Placido Imperiale

Placido Imperiale, secondo principe di Sant'Angelo dei Lombardi e fondatore di Poggio Imperiale, fu certamente un personaggio la cui presenza ha segnato profondamente le terre dei suoi feudi in Alta Irpinia e quelle di Capitanata.

Il principe era nato a Napoli il 13 aprile 1727 da Giulio I Imperiale e donna Maria Cornelia Pallavicino che, così come si usava tra i «nobili nati», gli imposero al battesimo una lunga teoria di nomi e precisamente quelli di Placido, Francesco, Maria, Nicola, Giuseppe, Renato, Giovanni, Giacomo, Domenico, Gaetano, Antonio, Pasquale, Ignazio.

Placido era il terzo figlio dopo Argenta (sposa del marchese Niccolò Pallavicini, patrizio genovese) e Silvia (che andò in moglie al marchese Ambrogio Negrone, patrizio genovese e senatore della Repubblica di Genova); seguirono il marchese Giulio Nicola (1730-1785) ed altri figli, morti giovani senza discendenza. Placido ebbe il feudo e il titolo in forza dell'atto rogato in Napoli il 19 giugno 1731 dal notaio Domenico De Paolo, con il quale il padre Giulio istituì in maggiorascato e primogenitura in linea maschile il Principato.

L'erede al titolo e ai beni feudali aveva appena undici anni quando, a seguito della morte di Giulio I, avvenuta a Napoli il 7 dicembre 1738, fu dichiarato dal Governo della Vicaria erede universale e particolare ex testamento dei beni feudali e burgensatici che formavano lo Stato di Sant'Angelo e con essi del titolo nobiliare.

In considerazione della minore età di Placido, la madre ottenne dal Re la nomina di tutrice dell'erede e con questa la responsabilità nella conduzione del feudo; una responsabilità che divise assieme al Principe D. Agostino Saluzzo, duca di Corigliano. In quel tempo il giovane principe si trovava a studiare dagli Scolopi a Roma, dove i tutori ottennero che restasse oltre il quindicesimo anno di età in quanto non era ragionevole fargli interrompere gli studi.

Durante gli anni che esercitò la tutela sul figlio minore la principessa Pallavicino, a fronte di un pagamento di 35.000 ducati, riuscì ad acquistare il feudo di San Paolo in Capitanata messo all'asta dal Fisco alla morte senza eredi del principe di Guastalla, Giuseppe Maria Gonzaga. Il trasferimento, concluso il 23 marzo 1748, fu definitivamente perfezionato nel 1754.

Il proposito degli Imperiale di allargare i confini dei propri possedimenti anche in Capitanata trovò conferma qualche anno dopo, quando, esattamente il 15 febbraio 1753, con atto del notaio Raimondo Collocola di Napoli, il principe Placido rilevò da Nicola Maria Caracciolo, le difese feudali dell'isola e del lago di Lesina, col diritto di caccia riservata e cum omnibus eius bonis juribus, actionibus burgensaticis ac feudalibus pretis ducatorum centum quattuor milium biscentum quinquaginta sex et assium vigenti quinte. L'acquisto, però, gli fu contestato dal principe di San Nicandro che, avendo terre a confine, intendeva esercitare sul feudo limitrofo il diritto di prelazione. La controversia, dopo una lunga disputa giuridica, sfociò in una sentenza della Camera della Sommaria che il 4 aprile del medesimo anno avallò l’acquisto del principe.

Raggiunta la maggiore età e con essa il pieno possesso dei beni feudali, il giovane Imperiale rientrò a Napoli dove, il 16 settembre 1748, nella chiesa di Sant'Anna de Palacio, sposò D. Anna Teresa Michela Acquaviva d'Aragona, figlia di Giulio, conte di Conversano, dalla quale ebbe ben 15 figli: Maria Cornelia (1749-1753); Maria Celeste (1750-1820); Giulio (1752-1818); Silvia Argentina (1753-1820); Gian Giacomo (1754-1757); Argentina (1755-1831); Placida Anna (1756-1758); Vincenzo (1758-1759); Beatrice (1760-?); Gaetano Ciriaco (1761-1797); Domenico (1762-1829); Maria Maddalena (1764-1830); Teresa Felicia (1765-1821); Vittoria (1768-1818); Giuseppe Anselmo (1769-1818).

