Carlo
Bo
Indro
Montanelli
Eugenio
Montale
Pier
Paolo Pasolini
Sandro
Penna
Sergio
Corazzini
Carlo
Michelstaedter
Nazim Hikmet
Oriana Fallaci
- La rabbia
e l'orgoglio
Carlo Bo (Agosto 2001)
Con la scomparsa di Carlo Bo, la
letteratura perde uno dei suoi
più accaniti e recenti
sostenitori. Figura impegnata
all'interno dell'intero Novecento
culturale e letterario, Bo nasce
a Sestri Levante nel 1911; all'età
di 28 anni pubblica da Vallecchi
la sua prima grande opera,
"Otto Studi", al cui
interno si dà spazio al documento
"Letteratura come Vita",
affascinante nel titolo,
impegnato su vari fronti nei contenuti.
Dura è la sua critica
iniziale al significato e allo spazio
che negli anni '30 andava
configurandosi all'interno dei
letterati. Già, perché in tutti
gli studi del critico ligure,
letteratura e vita coincidono alla
perfezione; e non è immaginabile
un'attività letteraria che
prenda le distanze da una piena
occupazione dell'intellettuale.
La letteratura si configura così
come mezzo fondamentale per
agire con coscienza e dignità nel
Tempo, inteso nella sua
assolutezza ed eternità,
opportunamente distinto dal "tempo
minore" che concerne
il quotidiano e la storia. La piena
adesione di Bo alla corrente
ermetica, influenza a sua volta
buona parte delle sue
affermazioni all'interno dello stesso testo:
l'esistenza sconfinata
del Tempo e l'assoluto predominano sempre
sulla storia e sulla natura,
la manifestazione del divino è un'idea
presente insieme a quella
della ricerca della verità (entrambi
temi vicini al carattere
religioso dell'opera di Bo), i richiami
all'attesa e alla "incarnazione
di un simbolo" fanno
invece eco alla natura più tecnica
della poesia ermetica. D'altra
parte la tensione religiosa che
permea le pagine di Carlo Bo è
pur sempre connaturata ad un certo
pessimismo di fondo, che lo ha
condotto anche a radicali prese
di posizione contro eventi e
argomenti distanti dalle opinioni
della Chiesa. Si pensi in tal
caso alle pagine taglienti sul
Giubileo appena passato o,
risalendo al 1974, il suo
schieramento, assieme ad altri
cattolici, a favore del no
nel referendum contro l'abrogazione
delle legge sul divorzio.
In un articolo apparso sul Corriere
della Sera del 15 Maggio 1974,
quotidiano cui ha sovente
partecipato con articoli di
cultura letteraria, Carlo Bo afferma
l'inutilità di una battaglia
politica contro il divorzio in una
società "che mostra i segni
devastatori di una crisi
spirituale senza pari".
Ed è stato proprio il quotidiano di
Milano ad ospitare nel Giugno
scorso una delle ultime riflessioni
del "Duca di Urbino"
- appellativo affettuosamente e
ironicamente attribuito a Bo in
quanto nominato Magnifico Rettore
dell'università urbinate -
sul tema della poesia del Novecento,
quasi ad indicare la sua
costante partecipazione, fino a pochi
giorni prima della sua morte,
alle vicende letterarie e poetiche
italiane. E tra le riflessioni
più rilevanti, ne riportiamo di
seguito una, tratta dal primo
documento citato, rivolta a chi si
confronta ogni giorno con l'Olimpo
della letteratura: "Rifiutiamo
una letteratura come illustrazione
di consuetudine e di costumi
comuni, aggiogati al tempo, quando
sappiamo che è una strada, e
forse la strada più completa, per
la conoscenza di noi stessi,
per la vita della nostra coscienza".
Stefano
Savella
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Indro Montanelli (Agosto 2001)
Che cos'è un giornalista?
Dovendo rispondere a questa domanda
mentre ci accingiamo a parlare di Indro Montanelli, non potremo
che
affermare" un cronista che riporta fedelmente la propria
visione
dei fatti". Indro Montanelli, storico oltre che giornalista,
è senza
dubbio uomo del '900, capace di descrivere, vedere, esaminare
tutte
le correnti ideologiche dell'ultimo secolo, pur restando
sostanzialmente distaccato dal fascino che esse esercitavano
sulle masse.
