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Sono
trascorsi esattamente
cento anni dacché il
maestro Giuseppe Verdi ha
concluso il suo
itinerario terreno. E se
ora il suo corpo giace
immobile e senza vita
nella cripta della casa
di riposo per musicisti a
Milano, da lui fatta
costruire e a lui
intitolata, la sua grande
anima continua a
guardarci da altre
dimensioni, sdegnosa
della falsità di questo
mondo, un po’ austera e
burbera, come lo era in
vita. È vero, sono
trascorsi cent’anni dalla
sua morte, e con essi più
generazioni e due
terribili guerre
mondiali. Eppure anche in
questa nostra epoca, così
violenta e poco propensa
all’arte e ai valori
spirituali, il suo nome
continua a correre sulle
labbra e nel pensiero di
tutti coloro che amano la
vera musica, quasi fosse
un personaggio ancora
vivente e operante tra di
noi. Le stagioni liriche
di tutto il mondo
continuano a inaugurarsi
e a basarsi nel nome
prestigioso di Verdi.
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Il Maestro, nella più
ammirabile delle sue
virtù, la modestia, era
avvezzo a dire ai suoi
interlocutori che le sue
opere sarebbero rimaste
sulle scene non più di
quaranta o cinquanta anni
(almeno quelle di maggior
successo); poi sarebbero
state dimenticate, come
tutti i frutti del
limitato ingegno umano. È
destino degli esseri
umani, caro Verdi, a
passare, prima o poi, nel
dimenticatoio; di quasi
tutti gli uomini. Ma ci
sono alcun esseri
privilegiati, il cui
privilegio sta nel “non
morire”, nel continuare a
vivere nelle generazioni
future. Questi esseri
privilegiati sono i
grandi artisti, i geni.
Se il maestro potesse
vedere il successo che le
sue opere, le sue
creature predilette,
mietono ancora oggi sui
palcoscenici di tutto il
mondo, rimarrebbe, se non
stupito, almeno
meravigliato. La sua
popolarità non accenna a
diminuire (perfino Bach,
Mozart e Rossini hanno
conosciuto momenti di
dimenticanza e di oblio)
e le sue opere continuano
a stupire e a
meravigliare i pubblici
di tutto il mondo.
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Vani sarebbero in questo
giorno, nello stesso
tempo triste e festoso,
discorsi commemorativi,
ricordanze altisonanti,
memoriali patinati, o
altre cose del genere.
Tutto questo il più delle
volte non soddisfa il
vero amico verdiano,
anzi, più spesso lo
annoia. Chi infatti non
conosce, almeno in parte,
la vita e i “miracoli” di
questo grande artista?
Farà senza dubbio più
piacere riascoltare un
bel pezzo della sua
musica, specialmente
quella poco eseguita e
ritenuta, non sempre a
ragione, “minore”,
rivedere qualche sua rara
fotografia,
commemorandolo in noi
stessi, nell’intimità dei
nostri cuori. Io ho avuto
l’inaspettata gioia di
trovare, per caso, su un
vecchio giornale
illustrato, una foto
rarissima del Maestro. La
fotografia ce lo mostra
proprio il giorno prima
che fosse colpito
dall’ictus che doveva poi
portarlo, in breve tempo,
alla tomba.
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Era una fredda mattina
del 21 gennaio del 1901,
e Verdi faceva, senza
saperlo, la sua ultima,
breve passeggiata per le
nebbiose e uggiose vie di
Milano. È una modesta, ma
nitida immagine, che mi
ha commosso fino alle
lacrime. Non mi stanco
mai di rimirarla;
ogniqualvolta la riprendo
in mano, mi pare di
scoprire un nuovo lato
della personalità di
Verdi, una parte dei
pensieri che dovevano
attraversare, in quella
gelida mattinata
milanese, la mente del
grande Vegliardo. Vestiva
il suo abituale mantello
nero e il grande cilindro
di eguale colore. La sua
bella barba bianca gli
incorniciava il volto
asciutto e triste,
creando un netto e felice
contrasto con il mantello
e il cilindro. Il suo
portamento era diritto,
fiero, nonostante gli
anni. Il capo era però
leggermente chinato sul
petto; sul volto marcato
dell’età si leggeva
un’ombra di persistente
malinconia e di profonda
tristezza. Egli camminava
lentamente per le vie di
Milano, ma di certo non
vedeva la gente che gli
passava accanto e il
traffico che scorreva
davanti ai suoi occhi. Il
Signore gli aveva
concesso il raro
privilegio di dare uno
sguardo sul ventesimo
secolo, che si era appena
aperto, ma egli era
certamente cosciente
della fine che si stava
inesorabilmente
avvicinando e della sua
epoca che era
irrimediabilmente
tramontata alle sue
spalle.