Placido Imperiale cominciò subito a dare prova delle sue capacità nella conduzione del feudo, nel quale, obbedendo ai nuovi indirizzi di economia che con Galiani e Genovesi andavano affermandosi nel Regno napoletano, apportò molte e significative innovazioni, soprattutto nella gestione delle rendite agrarie.

Era un progetto ambizioso che richiedeva una pace sociale nelle sue terre, dove invece il principe Giulio, venuto a mancare improvvisamente, aveva lasciato aperte molte controversie. La più rilevante di queste fu sicuramente quella che contrapponeva casa Imperiale all'Abbazia del Goleto. La vertenza, avviata addirittura da Gian Vincenzo, capostipite degli Imperiale di Sant'Angelo, metteva al centro la pretesa giurisdizione che i Principi intendevano esercitare sui territori posseduti dal potente monastero altirpino, e di conseguenza sull'esercizio del diritto di fida e diffida che il feudatario accampava a suo beneficio per l'attività di pascolo. Gli Imperiale sostenevano che essendo stata l'Abbazia costruita su un territorio appartenente al feudo di Monticchio, divenuto nel XV sec. parte dello Stato di Sant'Angelo e successivamente comprato dalla nobile famiglia genovese, ne doveva scaturire che anche l'area su cui sorgeva il monastero dovesse essere considerata come un bene di loro proprietà.

La lite, che i tutori di Placido preferirono tenere in sonno, imboccò la strada della ricomposizione quando il principe ritenne più conveniente stipulare un compromesso che pur riconoscendo il possesso al detto venerabile monastero dei suddetti territorii, attribuiva al signore di Sant'Angelo dei Lombardi lo ius di fida e diffida, e la divisione che si dovrà fare per metà dei frutti della prossima nuova raccolta del corrente anno 1746.

Una vicenda analoga, inoltre, contrappose nel 1757 il Principe alla Badia di Ripalta di Lesina, sulla quale Placido ritenne inutilmente di poter esercitare il diritto di patronato riguardo alla nomina del Priore, che invece il Tribunale di Lucera assegnò pienamente al monastero di Capitanata.

Clamorosa per le conseguenze che avrebbe potuto avere fu la lite che Placido Imperiale intraprese nel 1754 contro Giuseppe Maria Doria, duca di Massanova, per farsi riconoscere i suoi diritti sulla Baronia di Tacina in Calabria Ultra. La controversia sfiorò addirittura la rottura diplomatica tra i Borbone e il governo della Repubblica di Genova. Le ragioni affondavano le loro radici molto indietro nel tempo, addirittura al 1604 quando Agostino Doria istituì un fedecommesso mascolino primogeniale sul feudo calabrese, comprato per 104 mila ducati metà dei quali appartenevano a Giambattista e Gianstefano Doria, di cui Placido era erede. A maggior sostegno della sua tesi, il signore di Sant'Angelo dei Lombardi chiese che il tribunale borbonico assegnasse a lui il feudo di Tacina, per legge di investitura, qual discendente della linea primogeniale dell'acquirente Agostino Doria.

Di fronte a queste pretese la risposta del Doria, appartenente ad una delle più titolate famiglie genovesi, fu ferma e decisa. D. Giuseppe Maria chiese alla magistratura della Serenissima ligure di perseguire l'Imperiale in nome di una legge della Repubblica che proibiva a qualunque cittadino genovese di trarre in giudizio un suo concittadino fuori di quel Dominio, a pena di essere privato di ogni privilegio e immunità, di essere dichiarato ribelle, di vedersi confiscati i beni e inibito a qualunque tipo di commercio.