Masse che per Indro, non erano le proverbiali pecore di Orwell,
bensì
un'insieme di singoli uomini che vanno condotti per mano affinché
capiscano i fatti. Montanelli, spirito libero, giovanissimo si
trova a dover
fronte allo Stato Fascista, dal quale fugge verso l'Abissina. Di
quella
avventura egli dirà "Per noi l'Abissina era come il West
per gli Americani,
andammo laggiù per sfuggire alle liturgie del regime; ma
anche lì arrivarono i gerarchi tronfi e buffoni". Parole
che ci fanno
ben comprendere di come sia poco appropriato il nomignolo
di "fascista" ( peccato diabolico di destra e sinistra).
Tra l'altro è bene
ricordarlo, fu anche messo a morte dal regime e salvato all'ultimo
momento
dal cardinale Schuster. Con l'avvento dei regimi comunisti e
la creazione del blocco sovietico, Montanelli passo quasi
istantaneamente
dall'antifascismo all'anticomunismo. Restano celebri i
suoi reportage dall'Ungheria in rivolta (1956) apparsi sul
Corriere della Sera;
di fronte ad un opinione pubblica che si aspettava una rivolta
borghese,
il giornalista parlo di rivoltosi comunisti antistalinisti. Era
la
consacrazione quale nemico storico della Sinistra. Inimicizia
che gli costerà l'allontanamento dall'amato Corriere che con la
direzione di Piero Ottone si avvicina sensibilmente alla linea
del P.C. I.
di Enrico Berlinguer. Nei confronti del '68, l'autore de "La
Storia d'Italia" ,
come del resto altri intellettuali dotati di senso storico(vedi
Pasolini),
mostrò perplessità al punto di profetizzare lo sfociamento nel
terrorismo di cui fu vittima. Episodio che Montanelli affrontò
con serenità
perdonando e giustificando gli esecutori dell'attentato in quanto
strumento
di una folle ideologia. Dopo l'abbandono del Corriere, nel 1973,
fondò "Il Giornale", quotidiano che doveva
rispecchiare le istanza
di uno Stato liberale. L'esperienza si concluse amaramente nel '94,
allorché il suo editore, Silvio Berlusconi, decise la "discesa
in campo".
Decisione che avrebbe fatto de Il Giornale lo strumento di un
partito.
Inammissibile per un giornalista fiero e indipendente come
Montanelli
che aveva costruito la sua professione sulla necessità di dare
una
visione reale e staccata al lettore. Indro, comunque non si fermò
al tiro
mancino del suo editore, anzi alla bellezza di 83 anni ebbe la
forza e
il coraggio di fondare un nuovo quotidiano "La voce".
Il 12 Aprile La
Voce chiuse i battenti; un giornale contro la destra politica ma
troppo
di destra per essere letto dalla sinistra, non aveva senso in
Italia, un
paese privo di senso dello Stato, dove i partiti sono privi di
dignità. Cosa
dimostrata in maniera disgustosa dalla sinistra nel corso della
festa
dell'Unità del 1994: Montanelli fu applaudito per il solo fatto
di essere
contro Berlusconi. Le esperienze come direttore-fondatore si
sono rivelate per Indro, delle tremende sconfitte. Sconfitte che
non
sono personali, bensì del giornalismo stesso; in quanto
Montanelli è stato
l'emblema della libertà e dell'indipendenza della parola. In una
recente
pubblicazione, Mimmo Candido, metteva in risalto come
il vecchio giornalismo (quando i fatti si raccontavano per far
capire
e pensare) sia stato ormai soppiantato dalla notizia, dallo scoop,
che
viaggia ad una velocità tale che non fa ne capire né pensare.
Ebbene
la morte di Montanelli, forse l'unico dei "vecchi" ad
avere
ancora mercato, lascia nel giornalismo un vuoto pieno di
interrogativi
sull'identità e sul futuro di questa professione.
