
Era una fredda mattina del 21 gennaio del 1901, e Verdi faceva, senza saperlo, la sua ultima, breve passeggiata per le nebbiose e uggiose vie di Milano. È una modesta, ma nitida immagine, che mi ha commosso fino alle lacrime. Non mi stanco mai di rimirarla; ogniqualvolta la riprendo in mano, mi pare di scoprire un nuovo lato della personalità di Verdi, una parte dei pensieri che dovevano attraversare, in quella gelida mattinata milanese, la mente del grande Vegliardo. Vestiva il suo abituale mantello nero e il grande cilindro di eguale colore. La sua bella barba bianca gli incorniciava il volto asciutto e triste, creando un netto e felice contrasto con il mantello e il cilindro. Il suo portamento era diritto, fiero, nonostante gli anni. Il capo era però leggermente chinato sul petto; sul volto marcato dell’età si leggeva un’ombra di persistente malinconia e di profonda tristezza. Egli camminava lentamente per le vie di Milano, ma di certo non vedeva la gente che gli passava accanto e il traffico che scorreva davanti ai suoi occhi. Il Signore gli aveva concesso il raro privilegio di dare uno sguardo sul ventesimo secolo, che si era appena aperto, ma egli era certamente cosciente della fine che si stava inesorabilmente avvicinando e della sua epoca che era irrimediabilmente tramontata alle sue spalle.
Il nuovo secolo, di cui stava ora calpestando l’uscio, non era più il suo. Egli vi arriva da estraneo, da ospite. Non per niente il suo capo pendeva triste sul petto e il suo volto era attraversato da un velo di incancellabile malinconia. Quando si raggiungono i sessant’anni, già molti vuoti serpeggiano nella ristretta cerchia dei familiari e degli amici. Ma Verdi aveva ormai ottantasette anni, età prestigiosa, a quei tempi, specialmente se coronata da quella sua eccezionale vitalità, ed era praticamente solo. Parola terribile per un uomo vecchio! Tutte le persone a lui care riposavano da tempo nel sonno dei giusti. Anche la sua fedele compagna, Giuseppina Strepponi, la sua “Peppina”, se ne era andata già da tre anni. Ora era veramente solo. La stima e l’enorme popolarità di cui godeva dovunque non bastavano di certo a lenire questo profondo e incolmabile senso di solitudine. Rivediamo così Verdi in quel suo ultimo pellegrinare per le strade di Milano, con tutti questi ricordi nel prezioso scrigno del cuore. Il cuore del Musico per eccellenza, che se ne stava ora in silenzio, dopo aver cantato per più di mezzo secolo melodie immortali e indimenticabili. Anche i pensieri e i tormenti che attraversavano la spaziosa fronte verdiana sembrano passare sulla fredda immagine eternata dalla fotografia.
Dopo aver perduto tutto quello che di più caro aveva al mondo, dopo aver concluso la sua prestigiosa carriere con la mirabile risata di Falstaff, dopo aver visto gli albori del nuovo secolo, ora Verdi aspetta, con serenità, la liberazione definitiva dalle cose che non gli appartengono più; aspetta la Morte! Come sembra terribile e odiosa questa parola a tanta gente. Ma non a Verdi! Egli aveva saputo incanalarle con maestria in tanti suoi personaggi, aveva saputo darle accenti terribili e nello stesso tempo struggenti. Egli la conosceva perciò bene e la rispettava. Ora la stava spettando, non per uno dei suoi personaggi, ma per sé stesso, tranquillo e senza timore. Chi non ha debiti con gli uomini ed è in pace con Dio non può certamente temerla. E Lei non si fece attendere molto. La mattina dopo, il 22 gennaio 1901, gli fece improvvisamente visita; lo fece stendere sul grande letto dell’albergo in cui, gli ultimi tempi, viveva, e gli chiuse gli occhi. Il grande Moribondo lottò tenacemente per sette giorni contro di Lei (perché dispiace l’addio definitivo alla vita, anche quando non ha più niente di valido da offrirci). In quei terribili e solenni istanti, la sua anima, rifugiatasi tra le pieghe della mente, sempre lucida, esitava a staccarsi dal fardello del corpo. Sotto le palpebre immote brulicava invece la vita.
Ritornavano le immagini della povera, ma pur sempre lieta, infanzia, ritornavano i ricordi dei grandi sacrifici fatti per potersi affermare in un mondo difficile e spesso ingrato, ma verso il quale sentiva una vocazione bruciante, nella quale unicamente avrebbe potuto e saputo esprimere tutto se stesso. Ritornava, come uno spettrale incubo, il giorno del suo clamoroso insuccesso, in quell’opera buffa che aveva dovuto giocoforza terminare, a poca distanza dalla morte della moglie e di entrambi i suoi figlioletti; ritornavano luminosi e festosi i giorni dei suoi trionfali successi. Poi si trovò dinanzi alle numerose opere di carità che aveva profuse a piene mani, spesso in assoluto silenzio, fino alla perla della sua Casa di riposo per musicisti, da poco terminata. Aveva fatto del bene senza aspettare la morte. Tutto quello che la sua anima gli aveva consigliato di fare, l’aveva eseguito.
