Un giorno, un vecchio cantastorie si fermò a riposare nel mio
giardino, che da sulla strada che collega il borgo di Narmonere alla mite
città di Selume. Veniva da oltre i confini del regno e mi chiese di poter
riposare sulla panchina, all’ombra.
Mi narrò, allora, la storia di Alisheba, sacerdotessa del dio Badog, e
del suo fedele servitore Zead. E’ una favola, presumibilmente. Ne rimasi
affezionato, ed ancora adesso, che conto i giorni che mi separano dal
crepuscolo, amo rievocarla nelle tiepide serate di fine primavera.
Kirdigam
Manjuriam
Tutti,
nella Provincia Minore dei Malacotti, sapevano che la sacerdotessa
Alisheba era una donna avida, capace di qualsiasi atto pur di possedere
l’oggetto dei suoi desideri. E tutti ancor sapevano che la sua sottile
figura emanava una bellezza abbagliante ed incantevole, una bellezza
brillante di luce perversa e maligna. Taluni mormoravano che in realtà
ella era l’incarnazione di un demone fuggito dalle polverose segrete
costruite dagli déi all’alba dei tempi, ma molti erano quelli
affascinati dal suo splendore, se pur tutti sapevano che la malizia
regnante nel suo cuore era densa e cupa. E più di tutti lo sapeva Zead,
giovane ed enigmatico fedele servitore della sacerdotessa, bello anche
lui, bello come un cupo dio, triste come il sublime angelo scacciato dagli
déi, silenzioso come il vampiro acquattato nell’ombra notturna.
Chi,
nella Provincia Minore dei Malacotti, non conosceva Alisheba dal nero
cuore e Zead dai tristi occhi? Vi fu un tempo in cui la sacerdotessa regnò
su tutte le province malacottiane, ed accanto aveva il fedele Zead , e la
gente li ammirava e paventava. Chi, vedendo Alisheba, non rimaneva
incantato dal danzare delle sue braccia, dal librarsi delle sue perfette
mani, dall’ondeggiare sinuoso delle sue sensuali anche? E chi, pur
estasiamente ammirandola, non la tremava nel più profondo della sua
anima?
Ora,
vi fu un giorno di primavera, quando le rondini già volano sopra la
Foresta di Laft descrivendo cerchi ed ellissi che si intrecciano e si
spezzano quasi per magia, che nel borgo di Toldone giunse un grande
mercato. Toldone era un fitto grappolo di casette bianche sulla sommità
di una verde collina, e la gente era allegra e felice di vivere.
Be’,
in quel borgo mai fu visto mercato più grande e chiassoso, mai furono
visti tanti colori e udita tanta musica, e alla gente questo piaceva.
Le
bancarelle affollavano ogni via di Toldone, e i mercanti vendevano
articoli che giungevano dai luoghi più lontani e misteriosi. Camminando
fra la gente che si pressava e si divincolava davanti a baracconi
stracolmi di oggetti dalle mille fatture, si potevano ammirare le morbide
e leggere sete intessute dalle donne del Reame di Zijyalmantan, le
statuine di terracotta meticolosamente plasmate dagli artigiani delle
Regioni di Lukko, i piatti di porcellana e le pentole di rame delle
fornaci ai piedi dei Monti d’Opale, ed i coloratissimi abiti intessuti
nelle capanne sospese del Popolo delle Settanta Querce. E chi amava i
fiori non aveva difficoltà a trovare quelli coltivati nelle terrazze
pensili delle Città Gemelle, i cui colori mutavano a seconda della
posizione da cui si guardavano, e di certo poteva inebriarsi del denso
profumo dei piccoli fiori dei Feudi Riuniti, le cui essenze, se odorate,
facevano sognare donne nude danzanti ed orge nei giardini della musa
dell’amore. E in più vi erano i fucili e gli archibugi delle Terre
Libere di Yoran, le spade incise di Fuhrillyon, ciambelle e marzapane, e
libri, talismani, pentole di rame, tappeti ed ogni altra cosa
immaginabile. Mai fu visto mercato più grande.
A
Toldone mise su il suo baraccone anche il mercante Cnarel, un uomo basso
ed opimo, dagli occhietti avidi e gli abiti sgargianti, dalle dita
mollicce appesantite da anelli preziosissimi ed il collo sudaticcio da cui
pendeva una pesante catena d’oro. Alisheba lo seppe, e seppe anche che
Cnarel, fra tante pergamene antiche, libri di stregoni, spade d’eroi ed
erbe medicinali che possedeva, aveva un oggetto che non vendeva, almeno ad
un prezzo che non fosse degno delle ricchezze di un nobiluomo.
Ella
riposava nel suo tempio pensando a ciò. Sedeva in uno scranno di legno
nero dall’alto schienale, di lato un braciere di bronzo nel quale aveva
gettato una manciata di mirra ed oppio. Un profumo dolciastro andava
diffondendosi per tutto il tempo.