Ruggero
Gorgoglione
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Eugenio Montale (Dicembre 2001)
Possiamo forse parlare di
tensione metafisica nell'opera poetica di Eugenio
Montale? Evidentemente sì, se poniamo il nostro interesse sulla
prima
raccolta poetica, edita nel 1925 sotto Garzanti, dal notissimo
titolo
"Ossi di seppia". Partiamo con l'analisi del titolo:
gli ossi di seppia,
simbolo dell'uomo, possono galleggiare felicemente sul Mare o
essere
sbattuti sulla Terra come inutili relitti; il mare regno dell'idillio
appare
già come oggetto metafisico cui l'uomo ambisce, che tocca, ma
non
possiede perché i flutti lo spingono a Terra. La Terra luogo del
limite
umano, dove non c'è che apparenza, luogo dell'inappagamento che
si configura come mancanza di senso (in ciò Montale sembra
risentire
della posizione filosofica leopardiana). Scendendo nel
particolare delle
composizioni montaliane, appare evidente come l'unica possibile
dimensione per l'uomo sia la Terra, e solo occasionalmente
tramite
miracolo è possibile intravedere il "metafisico" mare.
Va bene
inteso il termine miracolo, il quale non và interpretato come
gesto
sovrannaturale, bensì come sensazione reale che ponga la ragione
in
grado di percepire silenziosamente l'essere, ossia il mare.
Miracoloso
può dunque essere l'odore dei "limoni" in un silenzio
in cui le cose/
s'abbandonano e sembrano vicine/ tradire il loro ultimo segreto/.
Segreto che Montale sembra configurare al Nulla, come recita
nella famosa
quartina Forse un mattino andando in un'aria
di vetro,/ arida, rivolgendomi,
vedrò compiersi il miracolo:/ il nulla alle mie spalle, il vuoto
dietro/
di me, con terrore di ubriaco/. Ebbene il
poeta cerca di scuotere
il consueto inganno e di cogliere ciò che sfugge all'uomo. Perciò
non ci troviamo di fronte ad un Nulla quale assoluto negativo, ma
per
Nulla và inteso ciò che all'Uomo non è manifesto. Tant'è che
in
altri componimenti, lo stesso Essere-Nulla, è rappresentato
addirittura
con la sua antitesi ossia la luce: Portami
tu la pianta che conduce/ dove
sorgono bionde trasparenze/ e vapora la vita quale essenza;/
portami
il girasole impazzito di luce /. Tuttavia
non possiamo cancellare
né tanto meno rimuovere la negatività dal pensiero montaliano.
Infatti
è fortissima (come da lui affermato) l'influenza di Schopenhauer
oltre che di Leopardi; a ciò non bisogna dissociare la
condizione
storico-ontologica del poeta del '900: l'impotenza. Ciò è
particolarmente
esplicito nei versi Codesto solo possiamo
dirti/
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Ruggero
Gorgoglione
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Pier Paolo Pasolini (Febbraio 2002)
Pubblicato nel 1955, "Ragazzi di Vita"
segna l'esordio romanzesco
di Pasolini. Romanzo acre, duro, realista che attirò ben presto
strascichi
polemici, al punto che autore ed editore furono denunciati (accusa
alquanto infondata) per la presenza di scene sessuali. Ad onor
del vero, Pasolini si limita a descrivere una realtà, per quanto
dura,
pur sempre vera, verso la quale è inutile e omertoso chiudere
gli occhi.
Ambientato nella periferia romana degli anni 50, "Ragazzi di
vita"
è diviso in 8 racconti non collegati sistematicamente fra loro
(perciò leggibili separatamente). Protagonisti un gruppo di
giovani fra i
13 e 20 anni, il cui scopo è far fronti ai propri bisogni
primari in una vita
che li costringe alla più completa precarietà. Precarietà che
ha il quotidiano
come meta e l'incapacità di pensare un surplus sociale; in altri
termini
il degrado sociale è visto in questi giovani come una sorta di
peccato
originale che li condanna alla legge della Natura del più forte,
o
meglio del più furbo. Dal punto di vista stilistico, Pasolini
riesce in
un mix linguistico (tra l'italiano e il dialetto romano) agile e
comprensibile.
La scelta di affidare al "romano" i dialoghi diretti
rende ancor
più realiste e melodrammatiche le situazioni narrate. Di
notevole
spessore le descrizioni dei personaggi dotate di un lirismo
poetico
capace di far emergere l'interiorità attraverso l'esteriorità.
In
"Ragazzi di vita" troviamo già un Pasolini che
inaugura la svolta
poetico-narrativa che introdurrà nella dimensione
cinematografica.
