Gian Vincenzo Imperiale

 

    Scrivere la biografia, seppur minima, di Gian Vincenzo Imperiale «stancherebbe le più famose penne che lo volessero degnamente celebrare», così giustamente scrive Pietro Petracci, detto «il Peregrino», nella sua Dedica dello Stato rustico vergato dall’Imperiale nel 1607. Gian Vincenzo nasce a Sampierdarena nel 1582 da Gian Giacomo (1550-1622) e Bianca Spinola. Essendo l’unico maschio degli otto figli del futuro doge della Repubblica di Genova, fin dalla tenera età sarà designato quale unico erede dell’ingente patrimonio del genitore[1], pertanto Gian Giacomo propenso a che il figlio diventi un esperto uomo d’affari, affida Gian Vincenzo alle cure domestiche di un istitutore. Vissuto nel palazzo di Campetto, edificato dal nonno paterno Vincenzo (1518-1567), in un clima rischiarato dall’amore per le arti e la cultura, il ragazzo si mostra subito incline a ciò che saranno i suoi maggiori interessi da adulto: la pittura e la poesia. «Sprezzando i trastulli puerili, cresciuto prima del tempo, precocemente avvezzo ad emulare o a scimmiottare il modo di vivere degli adulti, il giovinotto trascorre le giornate rinchiuso nel palazzo di Campetto o nella villa di Sampierdarena, a leggere, a studiare, a meditare sugli insegnamenti paterni, a comporre i suoi primi versi»[2] raccolti in tre tomi, ma che deciderà, in età matura, di non pubblicare perché ritenuti, dallo stesso autore, «giovanili et amorose». Agli inizi del Seicento, Gian Vincenzo «il Desioso» è membro dell’Accademia dei Mutoli, che abbandonerà qualche anno dopo, per passare a quella, più rigida, degli Addormentati di Genova. «La fama del giovane non tarda a divulgarsi, complice ovviamente il cognome ch’egli porta: e alla sua prima orazione ufficiale è un accorrere pittoresco di nobili e potentati, venuti a onorare nel figlio la persona del già tre volte senatore Gian Giacomo Imperiale».[3]

    Favorito dall’«otio nobile et negozio sicuro» garantiti dall’attività del padre, Gian Vincenzo acquisisce conoscenza e padronanza, consentendogli di instaurare amicizia con letterati e pittori entrando così a far parte dell’elite culturale di Genova.

    Nel novembre del 1604 il giovane ventiduenne rampollo di Casa Imperiale si unisce in matrimonio con la diciottenne Caterina Grimaldi, figlia di Nicolò e Maria di Stefano Lomellini, «ragazza tenera, delicata e mite di carattere» che, con la sua dote, impingua il patrimonio del neo marito con una esosa somma di denaro contante, un possedimento in Albaro[4] e varie rendite a Milano, Messina e Spagna.

    Il 9 ottobre del 1606, nella villa di Sampierdarena, nasce il primogenito della coppia Francesco Maria, al quale seguiranno Maria Geronima[5] nell’aprile del 1608; Giovanni Nicolò l’anno seguente e che morirà giovanissimo, all’età di quattordici anni, il 2 gennaio del 1623; Bianca Maria nel 1611[6]; Anna Maria, morta di pochi anni il 13 marzo 1614; ancora una Anna Maria nel 1616, che nel novembre del 1632 diverrà monaca col nome di suor Maria Benedetta.

Nel frattempo giunge per l’Imperiale il primo importante incarico politico, il Governo di Genova lo nomina colonnello per un biennio della Val Polcevera e il 3 giugno del 1611 viene abilitato a tale carica ricevendo le istruzioni e le lettere patenti. Il suo compito sarà quello di sorvegliare la zona a lui affidata, difendendola con ogni mezzo dai «corsari, ladri di strada, banditi et assassini».

