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Atti del convegno del 27 agosto 1999: Rievocazione storico-letteraria dal romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa "Il Gattopardo" Testo della Relazione del Professore Salvatore Scuderi Giuseppe Tomasi di Lampedusa nei Ricordi d’infanzia comincia così la descrizione del viaggio: "Il fascino dell’avventura, del non completamente comprensibile che è tanta parte del mio ricordo di Santa Margherita, cominciava con il viaggio per andarvi. Era un’impresa piena di scomodità e di attrattive. Era generalmente fine giugno. Attraverso Piazza Politeama e via Dante si arrivava alla stazione Lolli e lì ci si cacciava nel treno per Trapani. lle undici si arrivava a Castelvetrano. Alle undici e mezza si ripartiva sino a Partanna. Da lì in carrozza sembrava che il viaggio non dovesse finire più. Poi mia madre cominciava ad avvertirmi: "stai attento ora, tra poco a sinistra vedrai la Venaria". Non eravamo più lontani. Mia madre, sospinta dal suo amore per Santa Margherita, non stava più ferma, si sporgeva ora da uno sportello ora dall’altro. Siamo a Montevago. Siamo a casa. Passato Montevago ecco la Madonna delle Grazie, poi la Madonna di Trapani. Ci siamo! Ecco il ponte. Sul ponte era schierata la banda municipale che attaccava con slancio una polka. Noi ci sforzavamo di sorridere e ringraziare. Un breve percorso nelle strade, si sboccava nella piazza, si vedevano le linee aggraziate della casa, si entrava nel portone, primo cortile, secondo cortile. Si era arrivati. Al basso della scala esterna il gruppetto dei familiari capeggiato dall’eccellente amministratore Onofrio rotolo, minuscolo sotto la barba bianca e fiancheggiato dalla potente moglie "Benvenuti". Come siamo contenti di essere arrivati". Ne "Il Gattopardo" il Tomasi descrive il viaggio a Donnafugata di don Fabrizio Corbera principe di Salina in carrozza per altra via, con soste la prima notte a Marineo, la seconda a Prizzi, la terza a Bisacquino. E’ citata una sosta a Rampinzeri. Tale citazione ha creato perplessità nei lettori del romanzo perché quella località non è vicina a Santa Margherita. Ma a pag. 71 e 72 dei Racconti (ediz. 1990) c’è la spiegazione per cui il Tomasi chiamò quel sito Rampinzeri. "Quando si arriva a Misilbesi un paesaggio dal piglio canagliesco… pochi anni fa ho visto una certa svolta presso Santa Ninfa (Rampinzeri si chiama) nella quale ho riconosciuto il ceffo canagliesco ma amato di Misilbesi". Quindi quel nome venne dato nel romanzo in base ad un ricordo che gli faceva accomunare le due località di Misilbesi e Rampinzeri entrambe dal ceffo canagliesco. Nel romanzo si legge: "Si andavano riconoscendo luoghi noti, mete aride di passeggiate passate e di spuntini durante gli anni scorsi, le forre della Dragonara, il bivio di Misilbesi, fra non molto si sarebbe arrivati alla Madonna delle Grazie che da Donnafugata era il termine delle più lunghe passeggiate a piedi". Dette località sono vicine al centro di Santa Margherita. Il viaggio descritto ne "Il Gattopardo" è lo stesso di quello fatto in carrozza dai principi Tasca provenienti a Santa Margherita da Palermo quando non c’era il treno. Ciò è provato da un diario di Teresa Tasca sposata al barone Piccolo di Capo d’Orlando, che lo descrive nei particolari con le stesse soste indicate nel romanzo. I partecipanti al viaggio erano i principi Lucio e Giovanna Filangeri con i loro figli, tra i quali Teresa autrice del diario e Beatrice madre di Giuseppe Tomasi. Tale diario e un altro che descrive le gite al castello della Venaria, con la citazione dell’amministratore Onofrio Rotolo e di Totò Ferraro è stato trovato dall’Ing. Francesco Valenti da Capo d’Orlando che sta pubblicando un libro sui soggiorni di Giuseppe Tomasi e della madre Beatrice a Capo d’Orlando. In un altro diario di Teresa Tasca dal 1884 al 1886 pubblicato da Vanni Ronzisvalle ne "Il meridiano della solitudine" – Novecento, Teresa Tasca dice che l’indomani sarebbero partiti in carrozza per Santa Margherita e nel commento si legge: "Vedere con gli occhi di Teresa, ottanta anni prima che suo nipote Lampedusa li mettesse di sfondo al Gattopardo, i luoghi del viaggio verso Donnafugata e il palazzo che fece da modello a quel romanzo"; fu un altro viaggio dei Tasca in carrozza identico a quello descritto ne "Il Gattopardo". Nel periodo feudale, e per molti anni dopo, la nobiltà abitava in Palermo e regolarmente ogni anno tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate, raggiungeva, originariamente in lettiga, poi in carrozza e in fine in treno, le sede dei loro possedimenti. L’arrivo dei principi nelle sedi dei loro domini era avvenimento importante col quale essi confermavano sulle popolazioni dipendenti l’esercizio del loro potere. A loro volta le popolazioni accoglievano l’arrivo dei principi con le manifestazioni più festose per dar atto della loro fedeltà e devozione. Vincenzo Di Giuseppe, con lo pseudonimo di Josefi, in "Santa Margherita Belice – Ricerche storiche" – 1916, dice: "La loro venuta in paese era avvenimento di gran pompa: una moltitudine a cavallo e a piedi si recava ad incontrarli lungo la via, una gran folla di donnicciole, di ragazzi ed anziani ne attendeva l’arrivo ch’era accolto al suono di tutte le campane, dagli applausi del popolo e dal cerimoniale del clero, in tenuta solenne e baldacchino spiegato. E queste dimostrazioni cessarono parecchi anni dopo l’abolizione del feudalesimo". Dimostrazioni così festose non avevano luogo in tutti i comuni. In Santa Margherita tali accoglienze non erano espressione di soggezione ma di riconoscenza. Prima i Corbera, fondarono il paese, poi i Filangeri si erano sempre dimostrati generosi verso le popolazioni. Nicolò I° Filangeri, ultimo principe che esercitò il potere feudale in Santa Margherita, spesso condonava in tutto o in parte, nelle cattive annate, i canoni e i fitti a lui dovuti dai contadini e con ciò seguiva le inveterate consuetudini della sua famiglia. Da ciò trasse lo spunto Giuseppe Tomasi per citare nel romanzo il tollerante signore che spesso soleva dimenticare di riscuotere i canoni e i piccoli fitti. Nicoletta, ingenua fanciulla figlia di Nicolò I°, trovandosi presente mentre il padre ordinava al suo amministratore di cancellare dai crediti una cinquantina di migliaia di lire, impressionata di tanta prodigalità, domandava spiegazioni che le venivano date dal padre nel senso che gli abitanti si erano moltiplicati e affezionati alla sua famiglia per la liberalità dei suoi avi; e che si provvede meglio agli affari propri con l’equa generosità, che è obbligo per chi molto possiede, anziché con la stolta grettezza che è appena scusabile nel diseredato proletario. Quello che lasciò nel popolo profonda impressione e acquistò a don Nicola maggiore ascendente fu la venuta per circa tre mesi dei sovrani in paese e quando, divenuto viceré di Sicilia, accoglieva e ospitava i margheritesi con familiarità e cortesia nel Palazzo Reale di Palermo. E’ da dire che i viceré che diedero lustro al casato furono tre: Alessandro I°, Alessandro III° e Nicolò I° Filangeri. Per testamento Nicolò I° stabilì che se suo figlio Alessandro IV° non avesse avuto figli con la moglie Maddalena Barretta i feudi Aquila, Ficarazzi, e Calcara dovevano andare al Comune per essere divisi ai contadini e condonò ai censualisti altre 60.000 lire. Su Nicolò I° si riporta: "Quannu lu principi veni passanu tutti li peni. Quannu lu principi è ccà tuttu è felicità. Si curri a lu casteddu cu birritta e cu cappeddu e la vuci in aria vola: viva, viva don Nicola". Se gli antenati di Giuseppe Tomasi di Palma ebbero dei meriti con la santità, a Santa Margherita li ebbero con la bontà e la generosità. Il principe Lucio Mastrogiovanni Tasca, ogni anno, per tradizione, offriva un pranzo ai poveri nel castello della Venaria. Suo figlio principe Alessandro sin da giovane svolse una fattiva attività politica da socialista riformista. Nel 1892 finanziò il giornale "L’Isola" diretto da Napoleone Colaianni. Nel 1893 fondò il giornale "Il Siciliano", soppresso dopo un mese e per non essere arrestato dovette darsi latitante. Arrestato nel 1895 fu liberato nel 1896. Nel 1897 partecipò in aiuto dei Greci alla guerra greco-turca. Nel 1898 fondò il giornale "La Battaglia" di linea socialista riformista che cessò la stampa nel 1914. Nel 1901 fu in carcere per sei mesi per avere accusato nel suo giornale il senatore Paternò di avere condotto nel 1891 un’amministrazione poco corretta da sindaco di Palermo. Liberato nel 1902 fu festeggiato dalle associazioni operaie e da numerose personalità della politica, della stampa e della cultura. Fu consigliere comunale e provinciale di Palermo e deputato al parlamento italiano per i collegi di Palermo e Sciacca. Per svolgere l’attività politica liquidò tutta la sua consistente proprietà. Fu un’altra forma di generosità verso la collettività. Alessandro Tasca e tre sue sorelle, tra le quali Beatrice, madre di Giuseppe Tomasi, tra il 1910 e il 1924 vendettero 1640 ettari di terreno, la Venaria, il giardino ed il palazzo Cutò di Santa Margherita, il palazzo Cutò di Palermo e beni in altri comuni. I nuovi proprietari non fecero più ai contadini i condoni dei canoni concessi dai principi, anzi aumentarono gli affitti dei terreni. Alessandro Tasca fu giudicato dal prof. Massimo Ganci: "Un personaggio romantico che pagò in prima persona, che servì la politica e non si servì della politica". Il di li figlio Alessandro sin da giovane emigrò in America dove contrasse un felice matrimonio e svolse attività negli Stati Uniti, in Italia, in Francia e Inghilterra occupandosi di cinema a fianco di importanti registi come Orson Welles e altri. Allo stesso che non ha potuto darci il piacere di onorarci della sua presenza perché ultranovantenne e sofferente, esprimo e nome personale, della Pro-Loco Gattopardo Belìce che rappresento, dell’Amministrazione comunale e della cittadinanza la più grande cordialità quale espressione di gratitudine per le generosità dei suoi avi verso le popolazioni del nostro Comune. Un cordiale saluto alla figlia principessa Ama che con la figlia Flandina sarà presente alla manifestazione che avrà luogo domani. Quanto detto in questa breve relazione è inteso a illustrare, giustificare e documentare la manifestazione che avrà luogo domani con la rievocazione dell’arrivo del principe di Salina Fabrizio Corbera alla Donnafugata del Gattopardo che corrisponde alla nostra Santa Margherita. Salvatore Scuderi (Presidente della Pro-loco GATTOPARDO BELICE) Torna Su
Arte e Spiritualità nella terra dei Tomasi di Lampedusa Il Monastero Benedettino del Rosario di Palma di Montechiaro a cura di Maria Concetta Di Natale, Fabrizio Messina Cicchetti, fotografie di Enzo Brai con la partecipazione di Roberta Chiviletto, Mariny Guttilla, Gioacchino Lanza Tomasi, Nicola Lupo, Giuseppe Mangiavillano, Domenico De Gregorio Ildebrando Scicolone, ecc.