Se ci fosse stata questa condanna il principe Imperiale avrebbe subito una straordinaria perdita economica, cosicché l'avvocato di Placido auspicò l'intervento del Re borbonico non tanto in difesa dei diritti dell'Imperiale ma - cosa molto più impegnativa - in difesa della sovranità del Regno di Napoli, minata dalla prevaricazione delle legge genovesi.

Com'era prevedibile la lite si risolse con «un amichevole trattato di accomodo» che fece giustizia delle legittime aspettative dei due nobili.

 

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Ferdinando Mignone, uno studioso di Sant'Angelo dei Lombardi, ha lasciato del principe Placido un ritratto poco edificante:

Fra gli accorsi alla capitale, troviamo il principe di S. Angelo. Ivi, sì lui che la boriosa consorte, a gara, buttarono somme ingenti nella voragine del giuoco. Ostentando con gli altri nobili le loro immense ricchezze, il Principe si millantava di poter coprire con scudi d'argento quanto essa è lunga la strada che intercede da S. Angelo a Napoli; piacevagli di possedere di 999 in 999 gli equini e i bovini; e così gli altri armenti.

A confermare l'idea di un signore gaudente c'è un episodio per niente lodevole, legato alla sconsiderata passione del Principe per il gioco. Una sera nella casa napoletana del principe, mentre si giocava a «biribisso», un gioco d'azzardo vietato da una prammatica reale, scoppiò una brutta lite tra Don Andrea Pagano e l'Abate Positano; lite che toccò il culmine quando l'Abate scagliò un candeliere contro l'avversario, reo di avergli tirato le carte in faccia. Risaputa la notizia, tutti i giocatori furono incriminati per dispregio agli ordini reali. Nelle ire della Corte borbonica incappò pure il Principe Imperiale, il quale fu mandato in esilio nel feudo di Sant'Angelo dei Lombardi nonostante gli amici più autorevoli avessero chiesto per lui una salatissima ammenda di mille ducati. Niente da fare! Il principe dovette trasferirsi nel castello di Sant'Angelo dei Lombardi, fortunatamente ristrutturato e trasformato in un elegante e confortevole palazzo signorile. Nella capitale del Regno potette tornare solo quando gli fu notificato il condono della pena, concessa dal Re ...coll'ordine al reggente della Vicaria della seria riprensione a tenore dei sovrani comandi.

Degli imponenti lavori di ristrutturazione che il Principe condusse sull'antico maniero longobardo, ne restò memoria in un'epigrafe che Placido fece apporre di fianco al portone d'ingresso al palazzo e il cui testo si ritrova nelle opere degli storici che si sono occupati della città di Sant'Angelo dei Lombardi. Fortunatamente, occorre dire, poiché il marmo che lo riportava è andato disperso a causa del devastante terremoto del 23 novembre 1980:

placidus imperiale ‑ iulii max. gestis magistrat. cl. v. f. ‑ fran. mariae tertii eX familia ducis genuae n. ‑ pellegri corsicae ‑ et guidonis finarii ventimilli aeque pn pumpron - splendidus eques – sancti angeli longobardorum princeps - hispaniarum primae classis magnas ‑ dynastes urbis nusci leonum andrectae ‑ carbonariae monticuli atque oppidi ‑ pagorumque s. bartholomaei ‑ sancti guilielmi de guleto et pontislomiti ‑ acquisitor egregius in apulia ‑ terrae sancti pauli et civitatis lesinae ‑ in qua pagum podii imperialis fundavit ‑ miras atque plurimas ex lacu ad mare ‑ fauces aperuit ‑ innumerorum emptor latifundorum ‑ tam in suis ditionibus quam in finitimis ‑ guardiae lomb. morrae et roccae s. felicis ‑ humani generis bono natus ‑ rei agrariae instaurator eximius ‑ vetus hoc civitatis s. ang. lomb. castrum ‑ saeculis vetustioribus per longobardos ‑ turri sepulcrali a poppio marcellino erectae ‑ adiunctum et vallo circumdatum ‑ iam pene collapsum refecit ‑ novis undique ampliavit accessionibus ‑ et ad elegantiorem palatii formam ‑ ipsomet principe optimo curante ‑ redegit - a.d. mdcclviii