Davanti
allo scranno, alla fine dell’alta navata, vi era una grossa e profonda
nicchia ed in questa, illuminato da due ceri, riposava il dio Badog sotto
le sembianze di una scultura scura, color sangue rappreso. Il dio, la cui
forma non era umana ma neppure animale, osservava con spenti occhi il
soffitto del tempio, seminascosto nell’oscurità e sorretto da dodici
pilastri di lucida pietra verde come il muschio più scuro ed umido.
Alisheba,
inebriata ed assopita, sognava forse di fare l’amore col suo dio, e le
dita ogni tanto fremevano, e il petto sobbalzava di tanto in tanto.
Così
riposava Alisheba quando giunse Zead, avvolto in un nero mantello, coi
lunghi capelli neri e spessi che cadevano sulla schiena. Si fermò a
contemplare la sua padrona con un espressione di ferro, la fronte
corrugata e lo sguardo torbido. Attese di sapere le ragioni per le quali
era stato convocato.
La
sacerdotessa si destò e si mise in piedi, girandosi a fronteggiare il suo
fedele servitore. Il suo corpo pareva scaturire dal pensiero perfetto di
un dio innamorato… ma quale dio malvagio doveva essere! Tutto il lei era
provocante e conturbante: le gambe affusolate che donavano al palato il
sapore della dolce uva, i fianchi sottili che invitavano l’uomo a
cingerli tremante, i seni tondi come frutti inebrianti, i capelli
profumati che ubriacavano la mente dei ferventi, le dita sottili che
all’occorrenza sapevano trastullare e giocare con le intimità maschili,
le labbra tentatrici curvate in un sardonico sorriso, e gli occhi cupi e
brillanti di stigea malvagità.
Un
velo nero e leggero la ricopriva a stento. Un velo vagamente trasparente,
che lasciava libere le eburnee e delicate braccia.
Si
mosse verso Zead, socchiudendo gli occhi e alzando leggermente il mento.
-
Ho di nuovo sognato. – Scrutò il giovane. Una mano si librò come un
farfalla ed andò a carezzare il viso affilato e cupo di Zead. Gli sfiorò
il mento e si ritrasse.
-
Se almeno Badog si incarnasse in te… - sospirò. – Un giorno forse.
– Attese qualche istante. – Ti ho chiamato con un altro scopo. Come tu
sai, è giunta la fiera a Toldone, e con la fiera Cnarel, che possiede ciò
che io desidero. – Girò le spalle a Zead mettendosi di fronte alla
statua del dio, allargando le braccia ed alzando la testa. I capelli,
lucenti e neri, scivolarono lungo la schiena. Mormorò alcune parole,
quasi in estasi, rapita dalla visione del dio nella nicchia.
Si
voltò lentamente, ridendo con malizia. Ora tutto in lei esprimeva la
pura, limpida, incontaminata e perfetta malvagità.
-
Badog vuole ch’io possieda l’Elisir Nero, che è ingiustamente nelle
mani di Cnarel. Bevendolo io potrò ospitare nei miei sogni i pensieri di
Badog. Badog sarà in me, e i suoi sogni saranno i miei, i suoi poteri mi
doneranno forza. L’Elisir Nero è di Badog, e Badog lo vuole. – Si
risedette sullo scranno. – Sono indifferente ai mezzi che vorrai
utilizzare.
-
Certo. Agirò con riservatezza. – Detto ciò, Zead la lasciò. I suoi
passi echeggiarono nella navata.
Corrusca
del più puro male è Alisheba, pensava Zead nel cavalcare alla volta di
Toldone, e bella come nessun’altra. Essa desidera giacere con l suo dio,
ma quale mortale può osare di desiderare una simile cosa? Agli dei spetta
decidere… e Alisheba desidera troppo, poiché il male non si accontenta
mai. Pavento la leggerezza con la quale userà il potere di cui Badog le
farà dono.
Pareva
un’ombra, avvolto com’era nello scuro mantello, ed il suo cavallo
avrebbe potuto essere un tenebroso demone se non fosse stato per quella
stella bianca che l’animale aveva disegnata sulla fronte fin dalla
nascita.
Era
notte, ma le folte chiome permettevano di scorgere solo qualche stella, e
la luna faceva filtrare una luce pallida che ammantava l’erba come per
incanto.
Quando
Zead giunse presso Toldone sentì per un istante un fremito al cuore.
Bloccò la cavalcatura e stette ad osservare il borgo illuminato dai
lampioni a gas. Giungeva lieve una musica allegra di arpe e flauti.
Chiuse
gli occhi e lasciò che la sua fantasia colorasse quelle note con le più
belle immagini. Dame che danzavano su laghi dorati, praterie sconfinate
dove l’onnipresente foresta aveva perso il suo dominio… e le spiagge
del remoto e mitico mare, di cui tutte le leggende parlavano.