MONASTERI
BENEDETTINI NELL'AGRIGENTINO. Domenico
De Gregorio «Non
so darmi pace - scriveva il Beato card. Ildefonso
Schuster - che un libro, la Regola di S.
Benedetto, sul quale si sono formate tante generazioni di giganti della
santità, oggi, fuori dei chiostri, non sia più quasi conosciuto, neppure
dal clero... Nessuno si da fatica di andare
a conoscere il manuale che formò alla
Chiesa e alla società europea cedeste tempre
di papi, di apostoli, di dottori, di pontefici delle diverse chiese, di
abbati delle innumerevoli abbazie medioevali
che ingemmavano
allora il giardino della Chiesa». (1) La
stessa cosa, dal punto di vista storico, ma in senso peggiorativo, si
potrebbe dire dei monasteri benedettini maschili e femminili che,
numerosi, sorsero, prosperarono a lungo nell'Agrigentino, svolgendo
la loro missione formatrice e civilizzatrice
e, soprattutto, dei loro mèmbri che
"ascoltando i precetti del Maestro volentieri li ricevettero, efficacemente
l'eseguirono, militando sotto Cristo Signore e Rè",
per affermare e dilatare fra noi il suo regno. In questo lavoro, in
occasione del terzo centenario della morte
della ven. sr.
Maria Crocifìssa, raccogliamo alcune notizie sui benedettini e i loro
monasteri, specialmente femminili, nella nostra provincia e diocesi
(2). Parliamo qui di benedettini nel senso più ampio della parola,
comprendendo in essa varie specificazioni dell'ordine e cominciamo
ricordando anche quei vescovi, figli di S. Benedetto, che ressero
la Chiesa Agrigentina: le loro case furono quasi sempre eguali ad un
monastero. II
primo successore di S. Gerlando (1030/40-1100) che rifondò la
Chiesa Agrigentina dopo la liberazione della Sicilia
dal giogo musulmano, fu Dragone: era
priore del monastero benedettino di S. Maria
dei dodici Apostoli di Bagnara Calabra; S.
Gerlando, nel suo viaggio di ritorno da Roma, nel settembre del 1099,
fermatesi in quella città, predisse a
Drogone che gli sarebbe succeduto sulla cattedra agrigentina
e si raccomandò alle sue preghiere. Drogone, infatti, fu eletto vescovo
di Agrigento dopo la morte del Santo (25
febbraio 1100); ma il suo episcopato durò poco, sino al 1104. Egli
"sempre nella giustizia piacque al Signore", come afferma il Libellus
de successione pontificum
Agrigenti, per la fama della sua santità che durava ancora al
tempo della sua composizione (1250 circa) (3). Era
benedettino Nicola, eletto vescovo di
Agrigento nel 1395, ma trasferito ad Orvieto, senza aver preso possesso
della sede (4). Il
primo vescovo benedettino di cui si
possiedono sufficienti notizie è Lorenzo
di Massasal
(1422-1442) già monaco dell'abbazia cistercense
di Poblet inTarragona.
Egli aveva dimorato parecchi anni a Napoli,
tanto da essere chiamato "napoletano"
in alcuni documenti; venuto in diocesi ne tutelò i diritti, la visitò e
ottenne il riconoscimento pontificio della sua esenzione dal metropolita
palermitano. Di lui è rimasto ad Agrigento un prezioso codice
pergamenaceo delle tragedie di Seneca che egli aveva fatto copiare a
Parigi nel 1407. Cistercense fu pure Domenico
Xarth del monastero delle Sante Croci di
Barcellona (1452-1471) che svolse anche un ruolo politico come
ambasciatore del Parlamento siciliano al re e si interessò dei monasteri
di S. Maria del Bosco, di S. Spirito, di S. Maria delle Giummare
(5). Gli successe un altro benedettino: Giovanni
de Cordellis o de Cortellis
(1472-1479) che proveniva dal monastero di Gerona
in Spagna ed era stato abbate di S. Felice
di Bruxelles. Tra le poche notizie che si conoscono del suo episcopato è
quella del suo interessamento per il
servizio corale in cattedrale. Mons. Anselmo
La Pegno (1723-1729), nativo di Rabaderia, oggi Rabade, fu l'ultimo vescovo
agrigentino di origine iberica: era stato
abbate generale della Congregazione spagnola
(6). Da Crotone, di cui era vescovo dal 1715, fu trasferito in Agrigento
nel 1723. La sua azione prudente, generosa, ricca di carità verso tutti,
fu veramente provvidenziale perché, dopo le turbinose vicende dell'interdetto
(1713-1719), servì a placare gli animi, a riappacificare le coscienze,
a superare i contrasti e le scissioni tra il clero e, nonostante la brevità
del suo episcopato, a preparare la rifioritura della vita diocesana che
si svolgerà sotto i suoi immediati successori. Nell'iscrizione posta
sotto il suo modesto monumento in cattedrale si legge: "Fu uomo eccellente per dottrina ed erudizione,
conservò la morigeratezza religiosa nel vestito, nel vitto, nella
mobilia; per se parsimonioso, tu generoso
verso i poveri; consumò tutte le entrate del suo episcopato per
nutrire i bisognosi, dotare le vergini, sollevare gli ammalati,
restaurare le chiese" (7). L'ultimo vescovo benedettino della diocesi
fu mons. Pietro Maria D'Agostino
(1823-1834). Nato a Sciacca nel 1756, compì gli studi inferiori nel
monastero di S. Nicolo
l'Arena di Catania e per la teologia passò a Roma, dove, in S.Callisto,
ebbe come insegnante don Barnaba Chiaramonte, poi Pio VII. Ordinato
sacerdote nel 1780, insegnò teologia a Subiaco dove fu anche maestro dei
novizi. Abate di S. Rocco di Piazza Armerina e poi di S. Maria di Fundrò,
fu segretario di Ferdinando IV, durante il
soggiorno in Sicilia, e suo rappresentante presso il Papa e i re di
Sardegna. Consultore e decano della S. Congregazione dei Riti, nel 1823 fu
nominato vescovo di Agrigento. Del suo episcopato si ricordano soprattutto
due grandi opere: il contrafforte che sostiene il lato Nord della facciata
della Cattedrale - anche oggi ammirato dagli esperti - per cui spese 18000
ducati, e il muro di sostegno del lato meridionale del seminario, di cui
peraltro rinnovò gli studi. Alla relazione per la sua visita ad limina
aggiunse un assai interessante prospetto delle città e paesi della
diocesi con l'elenco dei parroci, delle chiese, dei conventi, dei
monasteri, degli ospedali, dei monti di pietà e delle confraternite. Fu
veramente "benemerito del sacerdozio e dell'impero, distintissimo
amatore e mecenate delle scienze, lettere ed arti, restauratore magnanimo
del duomo e del seminario agrigentino" come scrisse il can. Eraclide
Lo Presti, dedicandogli il suo discorso "sui mezzi di coltivar
l'ingegno e dei frutti che se ne ricavano". I
Benedettini cominciarono a diffondersi in Sicilia sin dai tempi di S.
Benedetto (480-547), ma si affermarono, specialmente, dalla seconda
metà del sec.
