Melania Mazzucco ripercorre le
motivazioni letterarie di «Vita», libro con cui ha conquistato il
Premio Strega 2003 e dal quale verrà tratto un film per il cinema.
Una narratrice feconda, geniale e poeticissima, che si
confronta apertamente con la passione della scrittura e il bisogno
di lasciare il segno.
Un romanzo per comprendere una pagina irrinunciabile della
storia del nostro Paese.
Da due anni abito a Roma, città che amo e ho scelto per vivere,
scrivere, raccontare le mie storie. Da anni incontro scrittori e
giovani autori che, come me, hanno fatto della parola il sogno della
loro vita. La loro unica ragione d’esistere. Da qualche anno, poi,
ho dalla mia la fortuna maggiore che la capitale poteva regalarmi.
La conoscenza diretta, personale, amichevole di quella che la
critica europea definisce, senza ombra di errore, la maggiore
narratrice italiana dei giorni nostri: Melania G. Mazzucco.
Qualcuno ha paragonato il suo nome a quello di Elsa Morante.
Giustamente. Qualcun altro ribadisce come i suoi romanzi siano
tradotti in almeno dodici lingue diverse. Giustamente. E
soprattutto, in soli trentasette anni di vita, una collezione di
premi eccezionali che vanno dal Vittorini al Napoli, all’ultimo
Strega 2003, conferitole nel luglio scorso.
La produzione della narratrice romana mette a nudo una verità
importantissima: la certezza che è ancora possibile raccontare delle
buone storie. Lo avevo capito sin da subito, dal giorno di molti
anni addietro quando in una libreria messinese mi trovai a sfogliare
le pagine del suo primo lavoro “Il bacio della Medusa” (Baldini &
Castaldi, 1996).
Il libro era il primo dei suoi quattro, presto candidato a Strega e
Viareggio, e caratterizzato da un titolo di singolare effetto
poetico: «Il bacio della Medusa». Mi addentravo nelle esistenze
autentiche delle due protagoniste del racconto (due donne mosse dal
desiderio e dalla voglia di essere se stesse pur nell’intrico di un
mondo indifferente e retto da ipocrite imposizioni) con quel senso
di ebbrezza che sempre ci rapisce quando sentiamo che qualcosa di
straordinario sta avvenendo sotto i nostri occhi... Ma Melania G.
Mazzucco ha voluto offrirci qualcosa di più, ricollegandosi in modo
commovente e insieme fedele all’eredità di se stessa e della propria
famiglia.
«Vita» consacra definitivamente la scrittrice al primato artistico
che le spettava di diritto. L’assegnazione del Premio Strega 2003
rappresenta l’apice di un successo assai meritato, che avevamo
abbondantemente previsto e desiderato. La storia delle radici, di un
uomo di nome Diamante (il nonno dell’autrice) che si trasferisce in
America alla ricerca di fortuna. Che fugge da una condizione di
povertà per trovare al di là dell’oceano la speranza di un domani
migliore. E soprattutto la storia di Vita, questa donna magnifica,
vitale, conturbante, di cui Diamante finisce per innamorarsi senza
però imparare da lei la cosa più importante: il talento del vivere.
Vita rappresenta indubbiamente un altro dei poetici ritratti umani
usciti dalla penna di Melania G. Mazzucco. Le appartengono grazia,
mistero, onestà. E una scrittura che asseconda i registri cangianti
del quotidiano, i suoni di tutto un popolo alla ricerca di sé,
insieme ai turbamenti di quanti si videro costretti, senza sicurezza
e garanzie di sopravvivenza, ad affrontare le difficoltà e le
inquietudini del costruirsi una nuova identità sul suolo di una
terra straniera, alle prese con lingue sconosciute, sotto un cielo
inesplorato cui levare la propria nostalgia.