    L’anno 1617 sarà un anno importante per la Famiglia Imperiale: il 29 aprile Gian Giacomo, all’età di sessantasette anni, viene eletto Doge della Repubblica di Genova[7], mentre la consorte di Gian Vincenzo è nuovamente in stato interessante. E l’8 gennaio 1618 Caterina dà alla luce Gian Battista. Ma quest’ultimo lieto evento avrà un epilogo tragico, in quanto «sfiancata dai postumi del parto, messa a dura prova dai rigidi umori della stagione, indebolita fors’anche dalla nutrita serie delle maternità mal sopportata dalla sua debole fibra»[8], Caterina muore il 15 gennaio, lasciando nello strazio e nel dolore Gian Vincenzo e i cinque figli, tutti in tenera età. Due giorni dopo in una Genova infreddolita, si celebrano i funerali e il corpo di Caterina Imperiale Grimaldi è sepolto nella cappella gentilizia della Famiglia Imperiale nella basilica di San Siro.

    Con il cuore gonfio di dispiacere, Gian Vincenzo riprende la sua attività, oltre che di letterato, anche di politico, accettando, di buon grado e senza remora alcuna, l’onorifico incarico governativo di Prefetto generale delle galee della Repubblica.

    Nel 1619, contemporaneamente al termine del mandato di doge di suo padre Gian Giacomo, si profila il primo incarico del neo ammiraglio: l’ambasciatore spagnolo richiede la flotta genovese per trasportare il duca di Albuquerque dal Papa su invito del monarca spagnolo. Gian Vincenzo salpa prontamente con quattro galee per un viaggio che durerà circa un mese.

    Nel 1621, dopo aver concluso positivamente il mandato biennale di comandante della flotta genovese, il 19 gennaio è nominato Commissario di Alberga: dovrà evitare che gente straniera penetri abusivamente in territorio genovese.

    Ormai sono trascorsi tre anni dalla morte della moglie e, con i figli ancora piccoli, nell’Imperiale matura l’idea di un nuovo matrimonio. Nelle serate mondane trascorse a Sampierdarena, Gian Vincenzo stringe amicizia con una ragazza «bella e piacente», vedova anche lei da alcuni anni, appartenente ad una delle famiglie più agiate e in vista della nobiltà genovese: Brigida Spinola Doria, figlia di Gaspare e moglie del quondam Giacomo Massimiliano Doria.    

    Madre di tre ragazze, una delle quali, Genebra, sposerà Francesco Maria, primogenito di Gian Vincenzo, Brigida accetta con favore la corte dell’Imperiale e, dopo aver chiesto ed ottenuto dagli organi ecclesiastici l’annullamento dell’impedimento dirimente, dovuto al lontano grado di parentela che lega i due promessi sposi, il 4 agosto 1621 si celebra il loro matrimonio.

Il 7 marzo 1624 Gian Vincenzo è eletto Capitano della Polcevera e, avendo ricevuto le mansioni di vigilanza e di presidio, si trasferisce a Rivarolo[9] facendo rientro a Genova ai primi di luglio dell’anno seguente, allorquando viene nominato Senatore della Repubblica per due anni.

Gli anni trascorrono e, tra incarichi politici, amministrazione del patrimonio e la corsa all’acquisto di dipinti di pittori illustri, l’Imperiale trova il tempo anche per preparare ed organizzare i suoi viaggio di studio, di cultura e d’interesse, tra cui quello dell’8 maggio 1632, accompagnato dal secondogenito Gian Giacomo, nel suo nuovo feudo di Sant’Angelo dei Lombardi, nei territori del Principato Ultra del Regno di Napoli. La trasferta a Sant’Angelo si è resa necessaria in quanto dopo l’acquisto del feudo, su cui gravavano parecchi crediti ipotecari, le citazioni, le ingiunzioni e gli ultimatum da parte dei creditori importunavano e di parecchio Gian Vincenzo, il quale decise di risolvere personalmente la delicata questione.

    Le tasse ritenute molto onerose, rendite illecitamente trattenute, ritardi nell’introito degli interessi ed altri fattori negativi spinsero l’Imperiale a percorrere altre strade nell’investimento degli ingenti capitali e, anteponendo «all’incertezza dell’introito più grande la certezza dell’assegnamento più sicuro», decise di «permutar i beni mobili in beni stabili» acquistando il feudo di Sant’Angelo, comprendente l’omonima cittadina, quella di Nusco e le terre di Lioni, Andretta e Carbonara per un totale di circa sedicimila abitanti.