VI per opera di S. Gregorio Magno. Con la
liberazione della Sicilia ad opera dei
Normanni, cominciò la ripresa dell'Ordine che, sotto gli Arabi, come
tante altre forme di vita religiosa
cristiana, era stato distrutto. Secondo
la tradizione, il nucleo primitivo del
monastero e della chiesa di S. Maria
la Vetere di Licata risalirebbe a S.
Silvia, la madre di S. Gregorio Magno. "Le attuali strutture della
chiesa risalgono alla sua completa riedificazione da parte dei
Benedettini, avvenuta tra la fine del 1200 e l'inizio del 1300... I
Benedettini, che per il loro mantenimento
avevano la terra detta "la pezza di S.
Maria", l'officiarono sino a lutto il secolo XVI, quando lasciarono
Licata" (8). S. Maria
di Sabuci,
altro monastero benedettino di Licata, era
distrutto, quando, il 21 marzo 1173, Guglielmo II concesse all'Abbate
Donato e a fra Giovanni di Lamec facoltà di
riedificarlo, donando i casali di Rissolaimi,
Raydali, Roxyhulbemi
del feudo di Sabuci
dove i benedettini coltivarono la canna da zucchero e
il sambuco (9). S. Nicolò La Latina di
Sciacca. Priorato
antichissimo dell'Ordine benedettino
lo chiama il Pirri. Nel monastero annesso
alla chiesa, fondato dalla contessa Giuditta
o Giulietta, dimorarono i padri cassinesi
sino al sec. XVI. La chiesa e il monastero erano
soggetti al monastero di S. Maria la Latina di Gerusalemme,
donde il nome. Quando nel 1187 il monastero
gerosolimitano fu distrutto dai Musulmani, il suo Abbate Facondo fu
accolto in Sicilia e gli fu affidato quello di S. Filippo di Agira cui fu
sottoposto il saccense, eretto in priorato nel
1172 e poi, nel 1367, innalzato ad abbazia. Maria SS.ma di Rifesi.
Il monastero fu costruito da Ansaldo, castellano
del palazzo reale di Palermo, ottenuto il permesso del vescovo Gentile di
Agrigento; in seguito, fu anche abbazia e sottoposto a S. Giovanni degli
Eremiti di Palermo. Accanto alla chiesa di S. Maria del Bosco di Calatamauro
vivevano alcuni eremiti che, sospettati come
"fraticelli", vennero denunciati al vescovo di Agrigento,
Bertoldo de Labro (1 304-1 326), il quale li interrogò e, trovatili
immuni da eresia, impose loro di scegliere una regola approvata dalla
Chiesa e di professarla. Scelsero quella di S. Benedetto e l'osservarono
sino al 1501 quando divennero benedettini Olivetani. Il monastero, rimasto
vuoto, fu ripopolato nel 1794 dagli Agostiniani. S.
Maria delle Giummare o
di Valverde di Sciacca. La chiesa e il monastero furono eretti
dalla contessa Giuditta o Giulietta, figlia
del Conte Ruggero, nel 1103 o nel 1104, secondo un documento pubblicato dallo Scaturro, la quale li donò al monastero di
Cluny (10). Al suo monastero donò vasti possedimenti di terre e casali e
la chiesa fu da lei costruita in onore della B. Vergine Maria "per le
anime dei padri e delle madri e dei figli antecessori e amici e per coloro
che furono uccisi con i figli miei" (11). II monastero era duplice
perché la contessa aveva edificato il suo per le moniali, accanto a
quello dei cluniacensi giunti a Sciacca poco dopo la conquista della città
da parte di Ruggero, nel 1087. Il vescovo Ursone (1191-1239) a causa delle
rivolte e prepotenze musulmane, per la sicurezza delle monache, i cui
monasteri si trovavano fuori le mura delle città, ottenne dal papa
Innocenzo III (1198) che si trasferissero al loro interno. I monaci
cluniacensi francesi rimasero a Sciacca sino alle guerre del Vespro quando
lasciarono il loro monastero che divenne regio priorato, conservando però
la duplicità. Nel 1382 le monache non furono più sottomesse a Cluny, ma
collegate con il monastero delle Benedettine di Catania; qualche anno
dopo, poiché il monastero era stato abbandonato e rischiava la
distruzione, la nobildonna Margherita Montaliana ottenne da Bonifacio IX
(9 Maggio 1401) che le monache del monastero di Valverde di Caltabellotta
si trasferissero in quello delle Giummare e seguissero la loro regola
benedettina. Da allora il monastero si chiamò anche di Valverde. Nel 1896
il monastero che, per le leggi eversive, non era stato più riparato,
minacciava rovina e perciò nel 1914 fu demolito. La primitiva chiesa
delle monache nel sec. XVI era stata abbandonata e al posto di quella dei
cluniacensi era stata edificata l'attuale: "suggestivo edificio quasi
tempio, quasi castello, tutto dorato dal naturale colore della pietra onde
è costruito e animato nel | prospetto da una grande porta e da una grande
finestra di i stile barocco fiancheggiata da due alte, snellissime torri
incastrate e merlate" (12). Dopo la soppressione degli ordini I
religiosi le monache di S. Maria di Loreto di Sciacca e quelle dell'Itria
furono trasferite nel monastero delle Giummare; ma quelle dell'Itria nel
1867 poterono tornare nel proprio. Il 27 marzo 1896 "le monache delle
Giummare, col pretesto che il loro edificio minacciava rovina, insieme con
quello di Loreto, dovettero uscire per concentrarsi in quello
dell'Itria" (13). "II 21 giugno - scrive lo Scaturro - tutta la città di Sciacca fu
commossa da un prodigio cui si credette. Dovendosi in quel giorno mettersi
in vendita i giardini del monastero delle Giummare, per la qual cosa poi
non sarebbe stata più possibile la clausura, la sera precedente le
monache, mentre nel coretto ai piedi del Crocifisso pregavano con
grandissimo fervore davanti all'immagine della Addolorata, che era di
carta sotto un cristallo spezzato, in una vecchia cornice, la videro
mandare dal viso e dal collo copioso sudore sì da inzuppare alcuni
fazzoletti. Atterrite e piangenti chiamarono il confessore, can. Venezia,
che mirò stupito il miracolo. Due ore dopo, il sudore cessò, lasciando
l'immagine asciutta e polverosa come era prima. Si credette segno di
grazia o di castigo: ma la mattina seguente si chiarì essere segno di
grazia perché arrivò un telegramma ministeriale che sospendeva la
vendita a tempo indeterminato. Del prodigio, per ordine dell'autorità
ecclesiastica, fu compilato processo verbale con attestazione giurata del
confessore" (14). Dall'Annuario di mons. Turano (1875) si conosce che
nel monastero era ordinario il p. Bonaventura Graffeo, cappuccino, mentre
l'abbadessa era Emanuela Samaritano, nata nel 1803, le suore erano 9, le
converse 6 (15). Altri monasteri di Sciacca furono: S. Giorgio de
Candelora fondato da Bartolomeo Tagliavia, barone di S. Bartolomeo nel
1542, accanto alla chiesa del Santo, che durò sino al 1606; di S.
Marco Evangelista, femminile, fondato dai confrati della omonima
confraternita per cura del dr. Giovanni Tagliavia. Fu chiuso nel 1618
(16).
S.
Maria di Loreto. Fu
fondato da Eloquenza e Giovannella Salvo, con bolla del vescovo Giuliano
Cibo (1500-1537) del 30 ottobre 1532, nella casa che era stata della
famiglia Medici; essendo il più piccolo della città, veniva chiamato batiedda.
Dall'Annuario di mons. Turano si ricava che in quell'epoca "la
comunità del monastero di Loreto era stata concentrata, da ottobre 1866,
nel monastero di Valverde, per ordine governativo"(17). Ne era
abbadessa "per rescritto pontificio" sr. Crocifìssa Marini,
nata nel 1808; le monache erano 8, le converse 5. Il
conte Guglielmo Peralta, costruì chiesa e monastero in onore della Madonna
dell'Itria, dotandoli di molti beni, tra il 1380 e il 1386 quando la
chiesa fu consacrata dal vescovo Matteo de Fugardo ( 1 362-1390). Il
monastero fu completato nel 1401 e per la sua mole fu chiamato Badia
grande (l8). Fu protetto e arricchito dai Peralta e dai Luna. Secondo il
citato Annuario di mons. Turano, al suo tempo, era vicario delle monache
l'arcidiacono Pellegrino Sortino, ordinario il can.Vincenzo Venezia,
abbadessa sr. Alberta Sortine, nata nel 1816, e priora sr. Maria Crocifìssa
Amato, nata nel 1802; le monache erano 18, le converse 6. Il
monastero di S. Caterina fu fondato accanto alla chiesa omonima,
opera della contessa Giuditta, nel 1403, da Beatrice Ferrare in Tagliavia,
baronessa di Lazzarini; fu ristrutturato e rinnovato nel 1520.
