ATTUALITA' E SOCIETA'

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SPECIALE "GIOVANI"

Eredità scarlatte (di Vincenzo Andraous)

Guerrieri in erba (di Vincenzo Andraous)


SPECIALE "IMMIGRAZIONE" 

Immigrazione e ospitalità

Viaggi della speranza e politica internazionale

Intervista - L'impegno in prima linea

Riflessione sulla nuova legge Bossi-Fini

Aids, di Valerio Mascolo



Eredità scarlatte (Febbraio 2002)

di Vincenzo Andraous
Carcere di Pavia e Tutor "Casa del Giovane"

Sono in questa comunità "Casa del Giovane" da tempo ormai, e mi accorgo
che c'è sempre qualcosa da imparare, da rielaborare e tenere ben a
mente. Anche quando i percorsi, i metodi, le dinamiche sono tutte al
loro posto, c'è un lampo che attraversa il nostro passo, e ci obbliga a
fermarci per riflettere. Molti sono i minori accolti in queste strutture,
e molti sono coloro che accompagnano i loro passi, con attenzione e
capacità intuitive, che a volte "servono" più delle competenze
acquisite con lo studio delle tecniche educative. Certo è difficile
comprendere il disagio che li avvolge, ancor più esplicare metodi
educativi risolutivi, perché ogni persona è un mondo a sé, allora
intervenire diventa "scienza della mente e del cuore", e non sempre
è facile riuscire dove la vita non è stata ancora vissuta, ma è stata
incredibilmente lacerata fin dal suo sorgere. Le storie che incontro
sono pezzi di vita che sbarrano la strada, bussano alla porta della
ragione per tentare di sfiorare finalmente un senso, quel senso che
i giovanissimi prendono a calci, per reazione all'indifferenza o
all'incapacità dell'altro di farsi carico delle sofferenze che sono state
loro imposte. E' un'umanità adolescenziale che cresce piagata per
non avere avuto possibilità di scelta, se non quella di fuggire lontano
da un reale sotto vuoto spinto. La nostra è una società che allunga
il passo, che ha memoria corta, una società che recita, sì, il Padre
Nostro, ma lo fa meccanicamente per non sentire l'importanza di
quelle parole, né gli impegni assunti con quella preghiera. Il "branco"
è roba che riguarda gli altri, perché "tanto ai miei figli non accadrà
mai". Qualcuno ha detto che, finché i bambini non saranno intesi
come figli di tutti, essi saranno destinati a scontrarsi, e soccombere,
con gli interrogativi di questa esistenza. Lutrec è un ragazzo che non
somiglia per niente ad un uomo, è un giovanissimo con gli occhi di
cerbiatto. Non è neppure un bambino, è un adolescente che non cede
metri al tempo, mentre rimane fermo ad aspettare. Ricordo quando l'ho
visto arrivare in comunità: un uragano, un tir senza comandi, una
valanga che tutto travolge e sconvolge. Impotenti di fronte a tanto
furore. A ben guardare, Lutrec è davvero fin troppo giovane per
essere così reattivo e diretto nello scontro fisico, quanto evasivo nel pagare
pedaggio al gioco delle verità. Nei primi tempi non ha fatto altro che
provocare, offendere, cercare guai con i coetanei, con gli adulti,
persino con Dio. In che modo seguire e accompagnare un piccolo
Attila, un distruttore di pazienze e speranze? Come evitare di reagire
allo stesso modo, o peggio, guardare da un'altra parte? Ma in Lutrec
non c'è un disturbo della personalità, né una patologia esistenziale,
c'è il rischio della sconfitta, per non esser stati capaci di intervenire
con scienza e coscienza. Dietro la maschera del duro c'è
un'intelligenza viva, lucida e creativa. Dietro quella maschera
indossata a difesa ed offesa, c'è il peso delle tragedie vissute,
del dolore incamerato e mai elaborato, delle sofferenze accatastate
e mai del tutto superate. Lutrec non conosce ancora la propria storia,
la propria dimensione, il proprio spazio e tempo, rifiuta i ruoli all'intorno,
porta addosso un'eredità mai voluta né condivisa. Non ha deficit
cognitivi, né turbe emotive strutturali, alla sua età, è stravagante per
monopolizzare l'attenzione, ricorda ma non accetta le assenze eterne,
né i rifiuti delle presenza rimaste. Riflettendo con parsimonia di
giustificazioni, ma con maggiore onestà intellettuale, si potrebbe
sostenere che le negatività messe in atto da Lutrec non sono altro
che la esplicitazione di una superficialità verso la propria persona e i
propri sentimenti. Ecco allora la sua paura, la sua sfiducia in se
stesso e negli altri, la sua convinzione di non valere qualcosa, né di poter
fare cose significative per il proprio futuro. E questa percezione genera
diffidenza, disimpegno, alimenta solo l'attenzione al "tutto e subito,
qui e ora". Don Enzo Boschetti, fondatore della Casa del Giovane,
ci ha insegnato che "si educa e rieduca solo con l'amore e la fiducia…":
questo è il solo modo per andare incontro alle solitudini che
devastano il mondo giovanile, alle incapacità di trasformare relazioni
interpersonali conflittuali, in relazioni vere, che servano ad elevare
anima e cervello, quindi a costruire nuove convivenze e comunità.