    Le trattative per l’acquisto del feudo non saranno condotte in prima persona dal nobile genovese, gravato dagli impegni in patria, ma affidate alle mani inesperte e poco prudenti di Orazio Spinola che, scrive l’Imperiale nei suoi «Giornali», «trattò, conchiuse, stabilì; trattò, ma per modo contrario alle mie istruzioni; conchiuse, ma per forma diversa alle mie lettere; stabilì, ma senza stabilire il fondamento. O fosse per inganno di cupidigia, o per abbacinamento d’intelletto, o fosse per l’uno o per l’altro, egli fu il di struggitore dell’edificio che si fabbricava; perché non smaltì quegli averi che io teneva, sborsò que’ contanti ch’io risparmiava, non curò quella cautela che conveniva, e mi fece comprar liti, sotto specie di levarmi da litigare.»[10]

    In effetti acquistare il bene immobile alle condizione dettate dall’Imperiale si sarebbe rivelato un buon affare, ma invece fu il contrario, per via di liti sorte dopo l’acquisto a causa dei crediti ipotecari che gravavano sul bene; del jus fidanti vantato dai monaci di San Guglielmo del Goleto; di alcune pretese avanzate dal vescovo di Nusco e dal brigantaggio che imperversava nella zona.

    Nonostante questi fattori sfavorevoli, il 4 aprile 1631, il dottor Giuseppe Battimello, a nome e per conto di Gian Vincenzo Imperiale, veniva in possesso del feudo, acquistandolo, per 108.750 ducati, da don Francesco d’Aquino, conte di Soriano, mentre Francesco Maria Carafa, duca di Nocera, proprietario dello Stato di Sant’Angelo, avrebbe ceduto tutti i suoi diritti feudali.[11]

Ma da Madrid giunse un dispaccio al Viceré di Napoli che, per irregolarità di alcune clausole, non sarebbe stato concesso il Regio Assenso alla vendita; l’Imperiale accettò l’annullamento proponendo che il nuovo contratto venisse ristilato sotto una forma diversa dal precedente. Al nuovo istrumento di vendita, redatto il 25 giugno 1636, il Re concederà il Regio Assenso il 13 agosto 1637.

    Nel modo in cui ha affrontato tutte le delicate questioni legate all’acquisto dello Stato di Sant’Angelo, si è evinto il carattere di Gian Vincenzo Imperiale: uomo di larga esperienza, riflessivo, accorto negli affari, pacato anche quando le cose non vanno per il verso giusto.

Ma nonostante la serenità d’animo innata, l’Imperiale verrà accusato ingiustamente di aver ordinato l’uccisione del musico napoletano Carlo Muzio, pertanto verrà processato e condannato in contumacia al bando da Genova per due anni. Dopo la sentenza, il Senato di Genova stabilisce il territorio dove l’esiliato potrà risiedere: gli è così «assignatus jurisdictionis ecclesiae comprehenso Ducato Urbini ut ibi su beat relegationem»[12].

    Gian Vincenzo, scortato da un buon numero di soldati e accompagnato dall’inseparabile figliolo Gian Giacomo, abbandona la Patria e la famiglia e, a Bologna, verrà accolto dal nobile Galeazzo Paleotti, che l’invita a trascorrere un periodo di riposo nella sua residenza di campagna.   

    Nel frattempo il viceré di Napoli revoca i provvedimenti presi nei confronti dell’Imperiale dopo che questi, nel giugno del 1635, aveva inviato al Senato della Repubblica una missiva nella quale si meravigliava delle accuse mosse nei suoi riguardi chiedendo, inoltre, come si sarebbe potuto parlare di omicidio nei confronti di un uomo «che nel giorno d’hoggi è vivo, e benissimo stante»[13].

    Terminato l’esilio rientra a Genova e nella sua casa di Sampierdarena, il 17 marzo 1640, detta un secondo testamento, dopo quello del 30 agosto del 1630.