Dall'Annuario citato: ordinario p. Domenico Arone; abbadessa sr. Filomena
D'Agostino nata nel 1817, priora sr. Vincenza Friscia nata nel 1821 ;
monache 15, converse non professe 8. Vi era stata "concentrata per
ordine governativo" la comunità domenicana del Fazello (19). In
Agrigento Antichissimo
santuario mariano era nella città di Agrigento quello della Madonna di
Bonamorone, forse sopravvivenza di un culto di origine bizantina verso
la Madre di Dio o, come era tradizione, verso una immagine della Madonna
trovata in casa da una donna africana durante la dominazione araba (Bona-Morona)
e conservata, e nascostamente venerata, sino all'arrivo dei Normanni. I
cistercensi, sin dai primi tempi della liberazione della Sicilia, vi
edificarono accanto un monastero che nel giugno del 1228 fu distrutto - hostium
impetu eversum, scrive il Pirri - probabilmente da qualche gruppo di
Saraceni che erano ancora numerosi nelle vicinanze della città. Ma i monaci già si erano trasferiti, per autorità del vescovo Ursone e
decreto dell'imperatore Federico II (1223), dentro le mura della città.
Si conoscono i nomi di due abbati: Teodosio (1223) e Pietro (1233). Nel
1119 l'abbate Benedetto II di Casamari, per mezzo di Pellegrino, priore di
S. Maria di Adrano, ottenne dei terreni presso il cosiddetto palazzo di
Falaride, perché vi si costruisse un cenobio dove i monaci abitarono per
un certo tempo. Nel 1426 il Beato Matteo vi stabilì un convento
dell'Osservanza. Il
monastero di S. Spirito di Agrigento fu costruito e dotato da Marchisia Prefoglio, agrigentina, contessa di
Caccamo, moglie di Giovanni III Chiaramonte, verso gli anni 1290-95. II 29
agosto 1299 lo donò e lo sottomise al monastero di Casamari con un atto
riportato dall'Inveges (20) in cui si dice: "Noi Marchisia Prefoglio,
cittadina di Agrigento... con i beni che Dio ci ha donato e con il nostro
patrimonio, a lode di Dio Onnipotente, della Gloriosa Vergine, sua Madre,
ed anche a rimedio per le anime, di buona memoria, dei nostri genitori e
nostra, abbiamo fondato nella città di Agrigento, e dentro le sue mura,
un monastero chiamato di S. Spirito in cui dimorano molte nobili montali e
vivono attendendo alla salvezza delle loro anime e speriamo che il
monastero, per grazia di Dio, possa prosperare, con la protezione del
Signore". Nel monastero vissero, e poi furono sepolte nella sua
chiesa, parecchie donne dei Chiaramonte fra cui Isabella, dopo la
decapitazione del marito Andrea, avvenuta nel 1392 (21). Il 5 febbraio del
1579 con il breve Universis Dominicae, Gregorio XIII sottrasse il
monastero di S. Spirito dalla giurisdizione dell'abbate di Casamari e lo
sottopose a quella del vescovo di Agrigento. Durante l'interdetto
(1713-1719), le monache di S. Spirito rimasero fedeli al decreto del
vescovo e della S. Sede, resistettero fortemente al vicario generale
intruso, Francesco Vanni, e non lo riconobbero mai come superiore; pur
richieste ripetutamente, non consegnarono mai le chiavi della chiesa e del
monastero se non quando furono costrette, perché il Vanni aveva fatto
circondare, per più giorni, il monastero dai .soldati, e l'ostruire un
muro davanti la sua porta, privandole completamente da
ogni rapporto con l'esterno. "Sopra
tutte le altre - scrive il p. Andrea da Gibellina - eccelsero la fede e la
costanza delle monache del monastero grande di Santo Spirito di Agrigento,
le quali, poste in clausura, erano di animo libere... Quelle sacre
vergini, volte al ciclo, tollerarono tutto con pazienza e longanimità,
lodevole esempio di fedeltà e di ubbidienza alla S. Sede per tutti gli
altri". Dall'Annuario
di mons. Turano risulta che era ordinario del monastero il sac. Calogero
Argento fu Domenico, vi predicava quell'anno il p. Giuseppe Naibone,
Gesuita, era abbadessa sr. Maria Matilde La Lumia, priora sr. Maria
Lorenza Anna Sala, le monache erano 22 e le educande 10. Nonostante le
leggi eversive, il monastero di Santo Spirito riuscì a sopravvivere,
benché gli fossero sottratti molti locali e le monache, prive di beni e
di rendite, vivessero miseramente. Mons. Peruzzo (1932-1963) più volte
.s'interessò del monastero e, d'accordo con il generale dei Cistercensi,
p. Quatember, con l'approvazione della Santa Sede fece venire dal
monastero di Santa Caterina di Sanseverino Marche tre religiose fra cui l'abbadessa
Aloide Romagnoli, la maestra delle novizie sr. Maria Mafalda Pascucci per
ristabilire la vita regolare e in breve la vita religiosa del monastero
riacquistò nuovo fervore (23). In Bivona Un
antico priorato benedettino esistette
nel territorio di Bivona. Si ha notizia di una chiesa intitolata a San
Benedetto e di un monastero che sorgevano vicino il fiume Sodio di Bivona,
sin dal 1170. "I benedettini - scrive il Marrone - rimasero nel
nostro priorato solo per poco tempo, fin tanto che la zona di Rifesi non
venne interessata (nei primi due decenni del XIII secolo) dalla rivolta
dei Mussulmani, che, come attestano le fonti, costrinsero i monaci... ad
abbandonare i loro monasteri... Nulla possiamo dire dell'influenza
religiosa ed economica che dal sec. XII all'inizio del XV la presenza di
quei priorati benedettini poté avere sulla vicina Bivona; rimane dubbio
se quella stessa presenza avesse influito sulla fondazione in Bivona del monastero
femminile di San Paolo le cui prime notizie documentate risalgono alla
metà del XV secolo" (24) e sono queste: "Nel 1448 entro fra le
sue mura la decenne Scolastica Oliveri che vi morì nel 1578 all'età di
120 anni; dalla secrezia baronale nel 1473 furono
consegnate al monastero degli alimenti annuali; Nicolò Matolfo nel 1494
assegnò un legato al monastero. Le prime badesse conosciute sono
Margherita Di Cristina (1503-1510), Margherita Di Anselmo (1534-1538). Nel
1 543 era abbadessa Rosalia Gisulfi, appartenente ad una delle principali
famiglie bivonesi" (25). Il monastero possedeva una rendita annua di
onze 40 e di circa 70 salme di frumento. Dopo la venuta dei Gesuiti in
Bivona il p. Pietro Venusto, nel 1 558, riformò il monastero
"secondo le antiche regole" (26). Agli inizi del sec. XIX i
contrasti tra le famiglie del paese ebbero un'eco anche nel monastero
tanto che non si poterono eleggere le badesse e il vescovo nominò delle
priore triennali. Dopo la soppressione degli ordini religiosi la comunità si estinse
lentamente. Il Marrone, storico documentatissimo, ha ricostruito - pur con
qualche lacuna - l'elenco delle badesse del monastero dal 1503 al 1906
indicando, quando possibile l'anno di elezione, il numero delle montali,
delle novizie e delle converse. Ai tempi della visita pastorale di mons.
Lo Jacono nel monastero vivevano 10 monache, 5 converse e 2 novizie. Nell'Annuario
di mons. Turano vengono enumerate 15 moniali; era badessa sr. Maria
Maddalena Giambertone, nata nel 1829, priora sr. Maria Concetta Greco,
nata a Palermo nel 1 809, che già era stata abbadessa, come sr. Maria
Rosalia Picene, Suor Rosa Cardinali e sr. StcfaniaTagliareni. Vicario della
moniali era l'arciprete Andrea Picene.
Sr. Maria Roccaforte
(1 597-1 648). Nata in Bivona "di estrema bellezza e ambita da molti
per sposa", a 17 anni vestì l'abito delle oblate
benedettine e si dedicò alla vita ascetica
con lunghe preghiere e penitenze, sostenendo cristianamente tribolazioni e
gravi vessazioni, e vincendo le continue
tentazioni del Maligno. Godè di molti doni e carismi, di visioni ed estasi e le
si attribuirono molti miracoli in vita e dopo morte. Pare che in alcuni
suoi rapimenti abbia avuto colloqui con Santa Rosalia di cui era
devotissima - la chiamava mia diletta
sorella - che, narrati al suo confessore e poi divulgati, furono
all'origine di alcuni particolari leggendari ripresi poi dai racconti
popolari circa la Santuzza. Ne scrisse la vita, che fu pubblicata nel
1678, Giuseppe Romano (27). Il monastero di Santa Caterina di Burgio
dal Pirri è chiamato antichissimo e dall'Amico, nel Dizionario dei Comuni
siciliani, è detto ricco. All'inizio del scc. XVI contava 55 moniali con
una rendita di onze 584 annue. L'abbadessa era legataria dei beni di
Antonio Marsala che fruttavano 75 onze l'anno e dovevano spendersi per
opere pie (28). Durante i moti e i disordini del 1848 "una banda di
malfattori, fra i quali 2 donne, assalì il monastero, ma fu disanimata
dall'apparizione dell'abbadessa che si fece loro incontro mostrando il
Crocifisso della Scala seguita dalle monache in processione che levavano
in alto ognuno una piccola croce" (29). Le monache che vivevano
presso la chiesa di S. Maria di Valverde di Caltabellotta - ciò
significava che il monastero non si era estinto del tutto quando le
moniali nel 1401 passarono nel monastero delle Giummare di Sciacca - nel
1628 si trasferirono presso la chiesa di S. Antonio. Ai tempi del Pirri
esse erano 18 con una rendita annua di onze 97. Dall'Annuario di mons.