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Il nuovo secolo, di cui
stava ora calpestando
l’uscio, non era più il
suo. Egli vi arriva da
estraneo, da ospite. Non
per niente il suo capo
pendeva triste sul petto
e il suo volto era
attraversato da un velo
di incancellabile
malinconia. Quando si
raggiungono i sessant’anni,
già molti vuoti
serpeggiano nella
ristretta cerchia dei
familiari e degli amici.
Ma Verdi aveva ormai
ottantasette anni, età
prestigiosa, a quei
tempi, specialmente se
coronata da quella sua
eccezionale vitalità, ed
era praticamente solo.
Parola terribile per un
uomo vecchio! Tutte le
persone a lui care
riposavano da tempo nel
sonno dei giusti. Anche
la sua fedele compagna,
Giuseppina Strepponi, la
sua “Peppina”, se ne era
andata già da tre anni.
Ora era veramente solo.
La stima e l’enorme
popolarità di cui godeva
dovunque non bastavano di
certo a lenire questo
profondo e incolmabile
senso di solitudine.
Rivediamo così Verdi in
quel suo ultimo
pellegrinare per le
strade di Milano, con
tutti questi ricordi nel
prezioso scrigno del
cuore. Il cuore del
Musico per eccellenza,
che se ne stava ora in
silenzio, dopo aver
cantato per più di mezzo
secolo melodie immortali
e indimenticabili. Anche
i pensieri e i tormenti
che attraversavano la
spaziosa fronte verdiana
sembrano passare sulla
fredda immagine eternata
dalla fotografia.
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Dopo aver perduto tutto
quello che di più caro
aveva al mondo, dopo aver
concluso la sua
prestigiosa carriere con
la mirabile risata di
Falstaff, dopo aver visto
gli albori del nuovo
secolo, ora Verdi
aspetta, con serenità, la
liberazione definitiva
dalle cose che non gli
appartengono più; aspetta
la Morte! Come sembra
terribile e odiosa questa
parola a tanta gente. Ma
non a Verdi! Egli aveva
saputo incanalarle con
maestria in tanti suoi
personaggi, aveva saputo
darle accenti terribili e
nello stesso tempo
struggenti. Egli la
conosceva perciò bene e
la rispettava. Ora la
stava spettando, non per
uno dei suoi personaggi,
ma per sé stesso,
tranquillo e senza
timore. Chi non ha debiti
con gli uomini ed è in
pace con Dio non può
certamente temerla. E Lei
non si fece attendere
molto. La mattina dopo,
il 22 gennaio 1901, gli
fece improvvisamente
visita; lo fece stendere
sul grande letto
dell’albergo in cui, gli
ultimi tempi, viveva, e
gli chiuse gli occhi. Il
grande Moribondo lottò
tenacemente per sette
giorni contro di Lei
(perché dispiace l’addio
definitivo alla vita,
anche quando non ha più
niente di valido da
offrirci). In quei
terribili e solenni
istanti, la sua anima,
rifugiatasi tra le pieghe
della mente, sempre
lucida, esitava a
staccarsi dal fardello
del corpo. Sotto le
palpebre immote brulicava
invece la vita.
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Ritornavano le immagini
della povera, ma pur
sempre lieta, infanzia,
ritornavano i ricordi dei
grandi sacrifici fatti
per potersi affermare in
un mondo difficile e
spesso ingrato, ma verso
il quale sentiva una
vocazione bruciante,
nella quale unicamente
avrebbe potuto e saputo
esprimere tutto se
stesso. Ritornava, come
uno spettrale incubo, il
giorno del suo clamoroso
insuccesso, in quell’opera
buffa che aveva dovuto
giocoforza terminare, a
poca distanza dalla morte
della moglie e di
entrambi i suoi
figlioletti; ritornavano
luminosi e festosi i
giorni dei suoi trionfali
successi. Poi si trovò
dinanzi alle numerose
opere di carità che aveva
profuse a piene mani,
spesso in assoluto
silenzio, fino alla perla
della sua Casa di riposo
per musicisti, da poco
terminata. Aveva fatto
del bene senza aspettare
la morte. Tutto quello
che la sua anima gli
aveva consigliato di
fare, l’aveva eseguito.
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E rivisse anche il suo
lancinante dramma di
padre mancato, l’amarezza
sua, e di “Peppina”, di
non potere avere figli. I
due avuti dalla prima
moglie se ne erano andati
in fretta, insieme a lei,
tanto che non ne
ricordava neppure i
tratti. A “Peppina” non
aveva mai fatto il minimo
rimprovero; non era,
d’altronde, certo colpa
sua, povera donna. La
ferita tornava però a
sanguinare copiosa
ogniqualvolta egli si
accingeva a musicare un
nuovo lavoro dove ci
fosse il minimo accenno
all’amore paterno. E
proprio da questo
lancinante dolore, da
questa paternità mancata,
egli doveva creare le
pagine più belle e
indimenticabili della sua
musica, pagine nelle
quali il padre mancato dà
sfogo a tutta la sua
amarezza. Pagine e
melodie intessute di
accenti struggenti.