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Guerrieri in erba (Gennaio 2002)

di Vincenzo Andraous
Carcere di Pavia e Tutor "Casa del Giovane"

Alcuni studenti mi hanno chiesto perché in questi ultimi tempi, si verificano
fatti delinquenziali compiuti da adolescenti e giovani adulti, non più
e non solo di bassa estrazione sociale, ma provenienti da famiglie
borghesi e benestanti. Prima di rispondere, ho pensato ad un'altra
dimensione, differente nello spazio perché limitato e nel tempo perché
in eccesso. Ho pensato al carcere. A ben guardare persino qui dentro
ogni cosa non è più al suo posto, "le gabbie di partenza" non sono
più le stesse, e se osservo con attenzione, mi accorgo non solo che
gli extracomunitari sono dappertutto, che i tossicodipendenti
abbondano, che i giovani non sono più quelli di una volta. Quelli
che per una precisa scelta di vita decidevano di imboccare il vicolo cieco,
consapevoli del rischio di andare a sbattere la testa. Mi accorgo anche
che ci sono i malavitosi con tanto di patente a punti, e con stupore mi
rendo conto che sono una minoranza in via di estinzione. Allora agli
occhi balzano due considerazioni: che il problema sicurezza e' legato
al crimine di piccolo cabotaggio e che i ragazzi che sopravvivono
nelle patrie galere somigliano più ad un groviglio di vite disastrate
per dipendenze di ogni genere, non ultima quella di esorcizzare la vita.
Ai miei tempi si scivolava dalla trasgressione, alla devianza, alla
criminalità, per uno scopo semplice, per denaro: il rischio ed il
rapporto causa-effetto erano inquadrati in un conflitto permanente
tra base e vertice, quindi tra malavitosi e istituzioni. La fotografia che
appare nitida oggi, mostra un agglomerato umano detenuto, che
aiuta a rispondere alla domanda postami all'inizio. A mio modo di vedere
c'è stato in questi anni una specie di mutamento antropologico, che
stravolge ogni parvenza di linearità, addirittura contorce il più corretto
ed onesto dei valori, la famiglia. Dapprima c'è l'illusione da parte del
nucleo famigliare, di essere per-bene, perché si è raggiunto un
benessere economico, con la convinzione che ciò non può
comportare alcun tipo di rinculo. Eppure è in questo modo di vivere
"sempre in piedi" che nasce l'iconografia del nuovo disagio, come
ha ben detto qualcuno "il disagio dell'agio". E' fin troppo facile, parlare
di benessere materiale che disconosce o peggio ripudia il benessere
spirituale, appare persino retorico accennarlo, quando la realtà sta in
un'educazione che riconosce unicamente i primi della classe, coloro
che non si fanno fregare in prossimità della metà. Qual è oggi la
famiglia che ci rappresenta tutti? Non certo quella di ieri, la nostalgia
del passato non consente un paragone credibile, forse la verità è che
siamo cambiati noi, a tal punto che non esiste più un modello di
famiglia. Esiste invece un imperativo che contempla e avvolge non