Turano risulta che nell'anno 1875 era ordinario del monastero il sac.
Benedetto Cognata, priora sr. Giuseppa Colletti, le monache erano 10,
novizia una, converse 4, servente una. Del
monastero dei Santi Filippo e Giacomo di Canicattì - scrive l'abbate
Vito Amico che "reca onore al paese, quasi nel centro, in un poggetto
verso ponente, eretto nel 1650" (30). Nel 1847 era abbadessa, secondo
la visita pastorale di mons. Lo Jacono, sr. Deodata Gangitano e vi
dimoravano 13 monache, una novizia, 5 educande e 5 converse. Nell'Annuario
di mons. Turano risulta abbadessa Deodata Gangitano, al secolo Teresa,
nata nel 1810, priora sr. Concetta Girami. Le monache erano 19. Vicario
delle moniali era il sac. Francesco Cigna e ordinario il sac. Gioacchino
Lo Brutto. Un
monastero e una chiesa di S. Benedetto menziona il Pirri lungo la
via che da Racalmuto porta ad Agrigento che, però, era stato
abbandonato; era invece in costruzione, all'inizio del secolo XVII, un
monastero di monache per un lascito di onze 220 l'anno, fatto da Alfonsa
del Carretto moniale di Santa Caterina di Palermo. Il monastero poi passò
alle Clarisse. Nel 1872 risultava disciolto. Il
monastero di Santa Caterina di Sambuca fondato nel 1515, ai tempi
del Pirri contava 18 moniali con una rendita annua di onze 162. Secondo la
visita di mons. Lo Jacono vi dimoravano 10 monache, 2 educande, 2
converse, 3 laiche. Nell'Annuario si citano l'arciprete Baldassare Viviani
come vicario, il sac. Bernardo Grafteo come ordinario. Le monache erano 13
con sr. Antonina Ingoglia, di anni 56, badessa, e sr. Gaudenzia
Catanalotto, vicaria, e una conversa. I
monasteri benedettini di Cammarata furono due: il primo, più
antico, della Santissima Annunziata e l'altro, più recente di Santa
Domenica. Il
monastero della Santissima Annunziata, secondo il Pirri fu fondato
dagli Abatellis, signori del paese dal 1435 al 1500 ma, molto
probabilmente, e solo questa una indicazione temporale, come dire
"sotto gli Abatellis", perché non risulta che fu da essi dotato
e dall'elenco delle sue rendite non emerge il nome di questi baroni. Nella
visita pastorale del 1 543 si parla di una rendita complessiva di onze 11
annuali e poiché il monastero e povero, il visitatore si rimette alla
discrezione dell'abbadessa e dell'università (l'amministrazione comunale)
per innalzare sufficientemente il muro di cinta che doveva almeno essere
una canna più alto (31). La prima abbadessa di cui è giunta notizia è
sr. Clemenza de Manno da Sciacca, sorella di Mariano de Manno, nominato da
Paolo III, vescovo di Trebbia. Nel 1543 vi dimoravano 20 moniali. Sino al
sec. XVIII nel monastero, come si ricava da tanti atti, era conservata la
cassa dei depositi delle chiese e confraternite
di Cammarata. Il monastero in seguito crollò per la zona franosa in cui
sorgeva, ma sino alla fine del Settecento fu abitato dalle monache. Resta
la chiesa del monastero, dedicata alla SS. Annunziata, decorata, nello
stesso secolo, da eleganti stucchi dorati. L'altro
monastero, quello di Santa Domenica, fu fondato verso la metà del
secolo XVI, come si legge in una relazione manoscritta: "Suor Armenia
Pizzico, moniale professa del monastero della SS. Annunziata, venne a
fondare il nostro monastero accanto alla chiesa di Santa Domenica, sotto
il medesimo istituto dell'ordine del glorioso S. Benedetto: ciò viene
munito dalla solenne professione che nell'anno 1588 vi fece sr. Veneranda
Conforto nelle mani della suddetta Armenia Pizzico... Furono allora per l'edifìcio
e fondazione del medesimo, donate jure elemosinae da diversi
naturali della nostra terra alcune rendite... Così il detto monastero
nella sua fondazione non riconosce alcun patrono gli avesse donato, ma
quanto oggi possiede di arredi, di rendite e ogni altro si rileva esserci
pervenuto dalla Divina Provvidenza per via di apportato dalle stesse
moniali.. ." (32). Nel monastero si compivano pregevoli lavori di
tessitura, tappezzeria, ricamo di cui restano tracce nelle chiese del
paese. La relazione è corredata dall'elenco delle professioni e delle
abbadesse dal 1558 al 1848 circa che da noi è stato integrato con altre
notizie ricavate da fonti diverse. "Nell'anno 1792 furono uniti i due
monasteri della SS. Annunziata e di Santa Domenica per tutte le ragioni
che mossero l'animo del superiore diocesano, o sia vicario capitolare di
Girgenti, canonico tesoriere Emanuele Caracciolo, in un tempo di sede
vacante... per potersi meglio mantenere le moniali... Di detta unione fu
spedita bolla a Girgenti, il giorno 18 aprile 1792, colla determinazione
di poter fare le moniali la loro abitazione per mesi sei in uno e per
altri sei nell'altro monastero, variando secondo le stagioni alle quali
fossero adattate le rispettive temperature dell'aria...". Nell'anno
1850 durante la visita pastorale del vescovo mons. Lo Jacono, le monache
si impegnarono a vivere una più rigorosa vita comune, specie riguardo al
vestito e al cibo, dato che da qualche tempo erano sorte delle irregolarità.
Il monastero fu soppresso dalle leggi eversive e le monache furono
destinate a raccogliersi nel monastero di Santo Spirito di Agrigento. Il 9
novembre 1866 Gaspare Alessi, in nome del demanio, prese possesso del
monastero destinato a divenire sede del comune. Il giorno in cui dovevano
arrivare gli incaricati dal governo, l'abbadessa Maria Filomena Veniero e
le monache si fecero trovare riunite nell'aula capitolare. Dopo un momento
di esitazione gli uomini che avevano avuto quel triste incarico, le
strapparono dal loro posto e violentemente le trascinarono fuori. L'abbadessa
Veniero che li aveva affrontati con il pastorale in mano ebbe strappato il
velo dal capo; a chi la oltraggiava in quel modo, disse, come narravano i
vecchi del paese, che il primo atto di morte registrato nella nuova casa
comunale - perché il monastero era destinato a diventare municipio -
sarebbe stato il suo. E così avvenne. Alcuni riferiscono la profezia al
sindaco di allora, il barone Pietro De Angelis che morì il 22 giugno
1868" (33). Nell'Annuario di mons. Turano è menzionata l'abbadessa
Veniero, la vicaria sr. Maria Crocifissa (al secolo Domenica) Manno con
altre dieci monache. Tra di esse sr. Maria Assunta (al secolo Antonietta
Longo) che, tornata in famiglia, visse sempre come una monaca e morendo,
il 17 aprile 1902, lasciò tutti i suoi beni all'arciprete Gueli e al
vicario foraneo Spinelli perché si fondasse in paese un istituto di
istruzione che, infatti, venne in seguito fondato e intitolato a S.
Benedetto. Della vita spirituale di questi monasteri ci sono rimasti pochi indizi.
Merita perciò di essere trascritto questo necrologio dall'Archivio
della matrice di Cammarata, traducendolo dal latino: "Sr. Donna
Giovanna Maddalena Coffari, moniale professa del monastero di Santa
Domenica di questa terra di Cammarata, dove dall'anno quinto della sua età
sino al settantottesimo in cui morì, fiorì per le virtù e
particolarmente per l'umiltà, l'eroica pazienza, l'astinenza, la carità
con cui riuscì a vincere se stessa e per la devozione al sacramento
dell'Eucaristia e alla Vergine madre di Dio. Molto si affaticò per il
loro culto e per l'ornamento dei loro altari e per la fornitura dei sacri
vasi e delle vesti per il sacrificio della messa, tanto che, ricca di virtù,
avendo provato i carismi dello Spirito Santo, meritò di sperimentare Dio
come guida sensibile delle sue opere. Finalmente nel detto monastero, dove
lasciò tanti esempi e monumenti di virtù, placidamente rese a Dio la sua
anima, il 24 aprile 1786" (34). Il monastero di Maria SS.ma di
Licata, chiamato dal Pirri coenobium antiauissimum, dell'ordine
di San Benedetto, con la riforma di S. Bernardo, come lo definisce
l'Annuario di mons. Turano, venne riformato nel 1585 ed ampliato nel 1619
e anche nel 1636, a spese di Giuseppe Serrovira; anche nel
secolo seguente venne ancora rinnovato. Con
le Opere Gioenine possedeva il feudo del Pizzillo. A causa dei gravi
pericoli, provenienti dalle continue piraterie ed incursioni dei Turchi,
nel 1594 le monache si trasferirono a Naro dove rimasero per un certo
tempo. Sr. Anna Maria Serrovira (1663-1738) nel 1719 fu eletta Abbadessa
e, realizzando un desiderio del padre che, allo scopo, aveva lasciato
delle rendite, istituì in paese quelle scuole che furono dette "serroviriane"
e compirono una vera opera di istruzione e formazione in paese (35).