Basti pensare che gli ambienti del romanzo in questione sono
anche "il set" dei primi film quali "Accattone"
e "Mamma Roma".
Vicende che all'Italia dell'Euro iperconsumistica, sembrano
lontane anni luce. Eppure questa non è che una denuncia
superficiale.
In realtà Pasolini in questo romanzo va a colpire in maniera
spietata
senza ripensamenti un cardine dell'istituzione repubblicana:
l'eguale opportunità. Fondamento primo della democrazia, ma
anche
maschera meschina per nascondere l'evidente ingiustizia. La tanto
decantata "libertà" simbolo, parola e idea dei
politici, si configura
come un contenitore repressivo nei confronti del tempo che cessa
di essere escatologico. Infatti la classe dominante, attraverso
la sua
fitta rete comunicativa ha il solo scopo di clonare se stessa,
evitando
attraverso l'indifferenza lo spirito d'idealità che sopraggiunge
nelle
nuove generazioni. Nuove generazioni sempre più stupide e
bigotte,
incapaci di ribellarsi ad un sistema che con l'esca del
permissivismo
costringe il giovane ad una schiavitù intellettiva. Perde in
sostanza
l'attributo di essere pensante perché "altro" pensa e
decide per lui.
Pasolini, appare presto conscio di questa operazione distruttiva
da parte della rete comunicativa, orientando in tal senso il suo
impegno di intellettuale controcorrente. Se in "Ragazzi di
vita" i giovani
nascono e muoiono, senza scelta, nella delinquenza (e ciò non
è solo la trama di un romanzo) è necessario porsi due
interrogativi:
Che cos'è la libertà? Come si applica la libertà? Nessuno in
Italia nel creare uno Stato libero l'ha fatto. E mi sembra
impossibile
praticare ciò che non si conosce.
Ruggero
Gorgoglione
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Sandro Penna (Febbraio 2002)
La poesia di Sandro Penna
appartiene all'eredità più viva e nascosta
del Novecento letterario, un bagaglio ancora troppo chiuso,
nonostante
i venticinque anni appena trascorsi dalla scomparsa del poeta
umbro.
Vissuto a cavallo del secondo conflitto mondiale, conquistò da
subito
la simpatia di Umberto Saba, che lo introdusse tra le "Giubbe
Rosse". Ma la sua storia di poeta, in realtà, non prosegue
molto oltre,
nonostante una serie di pubblicazioni che portava alla luce,
anche a
distanza di decenni, poesie sempre inedite. E' infatti la sua
storia di
uomo a dominare la lirica, così formalmente alessandrina e,
unica nel
contesto, priva di simboli. I versi di Penna sono versi
trasparenti, tutto
appare sotto una luce chiara, inequivocabile; una chiarezza
che sottintende la ribellione alla società, non nella
contestazione,
ma nella emozione della parola: Penna non si strugge, neppure
quando
incrocia gli occhi fulminanti di un angelo, lo stesso che ritrae,
sulla
scorta della sua "esperienza del male" (Pasolini),
con le dolci
ali viola della bestia. Ed è questo stesso
slancio ossimorico
a porsi alla base dell'esperienza penniana, tra libido e umano,
sogno
e realtà, ma soprattutto eros e solitudine. L'amore, infatti,
inteso
come passione dell'esistenza condizionata dagli istinti, pur
rappresentando
l'elemento centrale della poesia di Penna, non ne è allo stesso
tempo il punto di maggiore interesse; terminato l'ossigeno del
piacere, dall'amore sgorga solitudine. Ma si tratta, in realtà,
di una
condizione immutabile, giacché lo stesso "regno di Penna è
la gioia
di sentirsi anonimo e solo" (Garboli). La solitudine dunque
acquista
una dimensione nuova, che rima con la solarità dei volti e degli
sguardi dei fanciulli così ossessivamente presenti, ma che
lascia
sovente, specie nei testi più tardi, il posto alla depressione e
alla
malinconia, una pioggia da gonfie nubi
silenziosa. Con l'addio
alla gioventù, si spegne in Penna quell'esaltazione che aveva
costruito pietra su pietra la sua poesia, che aveva messo
tra parentesi
il mondo degli adulti, rifiutandolo nella sua miserabilità,
e che era pervasa dal sorriso adolescente, il suo "centro
celeste".