solo la famiglia, ma anche la vita, e con ciò intendo il linguaggio
contemporaneo, che sovverte i lignaggi, le religioni e le politiche,
quel linguaggio che mette a soqquadro e drammaticamente inverte il
concetto di "essere con l'avere". Rendendo vani e fallimentari negli
adolescenti processi e percorsi di costruzione della propria identità.
Tanti anni fa un vecchio saggio mi disse: "una fortezza resiste se la
guarnigione è bene addestrata". Quale famiglia resiste ai conflitti
fisiologici ad ogni salto generazionale, se gli stili educativi corrono
sull'assenza di tempo, sull'atomizzazione dell'ascolto, sulla comodità
di concedere attenuanti, in rifugi costruiti a misura che
deresponsabilizzano. E' molto più facile elargire un sì, che un no,
perché quest'ultimo non comporta spiegazioni ed allenamento alla
fatica. Per il ragazzo che è in attesa al palo, il sentiero si restringe,
diviene una scorciatoia, l'ammenda è facile da pagare per rincorrere
da una parte un'autonomia e capacità di scelta prive del proprio carico
di responsabilità, perché indotte da un'infantilizzazione che rasenta
la follia. Dall'altra è ovvio che avanza l'assenza di freni e di capacità a
mediare (nozioni queste che in un recente passato erano peculiari
della famiglia, della scuola, etc. etc.). Va da sé, che così facendo è ben
più stimolante non subordinare mai le passioni alle regole, a tal punto
che quel desiderio di autonomia, improvvisamente irrompe con il suo
carico di sconosciute responsabilità, e contenerne la spinta senza
conoscerne il senso, equivale a trovarsi disarmati e arresi già in
partenza. Nella comunità "Casa del Giovane" di don Franco Tassone
a Pavia, dove io sono tutor, ho compreso quanto sia difficile conoscere
ed interpretare il mondo di un minore, mettersi nei suoi panni. E'
proprio in questa mia nuova avventura, che ho scoperto un'altra
differenza tra l'età adolescenziale odierna e quella che fu mia, se
mai ne ho avuta una. Ricordo che non sopportavo i grandi, le persone
adulte, quelle che avevano tutte le loro belle certezze, i loro domani
sicuri. La mia ribellione, il mio urto e fastidio era soprattutto per loro.
I ragazzi che osservo, seguo, ascolto oggi, non hanno rancori, ire, ferite
da addossare ai grandi, è come se quell'eredità fosse scomparsa, non
urge più il bisogno di "affratellarsi" per essere antagonisti degli adulti,
ora è necessario formare il gruppo per competere e vincere con i
propri pari. Per essere "tosti" occorre tecnologia avanzata, abiti
griffati e perfezione dell'immagine. Nasce il gruppo dei pari che combatte
gli altri pari, e le armi usate nelle contese, sono quelle che i grandi
lasciano senza protezione all'intorno. Sono le armi delle parole,
quelle parole che teatralmente condannano la violenza, per poi esortare
i propri figli a non credere a nessuno, neppure a tante storie anonime,
drammatiche, devastanti, scritte e cancellate nella frazione di uno sparo.

Immigrazione e ospitalità (Agosto 2002)