Interruppe
il lavoro della fantasia, e questa si dimenò arrancando per non morire,
spargendo freneticamente colori senza alcuna forma, fremendo, ed infine
sparendo nell’abisso della freddezza. Obbedire, pensò, e lanciò al
galoppo il cavallo, chiedendosi per quale motivo era divenuto servitore di
Alisheba. Potere, forse. Attrazione fisica verso quella stupenda creatura.
Chino
sul bancale, un boccale di birra tra le mani, Zead attendeva il ritorno
del ragazzo, un piccolo moccioso dai capelli rossi al quale aveva chiesto
di cercare il baraccone di Cnarel. Se ne stava in disparte, nascosto nella
penombra, per evitare di essere riconosciuto. La taverna era vuota se si
escludeva qualche avventore istupidito dal vino, dal di fuori giungevano
frammenti sgualciti di suoni, voci, urla, clangori e scalpiccii di
zoccoli.
Il
ragazzo entrò nella taverna e chiamò Zead con un bisbiglio. Lo condusse
attraverso un vicolo semioscuro, illuminato dalle stelle e percorso da un
vento sulle cui ali viaggiavano odori e lamenti strappati al mercato,
sbucando a qualche metro dal bancone di Cnarel. Zead fece scivolare nelle
mani del ragazzo tre pesanti monete e lo mandò via.
Il
baraccone di Cnarel era una grossa tenda color porpora, rotonda, con la
sommità a punta. Zead fece un giro attorno, fino a dove il tendone si
mostrava sulla strada affollata. In quel tratto vi era un’apertura larga
tre metri, occupata da un bancone colmo di cianfrusaglie; dietro vide il
grasso mercante mostrare bizzarri articoli agli ingenui contadini.
Zead
sorrise, poi entrò attraverso un’apertura laterale.
Il
grasso mercante stava lodando le caratteristiche di un piccolo amuleto
quando si accorse dell’intruso e, dopo essersi scusato con i paesani,
andò a controllare.
Poco
dopo il bancone veniva ritirato e l’apertura chiusa. Da quel momento
nessuno comprò più da Cnarel il mercante.
Prima
di uscire dalla tenda di Cnarel Zead si voltò a dare un ultimo sguardo.
Il corpo del mercante giaceva disteso su un tappeto color ruggine, gli
occhi spalancati e vitrei, la mano poggiata sull’impugnatura del largo
pugnale conficcato nel petto, l’altra stretta su una boccetta di vetro
nero.
Zead
guardò la boccetta nella mano del mercante, poi quella nella sua, un
leggero sorriso sfiorò le sue labbra. Uscì velocemente facendo
svolazzare il mantello.
Alisheba
attendeva Zead con nequizia serenità, sognando fantasie erotiche seduta
nel suo scranno dall’alto schienale. Quando Zead entrò ella tese le
braccia sopra la testa unendo i dorsi delle mani. Si alzò con estrema
lentezza, e il suo sorriso fu perverso nel vedere Zead tenderle la
boccetta.
-
Quel che si doveva fare è stato fatto, - disse il giovane dagli occhi
tristi.
-
Ed io non domanderò come è stato compiuto, - rispose la sacerdotessa.
Poi prese la boccetta e congedò Zead. Osservò la sua schiena mentre si
voltava, ed i suoi occhi risplenderono di malvagità quando spinse una
leva, e sorrise soddisfatta nel vedere la botola spalancarsi sotto i piedi
di Zead.
L’uomo
non urlò nel cadere, ma il suo corpo produsse un sordo tonfo nello
schiantarsi sulla ruvida superficie di pietra. – Non avrò più bisogno
di te, - mormorò. Batté le mani, e quasi per incanto apparvero da dietro
una colonna tre suonatori di violino. Intonarono un valzer, e Alisheba
danzò, l’abito trasparente che lasciava intravedere recondite intimità
piacevoli, invitanti, peccaminose, proibite. Bevve l’elisir e danzò
ancora, danzò fino a quando un dolore le morse lo stomaco, un pallore le
sbiancò il viso. I piedi si incrociarono e cadde sul pavimento.
Non
un gemito riuscì a fuggire dalla sua gola bruciante, ma mentre moriva i
suoi occhi lasciarono intendere ch’ella aveva compreso il tradimento di
Zead, ed allora con grande sforzo raggiunse il pozzo e vi si lasciò
cadere, un’espressione di rabbia impotente era disegnata sul volto
contratto.
I
violinisti continuarono a suonare. Avevano le palpebre sigillate ed
incavate, erano ciechi per un capriccio della loro padrona… ma chissà
come, un beffardo sorriso sfiorò per un attimo le labbra esangui.