Durante l'interdetto le monache del Soccorso di Licata, pur essendo il
loro monastero chiuso dall'esterno e circondato da soldati, come narra fra
Andrea da Gibellina "fortes, in bello, magno ac aequo animo omnia
ferentes, eareaium exemplum invictae oboedientiae Sanctae Apostolicae Sedi
aliis dederunt" (36). Nell'Annuario di mons. Turano come
vicario delle monache e ordinario è indicato il can. tesoriere Antonino
Malfitano, come abbadessa sr. Maria di Gesù Salto, nata nel 1823, le
suore sono 17. I
monasteri di Naro sono due; SS. Salvatore e SS. Annunziata. Il
monastero del SS. Salvatore o Badia grande fu costruito nel 1358,
durante la dimora in Naro del re Martino il giovane con la regina Maria.
Il Pirri lo denomina antichissimo. In principio era riservato alla nobiltà
di grado più elevato, ma, in seguito, fu aperto anche a quella di grado
inferiore. Possedeva ampi e dignitosi locali con un orto e un vasto
giardino ricco di alberi e di fiori (37). Furono molti i suoi benefattori
e specialmente Francesco Lucchesi. Sr. Maria Vincenza Andolina (o
Landolina) da Roma ottenne le reliquie di SanTorpedo che venivano onorate
"in una artistica urna di vetro" (38). Dalla visita pastorale di
mons. Lo Jacono risulta che nel monastero abitavano 21 monache, 6 educande
e 11 converse. Nel 1854 terminò il governo dell'abbadessa Maria Francesca Palmeri, e il
vescovo Lo Jacono, nell'attesa dell'elezione della nuova badessa, nominò
vicaria sr. Maria Addolorata Colli "in cui tutte le qualità
risiedono" che già era stata vicaria; nel caso che non avesse
accettato doveva essere vicaria sr. Maria Teresa Castellana (39). Dall'Annuario
di mons. Turano si ricava che le monache erano 22, nove le educande,
badessa era sr. Maria Vincenza Gaetani, al secolo Antonina, nata nel 1851
; vicario delle moniali il p. Antonio Lauria e ordinario il p. Daniele
Averna (40). Sr. Maria Vincenza Landolina (Andolina) (1632-1989)
nacque in Naro da Vincenzo e da Enziana Gaetani, nel 1632; entrata nel
monastero grande, visse santamente e coltivò anche le lettere, tanto che
il Mongitore la cita nella sua Biblioteca Sicula. Lasciò un
manoscritto intitolato "Espressioni divotissime", pubblicato poi
dalla sorella Enziana, monaca dello stesso monastero. Nella biblioteca di
casa Gaetani di Naro si conservano sue Pagine manoscritte. Morì il
22 giugno 1698. Fra Salvatore, lo storico di Naro, nel suo manoscritto
conservato dalla Biblioteca Comunale cittadina, la chiama "religiosa
illustre polla sua nobiltà e vita santa non meno perché fregiata di
ammirabile letteratura". In un disegno del tempo viene rappresentata
seduta allo scrittoio con una penna in mano e a fianco una scansia di
libri. Maria Riolo Cutaia, diligente e documentata storica di Naro, nel
suo volume Frammenti scritti da autori naritani, già citato,
riporta alcune pagine di sr. Vincenza da cui traiamo solamente alcuni
brani della sua preghiera prima di andare a letto: "Signor mio Gesù
Cristo, prima di mettermi a riposare nel letto, voglio stare in ginocchio
ai vostri piedi... Non voglio mettermi a giacere come le bestie unicamente
per soddisfare i bisogni della natura, ma solo per conservare la vita per meglio vegliare nel vostro divino servigio... Intendo di fare tanti atti
di amore quanti fiati respirerò; unisco il mio sonno insieme coi sonni
che prese il bambino Gesù sulle braccia della sua cara Madre Maria...
Affinchè i miei peccati non impediscano la vostra grazia io voglio
dispurgarmi con fervido atto di contrizione che sia l'ultima disposizione
al mio riposo... Col vostro aiuto e con la vostra grazia, de, concedetemi,
vi prego, che, siccome sorgeste voi glorioso dal sepolcro dopo tre dì,
dal sonno di questa notte sorga viva e sana dal letto per meglio servirvi
e tutta rimessa sotto l'ombra del vostro patrocinio e di Maria Santissima
e con l'invocazione del vostro santo nome e col segno della Croce in
pace dormiam et requiescam" (41). Sr. Antonina Gaetani
(1824-1923), nata a Naro da Berengario e Vincenza Gueli nel 1824, seguendo
una genuina vocazione religiosa entrò nel monastero grande dove nel 1846,
pronunziò i voti. Fu più volte abbadessa. "L'amore verso il
prossimo e la benefica influenza della giovane saggia monaca benedettina
verso il popolo narese, si rivelarono in tutta la loro potenza nelle
grandi calamità che afflissero Naro al tempo della carestia e del colera,
rispettivamente nel 1854 e nel 1866" (42). Fu abilissima nel ricamo:
nelle chiese di Naro si conservano parecchi arredi sacri, pianete,
tunicelle, paliotti da lei ricamati nei colori liturgici con fili di oro e
argento. Dopo
il 1866 alle monache fu proibito di accettare postulanti "per cui,
man mano che andavano morendo quelle che c'erano, il numero di monache si
andava assottigliando. Quando rimase di loro un numero così sparuto che
non si poteva più accudire ne alla manutenzione del monastero ne alla
propria sussistenza, anche per la insufficienza delle rendite di cui erano
state spogliate... ognuna rientrò in casa sua". "Per le monache
fu un giorno di desolante tristezza quello in cui dovettero abbandonare il
proprio monastero, per la popolazione narese un avvenimento straordinario.
Man mano che una monaca, tratta fuori dal monastero, veniva posta sulla
carrozza, la folla radunatasi per curiosità faceva i propri commenti
conscia nell'intimo che si perpetrava un sopruso verso inermi creature a
Dio consacrate, le quali, per tanti lustri erano state il decoro della
Città col tacito esempio della loro vita raccolta nella preghiera e nel
lavoro. Per i soliti approfìttatori, invece, fu una grande occasione e
nel giro di pochi giorni il Monastero della Badia venne spogliato dei suoi
ricchi arredi, quadri, campane di vetro con Bam-binelli di cera, vasi di
alabastro, splendido vasellame, mobilio pregiato, calici di argento
lavorati con dorature e smalto e altre preziose suppellettili, tutto fu
saccheggiato e disperso. Le povere monache vennero strappate dal loro
monastero, qualcuna già dell'età di ottanta anni, altre malate ed
inferme. La Badessa Donna Antonina Gaetani, con due sorelle anch'esse
moniali Soro Filomena e Soro Calcedonia, al secolo rispettivamente Maria e
Francesca, trovò asilo nell'avita casa..." (43). Ma la badessa
continuò in casa sua la vita claustrale...
"Si addormentò nel Signore nell'anno 1923. Merita di essere
ricordata come donna di santissimi costumi e di elevato ingegno. Ma con
lei merita pure di essere ricordata tutta una lunga schiera di donne
velate e oranti delle quali Fra Salvatore da Naro, in un capitolo dell'Aurea
Fenice, ci tramanda solamente il nome e il casato, perché queste
creature, dall'esistenza umile e oscura, apparentemente senza storia, con
il loro breve passaggio su questa terra hanno segnato anche loro un
momento importante nella lunga scena della storia del mondo" (44). Di
sr. Antonina ci è rimasto "un libretto di preghiere che la Badessa
lasciò manoscritte e che sono il riflesso della sua anima verginale,
ricca di fervida religiosità. Sfogliando Guelfo le pagine, balzano agli
occhi espressioni di un amore ora divino e casto, ricco di elevatezza, ora
traboccante dell'ardore appassionato di un'anima bella tesa verso il
cielo" (45). Dalle pagine di sr. Antonina Gaetani, pubblicate dalla
signora M. Riolo Cutaia, nell'opera più volte citata, riportiamo soltanto
il brano: "II mio Crocifisso Lo porto dappertutto e lo preferisco
a tutto. Il mio Crocifisso Quando io sono debole, egli è la mia forza...
quando io cado egli mi rialza... quando io languisco, egli mi rianima...
quando io piango, egli mi consola... quando io soffro, egli mi guarisce...
quando io tremo, egli mi rassicura... quando io chiamo, egli mi risponde.
Il mio Crocifisso Egli è la luce che mi rischiara... il sole che mi
riscalda... l'alimento che mi nutrisce... la sorgente che mi rinfresca, la
dolcezza che mi inebria... la bellezza che mi incanta, la solitudine ove
mi riposo... la fortezza ove io mi racchiudo... la fornace ove io mi
consumo... l'oceano dove io mi immergo... l'abisso ove io mi perdo: io
trovo tutto nel Mio Crocifisso. Io
non voglio niente desiderare... niente cercare... niente domandare...
niente attendere... niente ritenere che il Mio Crocifisso Egli mi guarderà
nel corso della vita... mi rassicurerà alla morte e mi coronerà
nell'eternità, dove io
dovrò tutta la mia beatitudine al Mio Crocifìsso.Se basta a Gesù il mio
cuore Al mio cuore ancor basta Gesù Se Gesù di me è contento Contenta
sono anch'io del mio Gesù Deus meus et omnia Cupio dissolvi et esse cum
Christo" (46) . L'altro monastero di Naro era quello della Santissima Annun-ziata. Parlando
dei due monasteri così scrive l'abbate Vito Amico: "L'antico del SS.