Che tipo di volto deve avere la società per essere autenticamente ospitale?
Questa domanda assume un valore del tutto particolare, non solo nell’attuale
congiuntura politica internazionale ma in un contesto mondiale sempre
più globalizzato, in cui l’interdipendenza delle persone, delle culture costringe
a fare i conti con l’altro che ci interroga sul nostro essere. Per comprendere
la società attuale nei rapporti intercorrenti con la questione dell’ospitalità
bisogna tener conto delle profonde spinte alla multiculturalità, dato che preannuncia
quel fenomeno ormai noto a tutti con il termine di pluralismo. L’uomo tardo-moderno
dopo essere stato de-temporalizzato e de-localizzato, è stato proiettato
in un universo sempre più grande nel quale sperimenta il superamento dei
propri confini ma si percepisce abitante
di un mondo sempre più vasto e smisurato, inquietante, quasi postumano.
In questa situazione l’ospitalità ha assunto un significato in un certo qual modo
“destinale”, intendendo con ciò il senso di un processo che ha la sua origine
nell’allargamento dei rapporti del singolo dal XVII sec fino all’avvento del
“villaggio globale” (McLuhan). L’età moderna ha così generato una situazione
di “anomia”, di perdita d’identità che nelle minoranze etniche ha significato
una presa di posizione molto critica nei confronti del mondo tardo-moderno
il cui pericolo maggiore sembra risiedere in una frammentazione sociale senza
precedenti. Queste stesse minoranze, venuta meno la teoria assimilazionista
espressa dal melting pot (pentola in fusione), secondo cui gli
immigrati avrebbero dovuto lentamente seguire i modi di pensare dei paesi ospitanti,
dagli anni Ottanta hanno cominciato a far valere proprio quelle differenze
che concorrono a definire l’identità dei singoli; per questo la teoria del
melting pot ha ceduto il passo a quella del salab bown (insalatiera)
del “meticciato”, secondo cui ogni individuo è chiamato a mescolarsi con
il differente da lui, mantenendo però il proprio “sapore identitario”.
La questione dell’ospitalità intrattiene anche una relazione con l’ostilità,
perché l’arrivante è, come dice Derida, l’evento che irrompe, il perturbante
lo chiamerebbe Freud, la questione stessa dell’essere in questione.
Quale è allora la legge dell’ospitalità, se deve essere incondizionata che rapporto esiste
con le leggi, non esiste forse un’antinomia tragica fra la legge e le leggi
dell’ospitalità? Elaborare una politica dell’ospitalità è allora non essere mai abbastanza
giusti, una sorta di differimento di quella giustizia che per essere all’altezza
di se stessa deve essere improrogabile, quasi un eccesso che preme, un’imminenza
che urge mai presente ma che non vuole essere rimandata.

Giovanni Riefolo


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Viaggi della speranza e politica internazionale (Agosto 2002)

Cronache di tutti i giorni, specie d’estate, raccontano
di sbarchi di clandestini, di carrette del mare, di nazionalità, etnie, scafisti
e centri d’accoglienza, seguendo puntualmente un triste canovaccio che reti
locali e nazionali sfruttano a svantaggio di un’informazione completa.
Questo è, appunto, il canovaccio. In occasione, tuttavia, di varianti
eclatanti al tema – collisioni, sequestri di droga – non si manca di citare
e nascondere ciò che a loro volta citano e nascondono le uniche fonti disponibili,
quelle militari. Ma cosa si cela realmente dietro nomi come curdi,
cingalesi, sudanesi, o quali storie appartengono a centinaia di albanesi,
nordafricani e asiatici, è ben difficile scoprirlo. Ecco allora qualche
riflessione utile. Moltissime navi cariche di migranti partono dalle coste della
Turchia, terza potenza militare della Nato, paese ufficialmente democratico ma
che fa ancora affidamento sul carcere duro e sulla tortura nei confronti della
minoranza di etnia curda dell’est del paese. La politica violenta e discriminatoria
dello Stato turco conduce alla disperazione della popolazione curda,
privata di lavoro, diritti umani e cultura, costringendola alla migrazione
soprattutto in Italia e in Germania. Un discorso simile riguarda i curdi
di nazionalità irachena, che dopo aver subito, negli ultimi decenni, i bombardamenti
chimici di Saddam e la Guerra del Golfo combattuta anche sul loro territorio,
si trovano oggi a far fronte ad un costante progetto di arabizzazione
del territorio del Kurdistan compiuta dal regime iracheno e da fazioni di Al-Qaeda.
Il popolo curdo risiede in quattro diversi paesi dell’area mediorientale,
e solo l’impegno della Comunità Internazionale può riservare una parvenza
di Patria per questo popolo. Altri fronti caldi che interessano il fenomeno
migratorio sono lo Sri Lanka, isola a sud ovest dell’India dove nel nord del
paese le “Tigri” di etnia Tamil rivendicano il governo del territorio dove
rappresentano la maggioranza della popolazione; il Sudan, retto da un governo
dittatoriale e messo a ferro e fuoco da numerose bande armate; la Somalia, divenuto
ormai uno Stato incontrollabile da ogni forza politica. Aldilà dei recenti
spiragli di pace su alcuni di questi fronti, è chiaro come in realtà il fenomeno
migratorio sia sempre più di portata globale, che non può essere per forza
di cose risolto con provvedimenti di espulsione o con l’internamento per mesi
in campi d’accoglienza. Se inoltre si aggiungono, alle situazioni sopra elencate,
quelle dei paesi del Nord Africa e dell’Albania, che versano in condizioni
economiche difficilissime e con tassi di disoccupazione elevatissimi, si comprende
la varietà di circostanze delle quali una giusta politica migratoria deve
necessariamente tener conto. A cominciare dal dover identificare il migrante
“clandestino” dagli occhi, dalle mani e dal fisico provato di chi ha bisogno di aiuto.