Incontrare l’autrice di «Vita» ha realmente rappresentato per me il
coronamento di un sogno... Il mattino trascorso in compagnia della
Mazzucco è sempre con me, voglio conservarlo tra i ricordi più
belli. Insieme all’accoglienza nella sua casa affollata di libri, in
una di quelle grigie giornate d’inverno che solo Roma sembra saperti
regalare. Quel mattino posso affermare di aver conosciuto da vicino
la più grande scrittrice italiana di questo secolo.
Come comincia il racconto di «Vita»?
«Vita» parte dalla leggenda legata alla figura di mio nonno. Di
quest’uomo di cui si è discusso in famiglia, sapevo solo che era
andato in America per fuggire la povertà ancestrale dei Mazzucco. È
stata questa la motivazione prima che ha ispirato in me la vicenda
narrativa del romanzo, spingendomi alla ricerca di quei rari
documenti rimasti che potessero ridarmi le fila degli eventi. Le
cose che avevo erano: un paio di occhiali di Diamante, alcune
lettere mandate a nonna Elma, qualche brandello di giornale e una
targa con sopra il nome di un Mazzucco di New York. Come una
detective sono andata a caccia di quelle tracce che mi restituissero
il sentimento di quelle esistenze lontane, cercando di colmare il
vuoto attraverso le lettere e gli archivi esistenti.
Quanto erano distanti da te gli avvenimenti del romanzo?
Erano distanti eppure vicinissimi, perché in quegli stessi anni
anche in Italia avveniva qualcosa di simile. Passando dalla stazione
assistevamo alla presenza di un grandissimo numero di immigrati che,
come quei nostri parenti andati in America mezzo secolo prima,
cercavano da noi lo sbocco agli stenti dei loro paesi di
provenienza. Anche loro si erano affidati a un sogno: quello di
cambiare la loro vita.
E tutto questo richiede forza, coraggio, talento. Mentre pensavo di
scrivere la storia di mio nonno mi guardavo intorno
e in quegli uomini vedevo la stessa disperazione.
A differenza di altri tuoi libri, in «Vita» tu stessa diventi
personaggio insieme agli altri, mescolandoti all’intreccio della
storia. È stato facile obbedire a questa volontà di
rappresentazione?
Non è stato facile affatto. Scrivere di sé significa mettersi a
nudo, darsi in pasto al lettore e questo implica inevitabilmente un
atto di fiducia verso gli altri. Inoltre, questa scelta è stata
dettata dall’idea che chi scrive acquisisce comunque libertà e
privilegi rispetto a chi è morto e non può darci la sua
testimonianza. Raccontare di mio nonno, mio padre e degli altri
uomini appartenuti alla famiglia mi costringeva a una grandissima
responsabilità perché mi permetteva di penetrare nel perimetro
esistenziale di persone ormai lontane nel tempo e nello spazio.
Scegliere di dar voce a me stessa come personaggio ha un po’
alleviato questo senso di responsabilità, facilitando in qualche
modo la comprensione dei silenzi di chi non aveva più voce.
Melania Mazzucco prima e dopo lo Strega 2003. Cosa è cambiato
nella tua vita?
Da un punto di vista strettamente narrativo nulla. Dall’altro punto
di vista, e cioè dal punto di vista della sicurezza materiale, sono
cambiate molte cose. Sapere di aver finalmente raggiunto un numero
elevato di lettori è comunque una grandissima soddisfazione, che ti
ripaga degli anni di attesa, silenziosa scrittura, rifiuti
editoriali. Scrivere è un atto di comunicazione, per cui il successo
di un autore finisce inevitabilmente col fare i conti anche col
numero di lettori ai quali arriva il suo messaggio. Tanto più
numerosi e vicini sono questi lettori, tanto più lo scrittore è
riuscito a trasmettere il suo pensiero.
Quando hai avuto la percezione piena e completa del tuo
successo?