    Nel 1641 Gian Vincenzo è in corsa per la carica di doge, ma non riesce a prendere i voti necessari per l’elezione. Ormai il peso degli anni inizia a farsi sentire, la salute inizia un lento e costante declino. Il 7 aprile del 1645, forse con il presentimento che la fine fosse vicina, chiama il notaio Giacomo Lanata per l’ultimo e definitivo testamento, in cui affida al secondogenito Gian Giacomo l’eredità dei suoi beni.

    Il 21 giugno 1648, sul Registro dei Defunti della Basilica di San Siro, viene annotata la morte di Gian Vincenzo Imperiale. Ecco come ci descrive il funerale un testimone oculare: «Adì 24 di giugno fu portato a seppellire con gran pompa funerale il cadavero di Gio. Vincenzo Imperiale nella sua Cappella della Sapienza, dopo l’Ave Maria, con concorso di moltissima gente d’ogni sorte, in modo tale, che i Padri a pena avevano luoco per le solite fontioni attorno al cadavero; e furono cantati i Responsorii et il resto, che spetta al choro in musica.»[14]

    Gian Vincenzo Imperiale aveva da poco compiuto sessantasei anni.

 

 

   

 

Note:

[1] Nel testamento di Gian Giacomo Imperiale, datato 30 maggio 1586, viene fatta menzione di una cifra superiore ai cinquantamila scudi d’oro. (Torna su)

 

[2]  R. Martinoni, Gian Vincenzo Imperiale. Politico, letterato e collezionista genovese del Seicento, Editrice Antenore, Padova 1983, pag. 14. (Torna su)

 

[3] R. Martinoni, op. cit., pag. 16. (Torna su)

 

[4] Antico sobborgo extraurbano di levante, unito a Genova nel 1873. (Torna su)

 

[5] Sposerà, il 4 luglio 1625, Agapito Centurione Oltremarini, senatore di Genova. (Torna su)

 

[6] Bianca Maria entrerà in convento nel 1626 e l’anno successivo prenderà i voti con il nome di suor Giovanna Francesca. (Torna su)

 

[7] Scrive un cronista dell’epoca: «A’ 29 di aprile poco prima di ventidue hore fu dal Gran Consiglio, precedenti le solite elettroni de’ quindici, e poi de’ sei, eletto duce della Repubblica per due anni il Ser.mo Gio. Giacomo Imperiale, che in quel tempo era senatore, con centonovantatre voti favorevoli; e datali la nuova dalli Ill.mi procuratori andati per tal conto nell’altra sala, ove egli era con li altri cinque, fu spogliato del robon nero e vestito del cremesile e condotto fuori al cospetto dei Ser.mi Colleggi nella gran sala, et assettato a fronte del baldacchino». Cfr. R. Martinoni, op. cit., pag. 38, nota 137. Oltre al dogato, Gian Giacomo Imperiale ricoprì altri incarichi in seno alla Repubblica, fu infatti: Revisore delle cause criminali; Procuratore e senatore nel 1592; Commissario della Fortezza di Savona; Consigliere Maggiore nel 1573; Capitano nel 1578. Morì a Genova il 4 febbraio del 1622 e fu sepolto nella basilica genovese di San Siro. (Torna su)

 

[8] R. Martinoni, op. cit., pag. 40. (Torna su)

 

[9] Oggi Rivarolo Ligure, cittadina situata sulla sinistra del basso corso del torrente Polcevera, ad otto chilometri da Genova, di cui fa parte dal 1926. (Torna su)

 

[10] C. Nardi, Gian Vincenzo Imperiale e il suo soggiorno napoletano. Un genovese a Napoli nel ‘600, Quaderni Ligustici N° 111, anno 1969, pagg. 131-132. (Torna su)

 

[11] Ibidem, pag. 130. (Torna su)

 

[12] R. Martinoni, op. cit., pag. 97. (Torna su)

 

[13] Ibidem, pag. 98. (Torna su)

 

[14] Ibidem, pag. 118. (Torna su)