E rivisse anche il suo lancinante dramma di padre mancato, l’amarezza sua, e di “Peppina”, di non potere avere figli. I due avuti dalla prima moglie se ne erano andati in fretta, insieme a lei, tanto che non ne ricordava neppure i tratti. A “Peppina” non aveva mai fatto il minimo rimprovero; non era, d’altronde, certo colpa sua, povera donna. La ferita tornava però a sanguinare copiosa ogniqualvolta egli si accingeva a musicare un nuovo lavoro dove ci fosse il minimo accenno all’amore paterno. E proprio da questo lancinante dolore, da questa paternità mancata, egli doveva creare le pagine più belle e indimenticabili della sua musica, pagine nelle quali il padre mancato dà sfogo a tutta la sua amarezza. Pagine e melodie intessute di accenti struggenti.
Qual è infatti la parte migliore della Traviata? Senz’ombra di dubbio la scena nella quale il vecchio Germont rivela al figlio, e ancora prima a Violetta, l’immenso sacrificio da lui sostenuto per averlo cresciuto ed educato, e lo prega disperatamente di non andarsene, perché è ormai l’unica consolazione della sua solitaria vecchiaia. Non salgono forse al cuore quelle frasi piene di malcelato pianto, di appassionata preghiera, di svelato amore? E nel Simon Boccanegra, le pagine più alte e sentite non sono forse quelle tra il vecchio Simone e la figlia ritrovata? E nelle Luisa Miller, chi non prova almeno un brivido di commozione, quando il povero, vecchio e derelitto padre se ne va per le infinite strade del mondo, tenendo stretta, sottobraccio, la figlia? Soli, poveri, ma infinitamente felici; felici di un amore che è più grande di ogni altra felicità umana. La musica sale qui ad altezze vertiginose. E nel Rigoletto? Sono passati quasi centocinquanta anni dalla sua prima rappresentazione alla “Fenice” di Venezia; ma cosa sono tanti anni per una creazione immortale come questa, che è, almeno per me, l’opera più perfetta, dal punto di vista melodrammatico, del maestro, come perfetto si può dire di un dramma di Shakespeare.
Quanto sia veramente uomo tra gli uomini questo buffone, gobbo e difforme, capace di brutali sarcasmi, di agghiaccianti maledizioni, di terribili vendette, nei momenti di affettuoso, paterno amore per la figlia, tenuta gelosamente nascosta agli sguardi cupidi degli uomini, ce lo svela la musica di Verdi, con profondità che sgorga dal cuore e dai sentimenti di un padre mancato. Dalle palpebre chiuse, apparentemente senza vita, dovette certo sgorgare una lacrima al cospetto di questi ricordi, una calda lacrima di rimpianto per la vita che se ne va, per la vita che, seppure piena di dolori, di amarezze, di delusioni, di volgarità e di brutture, merita pur sempre di essere vissuta.
Poi, nella notte immensa che sopraggiunge e che sta per avvolgerlo, ecco apparire un punto luminoso, che si ingrandisce a vista d’occhio e tutto lo investe: la luce dell’Amore. Premio per colui che ha gelosamente creato e profuso durante tutta la sua vita a piene mani, consolando se stesso e gli altri. Due giorni dopo, all’incerta luce del primo mattino, mentre infuria ancora la lotta tra il dominio delle tenebre e l’audacia del giorno che avanza, una folla grandiosa, immensa, accompagna Verdi verso la sua ultima dimora terrena. Ma ecco a un tratto, nell’enorme folla silenziosa, alcune voci intonare, dapprima incerte e tremolanti, il famoso coro del Nabucco: «Va’ pensiero sull’ali dorate…» Un’indicibile onda di commozione trema, come un acuto brivido serpeggiante, su quel nereggiare denso e compatto. Dalle gole, chiuse da singhiozzi struggenti, si alza, sempre più forte e sicura, la dolcissima melodia verdiana, simbolo inconfondibile di tutta la sua vasta popolare produzione, fino a formare il più sincero e commovente coro che mai si sia udito.
È l’addio che a Verdi avrebbe fatto più piacere; l’addio commosso e sincero della gente comune per la quale aveva creato quelle musiche che sorgevano dalle profondità della sua anima e dall’immediatezza del suo cuore. Era come se tanti fratelli accompagnassero il più degno tra di loro al giusto e meritato riposo. Contemporaneamente anche le genti di tutte le città italiane scendevano in piazza per recare l’umile, ma spontaneo saluto d’addio al tanto amato Maestro. Perché, come disse D’Annunzio, nell’apprendere la triste notizia: «Ci nutrimmo di Lui come del pane!». Per non morire egli si era abbandonato alla creazione; ogni giorno della sua vita terrena egli staccava un piccolo lembo di sé, consegnandolo all’immortalità. La forza d’amore che passò attraverso la sua anima si rapprese in mondi sonori, che sono oggi, per i nostri cuori, la sua vera vita che continua. Non innalziamo perciò inutili rammarichi e stolti pianti per la sua scomparsa, ma attingiamo elementi di forza e di vita da quello che di Lui non può passare!