Stefano Savella


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Intervista - L'impegno in prima linea (Agosto 2002)

La questione "immigrazione" è diventata il punto di rilievo nelle discussioni
sociali. In effetti l'immigrazione sta raggiungendo vette
elevatissime e ben pochi scovano al di là della parola, il bisogno di aiuto,
le speranze e le paure che spingono milioni di essere umani
ad abbandonare la propria patria, la propria cultura per raggiungere
paesi dove tutto sembra perfetto. Ornella Corsi, coordinatrice dello
sportello per l'integrazione e l'intercultura di Barletta, ci ha raccontato i disagi che
affrontano gli immigrati una volta giunta sulle rive dei paesi tanto sognati.
Oggi, che l'immigrazione è cresciuta sia dal punto di vista
geografico che numerico, cosa significa essere la coordinatrice
di uno sportello per immigrati?

Per rispondere a questa domanda dovremmo esaminare due aspetti:
quello ufficiale e quello umano. L'aspetto ufficiale consiste nel
risolvere le pratiche burocratiche, dare indicazioni e prepararsi
per non dare false speranze alla gente che richiede delle sicurezze.
Dall'aspetto umano io sinceramente mi sento molto stimolata. Il fatto
di poter aiutare gente che ne ha bisogno e raggiungere un grado
di tolleranza vera esente da giudizi, accresce il desiderio di fare sempre
di più per questa gente.
In cosa consiste il suo lavoro e come vengono svolte le attività con gli immigrati?
Il nostro sportello è denominato "Sportello per l'integrazione
e l'intercultura" e in realtà è proprio questo. Il nostro è uno sportello
informativo che mantiene contatti con la questura, con la sanità,
con i comuni limitrofi. Inoltre si offre accompagnamento per gli immigrati
e si svolgono lezioni di lingua italiana. La maggior parte di questi lavori
vengono svolti da volontari.
Cosa ne pensa della legge"Bossi- Fini"?
Per me è un'offesa ai popoli che emigrano. Certo un paese ha bisogno
di una legge che regolamenta l'immigrazione ma credo che con
questo nuovo provvedimento gli immigrati vengano ormai considerati
solo rapinatori, assassini dimenticando che è gente bisognosa che
abbandona il proprio paese per necessità impellenti. Per il momento
questa legge è discussa solo in maniera teorica, staremo a vedere
con la pratica cosa succederà, anche se penso che deluderà gli obiettivi fissati.
Secondo lei, la possibilità di avere a disposizione uno sportello,
cosa significa per gli immigrati?

Il nostro sportello per gli immigrati rappresenta un punto di incontro,
è un luogo dove non ci si sente soli, significa avere qualcuno che
gestisce le situazioni. Però è importante sapere che lo sportello non
favorisce l'immigrato ma rende giustizia alla situazione che egli sta vivendo.
Lei, che è in continuo contatto con gli immigrati, crede che il loro
desiderio ricorrente sia tornare nel proprio paese o stabilirsi in Italia?

Secondo la mia esperienza ho potuto constatare che il più delle volte
gli arabi preferirebbero tornare mentre la maggior parte degli albanesi
preferirebbero stabilirsi in italia in conseguenza anche dello
sradicamento delle proprie culture. Comunque credo sia un discorso
molto astratto in quanto chiunque preferirebbe rimanere in un paese
dove lavora e vive in maniera umana che non ritornare nella propria
patria distrutta dalla cattiveria dell'uomo.

