Melania G. Mazzucco___________

A. V  n. 2 Aprile - Giugno 2004

Melania G. Mazzucco

e le motivazioni letterarie di «Vita»
di Luigi La Rosa


Melania Mazzucco ripercorre le motivazioni letterarie di «Vita», libro con cui ha conquistato il Premio Strega 2003 e dal quale verrà tratto un film per il cinema.


Una narratrice feconda, geniale e poeticissima, che si confronta apertamente con la passione della scrittura e il bisogno di lasciare il segno.


Un romanzo per comprendere una pagina irrinunciabile della storia del nostro Paese.


Da due anni abito a Roma, città che amo e ho scelto per vivere, scrivere, raccontare le mie storie. Da anni incontro scrittori e giovani autori che, come me, hanno fatto della parola il sogno della loro vita. La loro unica ragione d’esistere. Da qualche anno, poi, ho dalla mia la fortuna maggiore che la capitale poteva regalarmi. La conoscenza diretta, personale, amichevole di quella che la critica europea definisce, senza ombra di errore, la maggiore narratrice italiana dei giorni nostri: Melania G. Mazzucco.
Qualcuno ha paragonato il suo nome a quello di Elsa Morante. Giustamente. Qualcun altro ribadisce come i suoi romanzi siano tradotti in almeno dodici lingue diverse. Giustamente. E soprattutto, in soli trentasette anni di vita, una collezione di premi eccezionali che vanno dal Vittorini al Napoli, all’ultimo Strega 2003, conferitole nel luglio scorso.
La produzione della narratrice romana mette a nudo una verità importantissima: la certezza che è ancora possibile raccontare delle buone storie. Lo avevo capito sin da subito, dal giorno di molti anni addietro quando in una libreria messinese mi trovai a sfogliare le pagine del suo primo lavoro “Il bacio della Medusa” (Baldini & Castaldi, 1996).
Il libro era il primo dei suoi quattro, presto candidato a Strega e Viareggio, e caratterizzato da un titolo di singolare effetto poetico: «Il bacio della Medusa». Mi addentravo nelle esistenze autentiche delle due protagoniste del racconto (due donne mosse dal desiderio e dalla voglia di essere se stesse pur nell’intrico di un mondo indifferente e retto da ipocrite imposizioni) con quel senso di ebbrezza che sempre ci rapisce quando sentiamo che qualcosa di straordinario sta avvenendo sotto i nostri occhi... Ma Melania G. Mazzucco ha voluto offrirci qualcosa di più, ricollegandosi in modo commovente e insieme fedele all’eredità di se stessa e della propria famiglia.
«Vita» consacra definitivamente la scrittrice al primato artistico che le spettava di diritto. L’assegnazione del Premio Strega 2003 rappresenta l’apice di un successo assai meritato, che avevamo abbondantemente previsto e desiderato. La storia delle radici, di un uomo di nome Diamante (il nonno dell’autrice) che si trasferisce in America alla ricerca di fortuna. Che fugge da una condizione di povertà per trovare al di là dell’oceano la speranza di un domani migliore. E soprattutto la storia di Vita, questa donna magnifica, vitale, conturbante, di cui Diamante finisce per innamorarsi senza però imparare da lei la cosa più importante: il talento del vivere.
Vita rappresenta indubbiamente un altro dei poetici ritratti umani usciti dalla penna di Melania G. Mazzucco. Le appartengono grazia, mistero, onestà. E una scrittura che asseconda i registri cangianti del quotidiano, i suoni di tutto un popolo alla ricerca di sé, insieme ai turbamenti di quanti si videro costretti, senza sicurezza e garanzie di sopravvivenza, ad affrontare le difficoltà e le inquietudini del costruirsi una nuova identità sul suolo di una terra straniera, alle prese con lingue sconosciute, sotto un cielo inesplorato cui levare la propria nostalgia.
Incontrare l’autrice di «Vita» ha realmente rappresentato per me il coronamento di un sogno... Il mattino trascorso in compagnia della Mazzucco è sempre con me, voglio conservarlo tra i ricordi più belli. Insieme all’accoglienza nella sua casa affollata di libri, in una di quelle grigie giornate d’inverno che solo Roma sembra saperti regalare. Quel mattino posso affermare di aver conosciuto da vicino la più grande scrittrice italiana di questo secolo.
Come comincia il racconto di «Vita»?
«Vita» parte dalla leggenda legata alla figura di mio nonno. Di quest’uomo di cui si è discusso in famiglia, sapevo solo che era andato in America per fuggire la povertà ancestrale dei Mazzucco. È stata questa la motivazione prima che ha ispirato in me la vicenda narrativa del romanzo, spingendomi alla ricerca di quei rari documenti rimasti che potessero ridarmi le fila degli eventi. Le cose che avevo erano: un paio di occhiali di Diamante, alcune lettere mandate a nonna Elma, qualche brandello di giornale e una targa con sopra il nome di un Mazzucco di New York. Come una detective sono andata a caccia di quelle tracce che mi restituissero il sentimento di quelle esistenze lontane, cercando di colmare il vuoto attraverso le lettere e gli archivi esistenti.
Quanto erano distanti da te gli avvenimenti del romanzo?
Erano distanti eppure vicinissimi, perché in quegli stessi anni anche in Italia avveniva qualcosa di simile. Passando dalla stazione assistevamo alla presenza di un grandissimo numero di immigrati che, come quei nostri parenti andati in America mezzo secolo prima, cercavano da noi lo sbocco agli stenti dei loro paesi di provenienza. Anche loro si erano affidati a un sogno: quello di cambiare la loro vita.
E tutto questo richiede forza, coraggio, talento. Mentre pensavo di scrivere la storia di mio nonno mi guardavo intorno
e in quegli uomini vedevo la stessa disperazione.