Sullo sfondo reale delle industrie e dei treni, la figura del
giovane, solo,
in bicicletta, in prati o in riva al lago, col suo
sapore di fango e di stelle,
incrocia mille volte il poeta, in una solitudine senza fine
Lontano
io resterò - o ardente solitudine mia.
Stefano
Savella
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Sergio Corazzini (Aprile 2002)
Addentrandosi nella poetica di
Sergio Corazzini, non si può prescindere
dal tenere in dovuta considerazione l'arco di tempo
particolarmente
breve che la distingue. La critica, è noto, rischia sempre di
deviare le proprie
riflessioni quando entra in gioco l'emotività, nei casi in cui
il poeta porta dietro di sé una storia personale quantomeno
caratteristica; il caso di Corazzini, poeta romano morto di tisi
nel
1906 all'età di ventuno anni, ne è un esempio lapalissiano.
Tuttavia,
risulta necessariamente improbabile approfondire un percorso
lirico come questo, senza esaltare lo spirito giovanile che si
nasconde
dietro quei versi carichi di desolazione. La breve vita di
Corazzini si
svolge tra il Collegio Nazionale di Spoleto e il lavoro, ancora
adolescente,
nell'angusto ufficio di una compagnia di assicurazioni della
capitale.
L'indole lirica risente del brusco cambiamento, ma soprattutto
della malattia, che infonderà in tutti i versi un'ansia di
nostalgia
verso il sogno ricorrente, che è al tempo stesso inevitabile
accadimento,
appunto la morte. E la sua è stata infatti definita la "poetica
del
sentirsi morire". Ogni lirica appare un addio, un ultimo
lamento di
morte, un fanale che acceca così tanto da far chiudere gli occhi,
definitivamente. Non esistono paesaggi, non simboli, non immagini,
non colori, se non stanze rosse dipinte di buio. Una "musica
esangue
di parole e immagini" (Solmi) che risuona nei luoghi che più
le si addicono:
chiese, conventi o ospedali, come nel caso di Toblack, dove c'è
Vita che piange, Morte che cammina. Corazzini, giovanissimo,
appare, secondo la definizione del Petronio, un "fanciullo
dolorante e
morente che nulla poteva opporre alla morte imminente, e che si
confortava solo nel trovare diffusa tra le cose la medesima
tristezza";
una fanciullezza che costituisce tema a parte nelle sue liriche,
di chiaro
ma non marcato stampo pascoliano. Il fanciullo di Corazzini è
tanto dolce da essere ingenuo ("dal cuore vergine",
precisa Pupino),
tanto pensoso da essere suicida, fanciullo che sogna una
prospettiva
liberatoria per estraniarsi dalla consapevolezza dell'età adulta.
Dolcezza e sincerità, non a caso, appartengono tanto alla figura
del giovane Corazzini quanto ad ogni suo verso. Versi da sempre
catalogati tra quelli dei maggiori crepuscolari, perché se è
vero che quelli di d'Annunzio prendevano spesso la forma e i
colori
di giochi pirotecnici, quelli del giovane poeta romano appaiono
un esile
e fiero fuoco nel camino di una notte d'inverno. Una notte,
appunto:
perché non pensare infatti alla poetica di Corazzini come ad un
crepuscolo mattutino, ad un'alba tra accademismo e verso libero,
tra l'inimitabile e il desolato?
Stefano
Savella
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Carlo Michelstaedter (Aprile 2002)
Carlo Michelstadter, morì a 23 anni. Si suicido dopo aver
consegnato al relatore la tesi
di laurea dal titolo “La Persuasione e la
Rettorica”. Dunque un folle,
uno da non prendere in considerazione, non certo
un modello da seguire. Eppure
bisogna analizzare “La Persuasione e la
Rettorica” per comprendere il
gesto di questo moderno Catone, che ha preferito
la morte alla vita, ossia la
libertà alla schiavitù. Vissuto a cavallo del
primo Novecento, Michelstaedter
vive appieno sulla propria pelle la crisi dell’intellettuale
ormai privo di un ruolo sociale
rilevante. È il tempo delle avanguardie, di
futuristi e crepuscolari, di
Papini, Marinetti e Corazzini. Tuttavia
Michelstaedter, Goriziano, ebreo
non praticante cresciuto nell’ambiente
mittel-europeo, se ne estranea.