Angela Diella


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La nuova legge Bossi-Fini (Agosto 2002)

L' 11 luglio 2002 il Senato della Repubblica ha approvato il nuovo
disegno di legge, proposto dal Governo e modificato dalla Camera
dei Deputati, in materia di immigrazione e di asilo. Una legge che ha
ferma nel suo contenuto la volontà di reprimere l'immigrazione
clandestina in Italia. Purtroppo nel nostro paese e non solo, però,
la parola "clandestino" viene utilizzata come sinonimo di "criminale"
quindi in questo senso bisogna avere gli occhi bene aperti! La nuova
legge ha stravolto in gran parte la precedente "Turco-Napolitano"
ed ha come elemento cardine l'inscindibile binomio
tra permesso di soggiorno e posto di lavoro già ottenuto. Infatti la novità
è che, con questa legge, gli stranieri che entreranno in Italia
dovrebbero disporre già di un posto di lavoro. Un italiano disoccupato
(e ce ne sono tanti!) sa quanto è difficile in Italia trovare un impiego,
figuriamoci dal Terzo Mondo! Comunque la Bossi-Fini prevede
che un imprenditore che voglia assumere personale extracomunitario
debba presentare allo sportello unico per l'immigrazione della
provincia di residenza una apposita domanda. Questa domanda deve
specificare la modalità del contratto che intende stabilire
compreso lo stipendio. Dopodiché lo straniero, nel suo paese di origine,
dovrebbe rivolgersi alla Ambasciata italiana che dovrebbe (in base
ai requisiti richiesti) informarlo della offerta dell'imprenditore
nostrano. In questo modo lo straniero avrebbe un lavoro ed il permesso
di soggiorno. Ma fra tanti richiedenti quale sarà il criterio di scelta?
Inoltre il Presidente del Consiglio in Tv, da Maurizio Costanzo, pose
l'accento sulla volontà del nostro governo di creare delle scuole
formazione-lavoro nei paesi dai quali proviene l'immigrazione.
Qualcuno si immagina Saddam che dà il permesso per aprire una di queste
scuole accanto ad un campo di sterminio per Curdi in Iraq?
La Bossi-Fini prevede anche l'entrata nel nostro territorio di stranieri
per lavoro stagionale. La novità consiste nel fatto che delle persone
extracomunitarie dovrebbero entrare in Italia per lavorare ad esempio
tre mesi, e tornare nei loro paesi dando appuntamento al
lavoro dopo un anno, avendo anche il diritto di precedenza sugli
altri perché lo hanno già fatto. Una delle altre novità della legge è che
un lavoratore straniero che abbia perso il posto possa restare
iscritto alle liste di collocamento per sei mesi. Passato questo periodo
scatta l'espulsione: la precedente legge dava un anno di tempo. Inoltre
chi dopo aver lavorato in Italia torna nel proprio paese non può pretendere
la restituzione dei contributi versati se non ha raggiunto l'età pensionabile.
Insomma ci sono proprio delle belle novità! Ma tutte le novità
sono legate ad un unico elemento: lavoro. Una cosa più che giusta
ma bisogna ricordarsi che nel nostro paese arriva chi scappa da regimi
totalitari, da guerre civili e da campi di sterminio. Questa gente
non avrà mai modo di riuscire a stabilire il rapporto lavorativo prima
di arrivare qui da noi. Una volta arrivato, poi, sarà accolto dalla presa
di impronte digitali e rispedito a casa con la risposta "sei clandestino".
Perché oltre alla criminalità anche questa sarà IMMIGRAZIONE CLANDESTINA.
Infatti se un extracomunitario non avrà già il posto di lavoro
concordato nell'ambasciata del suo paese sarà considerato in
questo modo. Quindi masse di Curdi iracheni o cittadini di paesi in guerre
civili dovranno tornare a casa ad affrontare la loro durissima realtà.
Gente sì clandestina ma che di criminale ha solo il posto in cui vive.

Carlo Alboreo


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