A differenza di altri tuoi libri, in «Vita» tu stessa diventi personaggio insieme agli altri, mescolandoti all’intreccio della storia. È stato facile obbedire a questa volontà di rappresentazione?
Non è stato facile affatto. Scrivere di sé significa mettersi a nudo, darsi in pasto al lettore e questo implica inevitabilmente un atto di fiducia verso gli altri. Inoltre, questa scelta è stata dettata dall’idea che chi scrive acquisisce comunque libertà e privilegi rispetto a chi è morto e non può darci la sua testimonianza. Raccontare di mio nonno, mio padre e degli altri uomini appartenuti alla famiglia mi costringeva a una grandissima responsabilità perché mi permetteva di penetrare nel perimetro esistenziale di persone ormai lontane nel tempo e nello spazio. Scegliere di dar voce a me stessa come personaggio ha un po’ alleviato questo senso di responsabilità, facilitando in qualche modo la comprensione dei silenzi di chi non aveva più voce.
Melania Mazzucco prima e dopo lo Strega 2003. Cosa è cambiato nella tua vita?
Da un punto di vista strettamente narrativo nulla. Dall’altro punto di vista, e cioè dal punto di vista della sicurezza materiale, sono cambiate molte cose. Sapere di aver finalmente raggiunto un numero elevato di lettori è comunque una grandissima soddisfazione, che ti ripaga degli anni di attesa, silenziosa scrittura, rifiuti editoriali. Scrivere è un atto di comunicazione, per cui il successo di un autore finisce inevitabilmente col fare i conti anche col numero di lettori ai quali arriva il suo messaggio. Tanto più numerosi e vicini sono questi lettori, tanto più lo scrittore è riuscito a trasmettere il suo pensiero.
Quando hai avuto la percezione piena e completa del tuo successo?
Alcuni mesi addietro, durante una serata in teatro dedicata al libro. In quell’occasione non lontana, mi accorsi che anche le persone meno abituate alla frequentazione dei libri avevano letto con attenzione il romanzo. Si avvicinavano di continuo, mi facevano domande, erano incuriosite dal mestiere di scrittrice. Ecco, quella sera ho capito che la scrittura non era più qualcosa di confinato, di intellettualmente aristocratico, ma qualcosa che aveva il dovere di arrivare alla gente comune, quella di tutti i giorni, di qualsiasi estrazione sociale e culturale. E «Vita» è probabilmente il libro in cui questo tentativo si è compiuto in modo più profondo e riuscito, anche in virtù della vocazione sociale della storia e del fatto che essa coinvolge un momento fondamentale della memoria del paese.
Molti dei lettori rimangono colpiti dalla tua maniera di raccontare e mescolare tra loro i diversi piani temporali dell’azione. Come consideri questo procedimento narrativo?
Lo considero importante per il fatto che considero il tempo non lineare ma circolare e multiforme. Delle volte mi si dice che racconto sempre il presente. Probabilmente è vero, ma lo faccio perché quello che mi interessa è l’attimo presente, l’attimo stesso in cui il lettore sta raccogliendo il senso delle parole, in funzione del quale passato e futuro si trovano a interagire e convergere. Lo stesso accade nel mio metodo di scrittura…
In che senso?
Nel senso che io non ho scritto mai in maniera ordinaria e cronologica. Non sviluppo mai un capitolo dopo l’altro progressivamente, ma lavoro soprattutto per salti temporali, dando vita al capitolo trentotto e solo successivamente al capitolo undici. Anche nella redazione dei miei testi seguo questo principio di casualità, perché ritengo che non esista un tempo lineare nel quale si distendono gli eventi, ma il tempo varia in base a come noi lo percepiamo e in funzione del valore che diamo all’accadere di determinati eventi rispetto ad altri.
In molta scrittura ritorna la figura di tuo padre. Chi era realmente quest’uomo cui va il merito del tuo amore e della tua gratitudine?
Il merito umano di mio padre è legato alla gratitudine che qualsiasi figlia porta nei confronti di colui che l’ha messa al mondo. Credo sia più giusto discutere del merito letterario che ha avuto sulla mia formazione di scrittrice. I ricordi che ho di quest’uomo sono legati al suo senso di sacrificio.
Era uno scrittore che ha lavorato per il teatro con stagioni di grande fortuna alternate a periodi di sofferenza. Tuttavia, la sua costanza e la sua forza mi hanno insegnato a concepire la scrittura come qualcosa di estremamente artigianale, cui devi mettere te stesso, al limite delle forze. Ricordo le notti in teatro, i pomeriggi delle prove, dove ho potuto apprendere in modo diretto come si aggiusta il testo, come si lavora sul ritmo, come ci si confronta senza distogliere l’attenzione dal lavoro finché una cosa non abbia raggiunto la sua forma ultima e migliore. Ecco, se penso a mio padre penso a tutte queste cose, e sento di dovergli davvero molto. Tuttavia, mi trascino un unico piccolo dispiacere: quello di non esser riuscita a fargli vedere in tempo il successo che avrei avuto negli anni.
Hai in mente un nuovo romanzo?
Posso anticiparti che ho in mente non una, ma due possibili storie alle quali sto già lavorando. La prima dovrebbe essere ambientata ai giorni nostri, ed è un romanzo di carattere contemporaneo. La seconda dovrebbe invece narrare una figura vissuta nel diciannovesimo secolo, scomparsa senza lasciare tracce. Sto faticando a ricostruire la sua fisionomia, data la scarsità di fonti a disposizione. In ogni caso, so che ogni buona storia ha un suo tempo, e ogni scrittore vero deve imparare ad abbandonarsi alla scrittura secondo le necessità.