Salvatore il più ricco e il più grande; più recente l'altro intitolato
a S. Maria Annunziata; quello presso il convento dei frati predicatori e
l'altro non lungo dalla scala del tempio principale, vicino al Collegio
gesuitico; presentansi entrambi nella più fiate mentovata via (la strada
che taglia a mezzo la città) commendevoli dalla religiosa integrità
delle componenti" (47). Secondo la visita di mons. Lo Jacono nel
monastero vivevano 21 monache, 10 educande e 5 converse. Nei
primi anni dopo l'unificazione di Italia, le monache del l'Annunziata, di
cui era badessa sr. Maria Cristina Celesti, furono costrette a trasferirsi
e riunirsi con quelle del SS. Salvatore, con grandi disagi per tutte perché
i locali non erano sufficienti allo svolgimento della vita religiosa. Da
una notizia ricavata dagli Atti della Curia vescovile di Agrigento (48) si
apprende che il coro del monastero del SS. Salvatore non poteva contenere
le due comunità per la recita dell'ufficio divino e perciò il vicario
capitolare, essendo allora la sede vescovile vacante, il 10 novembre del
1865, ordinò che l'aula capitolare del SS. Salvatore servisse come coro
per gli atti comuni alle suore dell'Annunziata. Nell'Annuario di mons.
Turano si elencano per il monastero dell'Annunziata 25 monache, una
educanda, tre converse. Era abbadessa sr. Maria Alfonsa (al secolo
Giuseppa) Lauria e ordinario il sac. Andrea Bracco. In
Palma Il monastero del SS. Rosario di Palma fu fondato da Giulio Tomasi
e Caro, il "duca santo", con bolla di Alessandro VII del 6
luglio 1657. Il paese era
stato fondato dal fratello gemello Carlo che, nel 1638, ne divenne primo
duca, ma due anni dopo rinunziò al ducato in favore del fratello Giulio
per seguire la sua vocazione religiosa tra i Teatini, ma restò sempre
ascoltatissimo consigliere del duca e di tutta la famiglia. Giulio Tomasi
e Caro, nato a Ragusa nel 1614, nel 1640 sposò Rosalia Traina, baronessa
di Torretta, da cui ebbe i figli: Giuseppe che, anche lui, seguirà lo zio
tra i Teatini e lascerà un nome tra gli eruditi e splenderà per l'eroica
santità riconosciuta dalla Chiesa; Ferdinando, che morrà infante, un
altro Ferdinando, che sarà il terzo duca, e le fìglie che tutte
entreranno nel monastero da lui fondato e si avanzeranno nel cammino della
perfezione: Francesca Giovanna, nata nel 1643, in religione sr. Maria
Serafica; Isabella Domenica, nata nel 1645, in religione sr. Maria Crocifìssa;
Maria Antonia nata nel 1648, in religione sr. Maria Maddalena; Alipia che,
nata nel 1653, in religione assumerà il nome di Maria Lanceata; anche la
moglie, lui vivente, entrò nel monastero, assumendo il nome di sr. Maria
Seppelita. Scrisse
fra Biagio della Purificazione, biografo del "duca santo":
"Apriva liberamente (per la fondazione del monastero) la sua mano il
duca, non avendo riguardo a spesa, mentre doveva servire alla maggior
comodità delle Spose di Cristo. Volle che l'edificio fosse ampio, ameno
ed arricchito da un vasto giardino affinché fosse temperata in qualche
modo la severità della clausura che doveva essere rigorosa e perpetua...
per questo, con raro esempio di cristiana pietà, il duca privossi dei
commodi del proprio palazzo, dedicandolo alla abitazione delle
monache" (49). Il monastero fiorì subito per la perfetta osservanza
della regola, la santità non ordinaria di parecchie moniali, tanto che il
vescovo agrigentino mons. Francesco Maria Rini nella relazione della sua
visita ad limino nel 1862, scriveva: "E' celeberrimo il
monastero di Palma costruito dal suo piissimo duca. La lode precipua (e la
più nobile) è nella santità delle sue monache. Il loro spirito mi è
comprovato da maestri veramente periti in queste discipline; tra di loro
c'è qualcuna il cui nome è venerabile, non solo in diocesi, ma altrove
(50). L'accenno
alla venerabile sr. Maria Crocifìssa, allora ancora vivente, è
inequivocabile. E così ne parlerà sempre con lodi nelle relazioni delle
visite successive. Nella sua visita ad limino del 1703 mons.
Francesco Ramirez (1697-1715) che conobbe personalmente la Venerabile e
volle essere presente alla sua morte, parlando di conventi e monasteri
della diocesi, lamenta qualche irregolarità e confessa di avere
lungamente cercato di riformare i monasteri di moniali, ma con pochi
risultati. Eccettua però espressamente il monastero di Palma in cui Dio
effonde ogni benedizione: "qui esattissima è l'osservanza dei voti,
regolare la disciplina, somma ed indefessa la sorveglianza, il silenzio;
completo il distacco dalle cose secolari, assiduita nell'orazione,
volontaria la povertà così profonda che ricevere un filo anche dai
ministri del convento, senza licenza dei superiori, viene considerato un
delitto. L'obbedienza è così pronta che noi, quando vogliamo indicare
l'abnegazione della volontà propria di quelle sacre vergini, siamo
soliti, quasi per iperbole, dire: non così un forte vento muove le frondi
degli alberi, come noi moviamo la volontà di quelle cinquantotto vergini.
Esse spesso affermano che a loro spetta obbedire, a noi comandare e che
noi non comanderemo mai nulla che esse non eseguiscano all'istante;
insomma questo monastero e di esempio per virtù e santità a tutto questo
regno" (51). Il 21 novembre 1699 l'arcidiacono Francesco Martorana,
nella seduta capitolare propose: "Avendo passato all'altra vita sor.
Maria Crocifissa della Concezione... attesa la fama di santità e concetto
comune di questa serva di Dio, con effetto che non si perdesse la memoria
della sua ottima vita, costumi e di quanto Dio si è degnato in essa
comunicarsi, deve in ogni conto il nostro capitolo fare le sue vive
istanze a fine si pigliassero le informazioni o farsi a sua istanza quanto
è possibile etiamdio sino al debito fine e farsi il processo cosi
appresso Monsignore per l'autorità ordinaria, come a qualsivoglia
legato... in qualsivoglia parte e luogo e anche alla Sede Apostolica, così
convenendo non solo perché il capo di tutti l'ecclesiastici di questa
diocesi e la parte più nobile di quelli, dopo il prelato... ma anco per
essere la Serva di Dio nata oriunda di questa città di Girgenti e per
avere ricevuto il santo battesimo nel fonte battesimale di questa
cattedrale ed avendo sopra di ciò votato fu concluso, nomine
discrepante, che si facessero le suddette istanze..." (52). Il
processo diocesano infatti fu tenuto nel 1701. Durante l'interdetto il duca di Angiò, Girolamo Gioeni, allora vicario
generale con autorità viceregia per Agrigento e diocesi, più volte con
veemenza, come scriva fr. Andrea da Gibellina, cercò di indurre le
monache di Palma a violare l'interdetto e fece circondare il monastero
dalle guardie, ma le moniali resistettero nella fedele osservanza
dell'interdetto e dell'obbedienza alla Santa Sede (53). Nell'annuario di
mons. Turano, stranamente, non sappiamo per quale motivo, il monastero è
menzionato due volte, uno con il titolo di monastero di San Benedetto
sotto titolo della Concezione, ordine benedettino, e poi con il titolo di
Monastero del Santissimo Rosario, ordine di San Benedetto, ma osservando
attentamente i nomi delle moniali si vede che sono gli stessi: la prima
volta le monache sono chiamate con il solo nome di religiose, e la seconda
anche con il cognome di famiglia. Esempio, nel primo elenco: suora Maria
Beatrice della Concezione, nata nel 1816, abbadessa; suora Maria Aloisa
della Concezione, nata nel 1812, priora e cassiera, le monache sono 32, le
converse professe 8; nel secondo elenco: Di Benedetto suora Maria
Beatrice, nata nel 1816, abbadessa; Difalco suora Maria Aloisa, nata nel
1812, priora, le monache sono 34, le novizie sono 2, le educande 6, le
converse professe 8. In totale, in ambedue gli elenchi, tutte sono sempre
40. Il
Capitolo della Cattedrale nel 1707 indirizzò al Papa una lettera
postulatoria per la beatificazione della Serva di Dio sr. Maria Crocifissa
che sembra una falsariga per bolla di canonizzazione. La riportiamo alla
conclusione di questo lavoro come un omaggio a tutte le sante suore
benedettine che, certamente, dovettero vivere nei tanti monasteri
dell'Ordine, per tanti secoli, ornamento, decoro e anche segreta sorgente
di grazie nella Chiesa Agrigentina, perché di esse la Venerabile è il più
bei fiore di santità, conosciuto abbastanza bene, e, anche oggi, non solo
onorato, ma anche perenne esemplare per tutti: "Beatissimo Padre, La
divina bontà ci ha scelti per prestare a questa nostra Chiesa Agrigentina
il dovere quotidiano del servizio (corale) e perciò, a ragione, riteniamo
che non dobbiamo trascurare tutto quanto può servire in suo ornamento,
massime se può anche riuscire di utilità e decoro, unitamente alla religione, per tutta
la Chiesa cattolica. Noi stessi abbiamo personalmente costatato che dal
Padre del Lumi è derivato un grande splendore di santità alla venerabile
sr. Maria Crocifìssa della Concezione, monaca dell'Ordine di San
Benedetto, che nacque e ricevette grandi esempi di virtù dalla
nobilissima famiglia dei duchi Tomasi.Questa
nostra città di Agrigento le diede il luogo di nascita. Quando
lei aveva superato l'infanzia, la magnificenza religiosa dei suoi
genitori, nella città di Palma, loro signoria, appartenente alla diocesi
di Agrigento, eresse il monastero intitolato al Santissimo Rosario,
affinchè, posta in un piccolo campo di battaglia, conseguisse i maggiori
trionfi sul mondo e le sue pompe a cui, di più teneri anni, aveva
dichiarato una guerra precoce. Ne si può dubitare che non li abbia
conseguito, dato che, sempre fissa in un profondissimo disprezzo di sé
stessa, su cui aveva gettato le più salde fondamenta di religiosa umiltà,
per la via eroica dell'ubbidienza, della povertà, della mortificazione,
della carità e di tutte le altre virtù, condotta per mano dallo Spirito
Divino, con arduo sforzo, ma indefesso, istruita dallo stesso Maestro, avendo
emulato i migliori carismi, si stabilì al sommo della perfezione
cristiana; infatti per mezzo dell'unione mistica, nella carità perfetta,
per cui fu davvero Crocifissa al mondo, meritò di essere trasformata nel
suo diletto Sposo, inchiodato sulla Croce. Quanto
più umilmente la Serva di Dio si dedicava nel nascondimento, a questa
opera, tanto più benignamente Dio misericordioso, badando
all'edificazione della sua Chiesa, la manifestava agli uomini. Egli
stesso, infatti, arricchì, tanto copiosamente di doni soprannaturali la
sua Crocifissa, per mezzo di miracoli e di grazie, di profezie, di scritti
(lei che mai si era dedicata agli studi) mirabili e sublimi di mistica,
così che risuonava dovunque, altamente, la fama della sua santità e da
tutti veniva lodato il nome di Dio, a causa di questa sua umile ancella.