La sua è una critica radicale sul modo vivere
l’esistenza; non ha bisogno di
esaltare la macchina come i futuristi, di essere
“teppista” come Papini. Egli
analizza l’uomo calato nella “rettorica” (sistema
retto), ossia nel mondo dove
si insegna come realizzare i desideri e il
desiderio per eccellenza:
essere realizzati. Una pretesa che sembra
concretizzarsi ma resta una
perenne illusione allietata da altri grandi
illusioni quali l’amore,
il premio, la gloria, il lavoro. Cose grandi, ma,
tuttavia non riusciranno mai
a compensare la ricerca della piena libertà, cioè
della piena realizzazione.
Michelstaedter decide di svuotarsi, di cercare la
via libertà. Un percorso
solitario, da compiere senza paura, senza la sicurezza
delle illusioni; un percorso
il cui obiettivo è “la persuasione” dell’essere,
ossia la piena accettazione
della vita nel suo presentarsi. Accettazione che
non implica un certo lassismo,
tutt’altro, “la persuasione” è il vivere libero
in cui ogni momento scelta,
in cui tra vita e morte non c’è differenza in quanto
la morte è nella vita stessa,
il suo supremo compimento nella ricerca della
libertà. Michelstaedter guarda
al passato cercando di intravedere esempi di
uomini “persuasi” che hanno
agito liberamente. Scorge Socrate ma soprattutto il
Cristo. Gesù non scrive un
libro di istruzioni per arrivare al bene. Non esce
in edicola con i titoloni
“Ecco il mondo è così”. Il Cristo non frequenta i
circoli o le accademie;
Egli è per strada, nella piazza, vive pienamente, ama
senza chiedere nulla,
muore con coraggio senza risentimenti o rimpianti, con La
Consapevolezza: “Tutto è compiuto”.
Ruggiero Gorgoglione
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Nazim
Hikmet
(Agosto 2002)
Libertà,
rivoluzione, amore. L’imponente eredità letteraria
del poeta turco Nazim
Hikmet, una vita trascorsa tra impegno, carcere ed esilio,
ruota tutta intorno a
questi tre centri. Tre parole che raccolgono un unico ideale
di vita, a sua
volta minato giorno dopo giorno da 12 anni di carcere, torture
e isolamento a
causa della sua fede politica. I versi di Hikmet lasciano
sempre tracce
profonde, veri e propri solchi in anime disarmate dinanzi
alla pochezza dei
giorni nostri. Così le lodevoli e imborghesite poesie d’amore
aprono
d’incanto interminabili spazi, una volta giunti alla lettura
dei versi
hikmetiani concentrati su aspetti più intellettualmente
ricercati della vita
umana: in questi versi si consuma lo spazio vitale della
libertà, di cui il
poeta era stato solo fisicamente privato. Si rincorrono
ricordi d’infanzia, i
paesaggi della sua terra, e accanto ad essi l’uomo moderno
con i suoi crimini
senza freni, vittima del potere e della propaganda. Nella
lirica “Girano
girano i reattori atomici”, in quasi ottanta versi il poeta
si dipinge attorno
un paesaggio che il futuro già possiede tra le sue fauci,
il futuro dei
reattori nucleari iniziato a Hiroshima; e racconta, seguendo
un climax di
concitazione, le tenebre più oscure dell’animo umano, la tortura,
la
corruzione, il razzismo, la povertà, la guerra, fino a
sciogliersi
inesorabilmente nell’unica luce di sua conoscenza: “Speranza,
Speranza,
Speranza, / la Speranza è nell’uomo”. Non usa mezzi termini,
Hikmet, per
definire poi i pericoli cui l’uomo incorre a causa della
propaganda politica,
dello strapotere dell’informazione, che metterà all’indice
in Turchia i
suoi libri, accusati di “incitamento alla rivolta” contro
lo Stato Turco.
Interminabile, nonché attualissimo, è l’elenco incalzante
dei mezzi
mediatici e non, che il potere sfrutta per le numerose
contorsioni della verità.