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Qual è infatti la parte
migliore della
Traviata? Senz’ombra
di dubbio la scena nella
quale il vecchio Germont
rivela al figlio, e
ancora prima a Violetta,
l’immenso sacrificio da
lui sostenuto per averlo
cresciuto ed educato, e
lo prega disperatamente
di non andarsene, perché
è ormai l’unica
consolazione della sua
solitaria vecchiaia. Non
salgono forse al cuore
quelle frasi piene di
malcelato pianto, di
appassionata preghiera,
di svelato amore? E nel
Simon Boccanegra,
le pagine più alte e
sentite non sono forse
quelle tra il vecchio
Simone e la figlia
ritrovata? E nelle
Luisa Miller, chi non
prova almeno un brivido
di commozione, quando il
povero, vecchio e
derelitto padre se ne va
per le infinite strade
del mondo, tenendo
stretta, sottobraccio, la
figlia? Soli, poveri, ma
infinitamente felici;
felici di un amore che è
più grande di ogni altra
felicità umana. La musica
sale qui ad altezze
vertiginose. E nel
Rigoletto? Sono
passati quasi
centocinquanta anni dalla
sua prima
rappresentazione alla
“Fenice” di Venezia; ma
cosa sono tanti anni per
una creazione immortale
come questa, che è,
almeno per me, l’opera
più perfetta, dal punto
di vista melodrammatico,
del maestro, come
perfetto si può dire di
un dramma di Shakespeare.
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Quanto sia veramente uomo
tra gli uomini questo
buffone, gobbo e
difforme, capace di
brutali sarcasmi, di
agghiaccianti
maledizioni, di terribili
vendette, nei momenti di
affettuoso, paterno amore
per la figlia, tenuta
gelosamente nascosta agli
sguardi cupidi degli
uomini, ce lo svela la
musica di Verdi, con
profondità che sgorga dal
cuore e dai sentimenti di
un padre mancato. Dalle
palpebre chiuse,
apparentemente senza
vita, dovette certo
sgorgare una lacrima al
cospetto di questi
ricordi, una calda
lacrima di rimpianto per
la vita che se ne va, per
la vita che, seppure
piena di dolori, di
amarezze, di delusioni,
di volgarità e di
brutture, merita pur
sempre di essere vissuta.
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Poi, nella notte immensa
che sopraggiunge e che
sta per avvolgerlo, ecco
apparire un punto
luminoso, che si
ingrandisce a vista
d’occhio e tutto lo
investe: la luce
dell’Amore. Premio per
colui che ha gelosamente
creato e profuso durante
tutta la sua vita a piene
mani, consolando se
stesso e gli altri. Due
giorni dopo, all’incerta
luce del primo mattino,
mentre infuria ancora la
lotta tra il dominio
delle tenebre e l’audacia
del giorno che avanza,
una folla grandiosa,
immensa, accompagna Verdi
verso la sua ultima
dimora terrena. Ma ecco a
un tratto, nell’enorme
folla silenziosa, alcune
voci intonare, dapprima
incerte e tremolanti, il
famoso coro del Nabucco:
«Va’ pensiero sull’ali
dorate…» Un’indicibile
onda di commozione trema,
come un acuto brivido
serpeggiante, su quel
nereggiare denso e
compatto. Dalle gole,
chiuse da singhiozzi
struggenti, si alza,
sempre più forte e
sicura, la dolcissima
melodia verdiana, simbolo
inconfondibile di tutta
la sua vasta popolare
produzione, fino a
formare il più sincero e
commovente coro che mai
si sia udito.
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È l’addio che a Verdi
avrebbe fatto più
piacere; l’addio commosso
e sincero della gente
comune per la quale aveva
creato quelle musiche che
sorgevano dalle
profondità della sua
anima e dall’immediatezza
del suo cuore. Era come
se tanti fratelli
accompagnassero il più
degno tra di loro al
giusto e meritato riposo.
Contemporaneamente anche
le genti di tutte le
città italiane scendevano
in piazza per recare
l’umile, ma spontaneo
saluto d’addio al tanto
amato Maestro. Perché,
come disse D’Annunzio,
nell’apprendere la triste
notizia: «Ci nutrimmo di
Lui come del pane!». Per
non morire egli si era
abbandonato alla
creazione; ogni giorno
della sua vita terrena
egli staccava un piccolo
lembo di sé,
consegnandolo
all’immortalità. La forza
d’amore che passò
attraverso la sua anima
si rapprese in mondi
sonori, che sono oggi,
per i nostri cuori, la
sua vera vita che
continua. Non innalziamo
perciò inutili rammarichi
e stolti pianti per la
sua scomparsa, ma
attingiamo elementi di
forza e di vita da quello
che di Lui non può
passare!
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