Cessò di vivere sulla terra dopo avere dato prova, in una lunga battaglia
di molti anni contro le inique tentazioni del diavolo e gli atrocissimi
dolori del suo corpo, della sua strenua fortezza, della sua invitta
pazienza. Da tutti si crede fermamente, con pio, unanime consenso, e si
proclama che ella viva in eterno nei cieli, per avere immediatamente, dopo
la morte, conseguito il premio delle sue virtù. Questo dimostra che la
singolare Provvidenza dell'Altissimo che non cessa, sino ad oggi, di
effondere miracoli, grazie, prodigi per intercessione della sua ancella.
Beatissimo Padre, la fama di tanta preclara santità, quanto più ogni
giorno aumenta, così anche cresce la fiducia nel patrocinio di questa
venerabile Serva di Dio e tanto più ardentemente si rinfuoca il desiderio
di poterla venerare con pubblico, liturgico culto, sugli altari. Già da
tempo noi instantemente e con tutte le nostre forze preghiamo il nostro
vescovo per la formazione del processo canonico, con potestà ordinaria,
perché alle nostre richieste - che possono anche dirsi di tutto questo
regno - voglia porgere orecchio benigno anche a questo pubblico e concorde
desiderio. Compiacetevi,
Santissimo Padre, di porre mano all'opera ordinando un ulteriore progresso
alla causa della sua beatificazione e canonizzazione: tutti chiediamo
l'oracolo del giudizio apostolico, affinché questa venerabile Serva di
Dio sia al più presto decorata con l'aureola dei santi nella chiesa
militante, come crediamo che brilli gloriosa nel trionfo dei cieli.
Intanto assiduamente preghiamo Dio Ottimo Massimo perché il mondo
cattolico onori, incolume, la Santità Vostra sul trono pontificio, in
modo che lungamente nel suo Capo, beneficentissimo ed ottimo, si provveda
al suo bene" (54). Note
1.
S. Benedicti, Reguìa monachorum, testo introduzione,
commento e note del card. I. Schuster, Alba 1945, p. VI. 2.
Nella visita pastorale compiuta da mons. Lorenzo Gioeni (1730 1754)
sono riportati gli elenchi dei libri posseduti dai sacerdoti: molti di
loro dichiarano di possedere le lettere di sr. Maria Crocifissa
(pubblicate dal p. Pietro Attardi, Girgenti 1704) e la sua vita scritta
dal can. G. Turano (1704). Indizio non solo della stima in cui era tenuta
la Venerabile, ma anche dell'influsso esercitato sul clero e sul popolo
dalle sue virtù e dai suoi insegnamenti. 3.
Cfr. P. Collura, Le più antiche carte dell'Archivio Capitolare
di Agrigento, Palermo 1961,p. 300 ss. 4.
Cfr. D. De Gregorio, La
Chiesa Agrigentina, A-gripento 1996, voi. I, p. 5.
Idem,
p. 265 ss. 6.
Idem,
voi. II,
p. 75 ss. 7.
Idem,
p. 77. 8.
C. Carità, Alleata dilecta, storia del comune di Licata,
Licata 1988, p. 9.
Idem,
p. 326. 10.
Cfr. I. Scaturro, La contessa Normanna Giuletta di Sciacca,
ASS LUI, 11.
Per queste e per
altre notizie, cfr. I. Scaturro, Stona della città di Sciacca,
Napoli 1924,1, p. 177, 239-40 12.
Idem.p.W. 13. Idem,
II, p. 529. 14.
Idem,p.533-4 15.
Annuario diocesano
del vescovato di Girgenti per l'anno 187^,
Girgenti 16.
Scaturro, Storia della..., voi. II, 1924, p. 60. 17.
Annuario...,
1875,p. 251. 18.
Scaturro, Storia della..., voi. II, 1924, pp. 528-529. 19.
Annuario...,
1875, pp. 252-253. 20.
Inveges, Cartagine Siculo, Palermo 1651, pp. 194-199. 21.
Cfr. D. De Gregorio, La Chiesa...,}, 1996, pp. 289-290. 22.
P. Andrca della Gibellina, Manoscritto dell'Interdetto, ms.
della Biblioteca Lucchesiana di Agrigento, II-I-I-12-13-24, p. 153. 23.
Per altri particolari cfr. D. De Gregorio, Mons. G. B. Peruzzo,
Trapani 1971,pp. 191ss. 24.
Marrone, Bivona,
città feudale, Caltanissetta 1987, I, p. 117. 25.
Ibidem. 26.
A. Marrone, Storia delle comunità religiose e degli edifici
sacri di Bivona, Palermo 1997, pp. 359. 371-372. 27.
Cfr. A. Marrone, Bivona..., 1987, p. 409 ss. e P. Collura, Santa
Rosalia nella storia e nell'arte, Palermo 1977. 28.
Cfr. R. Pirri, Sicilia sacra, Palermo 1733, p. 761. V.
Amico, Dizionario Topografico della Sicilia... tradotto dal latino ed
annotato da G. Di Marzo, Palermo 1858, p. 166. 29.
Scaturro, Storia della..., voi. II, 1924, p.479. 30.
V. Amico, Dizionario topografico.... I, 1858, p. 232. 31.
Per le notizie riportate qui e per altre, cfr. D. De Gregorio, Cammarata,
Notizie sul territorio e la sua storia, Agrigento 1986, pp. 409 ss. 32.
Idem,p.411. 33.
Idem,p.419 34.
Idem.pp.
420-421. 35.
Per le scuole serroviriane, cfr. D. De Gregorio, La Chiesa...,
voi. Ili,1997,p.332. 36.
FraAndrea da Gibellina, Manoscritto..., in D. De Gregorio, La
Chiesa..., Ili, 1997, p. 441, "forti nella lotta, con grande
sereno coraggio, sopportarono ogni cosa, dando a tutti un mirabile esempio
di invincibile obbedienza alla S. Sede Apostolica". 37.
Cfr. M. Riolo
Culaia, Frammenti scritti di autori naritani dal VI al XIX secolo,
Palermo 1989, p. 182. 38.
Ibidem. 39.
Cfr. S. Petruzzella, Naro: arte, storia, leggenda, archeologia,
Palermo 1938,p,79. 40.
Cfr. Archivio della Curia vescovile di Agrigento, voi. 1854, p.
267. 41.
M. Riolo Cutaia, Frammenti scritti..., 1989, p. 182. 42.
Eadem,
p. 356 43.
Eadem,
p. 367 , 44.
Eadem,
p. 370 j 45.
Ibidem. 46.
M. Riolo Cutaia, Frammenti scritti..., 1989, p. 427 47.
V. Amico, Dizionario topografico...,
II, 1 858, p. 184. 48.
Archivio Curia vescovile di Agrigento, voi.
1865 p. 189 49.
Fra Biagio della Purificazione, Libro
della vita dell'insigne servo di Dio D. Giulio
Tornasi e Caro, Roma 1685, citato da C. Gallerano,
GiulioTornasi di Lampedusa,
Palma di Montechiaro, 1991,
p. 165-166. 50.
Ibidem. 51.
Cfr. D. De Gregorio, La Chiesa...,
Ili, 1997, p.
45-46 53. Fr. 54.
Archivio Capitolare di Agrigento,
Atti Capitolari voi. Ili,
p. 217. Il testo originale latino si trova
anche in D. De Gregorio, La Chiesa..., III,
1997, pp. 315-317. |
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