La lirica “Delle vostre mani e della menzogna” si prefigura
essenzialmente
come un urlo, specie nella parte finale, rivolto agli uomini
di ogni parte del
mondo, di fiducia e ancora di speranza, affinché l’uomo divenga
consapevole
che “questo mondo non sta sulla corna di un toro, / questo mondo
è piantato
sulle vostre mani onnipotenti”. Nazim Hikmet, Medaglia della Pace
nel 1950,
intellettuale di spicco di tutto il Novecento accanto ai compagni
Majakovskij e
Neruda, a Pablo Picasso e a Jean Paul Sartre che si sono battuti
nel 1949 per la
sua liberazione, solo da pochi mesi riabilitato simbolicamente
della
cittadinanza turca strappatagli dalle mani prima dell’esilio
forzato, oggi
parla ancora all’umanità, a quasi quarant’anni dalla scomparsa,
con la voce
affannosa ma potente di un Poeta finalmente libero.
Stefano
Savella
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Oriana
Fallaci - La
rabbia e l'orgoglio (08/2002)
Siamo
in attesa di "celebrare" l'anniversario
dell'attentato al World Trade
Center e al Pentagono ed è naturale fare un bilancio di quello
che è stato.
Tra i maggiori effetti della tragedia, c'è stata una forte
rivalutazione delle
differenti culture religiose e un inasprimento tra di esse.
Il mondo si è
diviso tra coloro che hanno invocato la tolleranza verso
il mondo islamico, pur
non essendo ricambiati, perché non è corretto fare di tutta
l'erba un fascio;
altri, invece, hanno "aperto gli occhi" sul pericolo
che l'Islam
potrebbe rappresentare per il mondo occidentale. Da questo lato
della barricata,
si è schierata Oriana Fallaci, l'intellettuale italiana più nota
e autorevole
nel mondo, insieme ad Umberto Eco. Come corrispondente di guerra,
la scrittrice
ha seguito tutti i conflitti del nostro tempo, dal Vietnam
al Medioriente -
celebre l'intervista che fece ad Arafat - e ha scritto molte
opere, tra cui
Insciallah, ambientata proprio in Medioriente. Allora, come non
credere ad una
donna che ha visto con i propri occhi realtà terribili, una donna
dalla cultura
spaventosa, coltivata sui libri e sul campo? E' questo il punto.
Se nel suo
ormai celebre libello "La rabbia e l'orgoglio" ci ha
rivelato che
"gli epicentri del terrorismo islamico internazionale sono
sempre stati
[...]Trani, Bari, Barletta [...]", dobbiamo fidarci, anche
se la cosa
dovrebbe esserci passata sotto il naso senza accorgercene?
Sicuramente l'autrice
si è informata, prima di mettere per iscritto certe accuse.
Ma come ha potuto
constatarle, dal suo appartamento a New York? Nel frattempo,
però, coloro che
hanno condiviso la sua visione, avranno accettato anche questi
particolari. Ma
il suo "piccolo libro" ha fatto scalpore soprattutto
per la feroce
invettiva contro la cultura islamica. La Fallaci afferma che,
volenti o nolenti,
la nostra civiltà, pur poggiandosi sulla cultura classica,
è stata forgiata e
cementata dal cristianesimo. E' per questo motivo che teme
lo scoppio definitivo
di una guerra santa tra cristiani e musulmani. Uno scontro che
l'autrice non ha
intenzione di perdere, forte della “superiorità” delle civiltà
europea e
americana. Fin dove ha ragione e fin dove ha torto Oriana Fallaci?
Ha
semplicemente espresso sinceramente i nostri pensieri più
reconditi? Il confine
non è molto netto. Si è anche - giustamente - scagliata
contro l'ondata di
antisemitismo che ha invaso l'Europa dopo l'11 Settembre
e l'assurdità del
conflitto riaccesosi tra Israele e Palestina. Soprattutto
in Francia, proprio
dove "La rage e l'orgeuil" ha scatenato polemiche
molto più accese
che qui in patria, a causa del razzismo espresso contro
i musulmani. E’ un
fenomeno positivo la nascita di un confronto e un dibattito
culturale a partire
da un libro (prendiamo per esempio Tiziano Terzani che ha
pubblicato per
contrastarne il successo, un libro dal titolo "Lettere
dalla guerra").
Ma cosa pensare, quando un semplice libro di ampio successo
rischia di
giustificare e alimentare l’intolleranza verso le culture diverse?
Michele
Miglionico
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