Alcuni mesi addietro, durante una serata in teatro dedicata al
libro. In quell’occasione non lontana, mi accorsi che anche le
persone meno abituate alla frequentazione dei libri avevano letto
con attenzione il romanzo. Si avvicinavano di continuo, mi facevano
domande, erano incuriosite dal mestiere di scrittrice. Ecco, quella
sera ho capito che la scrittura non era più qualcosa di confinato,
di intellettualmente aristocratico, ma qualcosa che aveva il dovere
di arrivare alla gente comune, quella di tutti i giorni, di
qualsiasi estrazione sociale e culturale. E «Vita» è probabilmente
il libro in cui questo tentativo si è compiuto in modo più profondo
e riuscito, anche in virtù della vocazione sociale della storia e
del fatto che essa coinvolge un momento fondamentale della memoria
del paese.
Molti dei lettori rimangono colpiti dalla tua maniera di
raccontare e mescolare tra loro i diversi piani temporali
dell’azione. Come consideri questo procedimento narrativo?
Lo considero importante per il fatto che considero il tempo non
lineare ma circolare e multiforme. Delle volte mi si dice che
racconto sempre il presente. Probabilmente è vero, ma lo faccio
perché quello che mi interessa è l’attimo presente, l’attimo stesso
in cui il lettore sta raccogliendo il senso delle parole, in
funzione del quale passato e futuro si trovano a interagire e
convergere. Lo stesso accade nel mio metodo di scrittura…
In che senso?
Nel senso che io non ho scritto mai in maniera ordinaria e
cronologica. Non sviluppo mai un capitolo dopo l’altro
progressivamente, ma lavoro soprattutto per salti temporali, dando
vita al capitolo trentotto e solo successivamente al capitolo
undici. Anche nella redazione dei miei testi seguo questo principio
di casualità, perché ritengo che non esista un tempo lineare nel
quale si distendono gli eventi, ma il tempo varia in base a come noi
lo percepiamo e in funzione del valore che diamo all’accadere di
determinati eventi rispetto ad altri.
In molta scrittura ritorna la figura di tuo padre. Chi era
realmente quest’uomo cui va il merito del tuo amore e della tua
gratitudine?
Il merito umano di mio padre è legato alla gratitudine che qualsiasi
figlia porta nei confronti di colui che l’ha messa al mondo. Credo
sia più giusto discutere del merito letterario che ha avuto sulla
mia formazione di scrittrice. I ricordi che ho di quest’uomo sono
legati al suo senso di sacrificio.
Era uno scrittore che ha lavorato per il teatro con stagioni di
grande fortuna alternate a periodi di sofferenza. Tuttavia, la sua
costanza e la sua forza mi hanno insegnato a concepire la scrittura
come qualcosa di estremamente artigianale, cui devi mettere te
stesso, al limite delle forze. Ricordo le notti in teatro, i
pomeriggi delle prove, dove ho potuto apprendere in modo diretto
come si aggiusta il testo, come si lavora sul ritmo, come ci si
confronta senza distogliere l’attenzione dal lavoro finché una cosa
non abbia raggiunto la sua forma ultima e migliore. Ecco, se penso a
mio padre penso a tutte queste cose, e sento di dovergli davvero
molto. Tuttavia, mi trascino un unico piccolo dispiacere: quello di
non esser riuscita a fargli vedere in tempo il successo che avrei
avuto negli anni.
Hai in mente un nuovo romanzo?
Posso anticiparti che ho in mente non una, ma due possibili storie
alle quali sto già lavorando. La prima dovrebbe essere ambientata ai
giorni nostri, ed è un romanzo di carattere contemporaneo. La
seconda dovrebbe invece narrare una figura vissuta nel
diciannovesimo secolo, scomparsa senza lasciare tracce. Sto
faticando a ricostruire la sua fisionomia, data la scarsità di fonti
a disposizione. In ogni caso, so che ogni buona storia ha un suo
tempo, e ogni scrittore vero deve imparare ad abbandonarsi alla
scrittura secondo le necessità.