La lapide di Sant'Angelo fa il paio con quella che circa un ventennio dopo, nel 1779, l'Imperiale fece apporre sulle mura della casa di campagna che fece costruire nel Bosco di Fiorentino, in territorio di Nusco:

placidus imperialis iulii francisci mariae - iii ex familia genuensi splendidus eques - et s. angeli lombardorum princeps - hispaniarum primae classis magnus - dynastes urbis nusci leonum andrectae carbonariae monticuli atque oppidi - pagorumque s. bartholomaei s. guillelmi de guleto et pontislomito - adversariis pluries devictis - acquisitor egregius in apulia terrae s. pauli et civitatis lesinae - in qua pagum podii imperialis fundavit - mirasque atque plurimas in lacu ad mare fauces aperuit - innumerorum latifundorum tam in acquisitis suis ditionibus - quam in finitimis guardiae lombardorum morrae et roccae s. felicis emptorum - humani generis bono natus - rei agrariae instaurator eximius - istis infecundis et senticosis nemoribus et defensis - ferentini - ubi olim urbs fuit ferentinum - isclae pulveris ‑ gramatici ‑ carovellae atque lagarelliarum - accurata cultura nec non utilissima - prospero subactis successu innumeris albis consitis moris - castaneisque ac vitibus populis iugatis et in iucundissimum viridarium redactis - nullis parcendo curis et impensis - palatium istud ac amoenissimum sibi et suis erexit a.d. mdcclxxix

 

 

 

Il castello degli Imperiale a Sant'Angelo dei Lombardi, come appare subito dopo i lavori di restauro del post-terremoto.

 

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Tornando a come il principe Placido intendeva amministrare il feudo, va detto come non fossero estranee ai proponimenti maturati dal Principe di Sant'Angelo le nuove idee che circolavano nel Regno, tese ad affermare una più moderna e illuminata concezione dello Stato.

Maggiormente nell'iscrizione del casino di Fiorentino è possibile ritrovare la summa dello spirito innovatore di Placido che, non senza orgoglio, volle ricordare ai posteri sia i titoli nobiliari che i possedimenti, e, cosa alquanto inusuale, i meriti di esimio instauratore dell'agricoltura per aver diboscato, senza risparmiare nessuna cura e spesa, i boschi e le difese di Oppido, mettendo altresì a coltura castagni e viti congiunte a pioppi e impiantandovi una cospicua coltivazione di gelsi bianchi e una grandiosa bacheria che tuttora ivi vedesi in piede, così come ricorda Ferrara, oltre a molte decine di arnie a supporto dell'apicoltura che aveva importato e diffuso in tutte le terre del suo feudo

Non minore attenzione Placido ebbe per l'agricoltura nel capoluogo del feudo, dove aveva provveduto alla ...creazione della vasta selva di castagni sui monti di S. Angelo, di recente distrutta dalla gente di spirito più che vandalico che ne ebbe l'amministrazione, ed al presente la popolazione ne risente tutto lo immenso danno.

Piuttosto che lasciarvi boschi incolti curò pure un'intensa cerealicoltura nel vasto territorio di Montanaldo e l'impiantamento a viti sia nella tenuta di S. Vito, sia là dove un tempo sorgeva l'antica città di Monticchio de’Lombardi. Ma anche a Nusco, nelle terre demaniali di Pontelomito, ad Andretta nel Bosco S. Giovanni e Piano del Conte, e a Carbonara nel demanio della Mattina.

Allo straordinario processo di rinnovamento dell'agricoltura nello Stato di Sant'Angelo dei Lombardi, Placido affiancò un intelligente sfruttamento delle risorse idriche a fini industriali, con l'impianto, oltre che di numerosi mulini, di una grossa cartiera a dodici pile e di alcune gualchiere a Pontelomito.

Oltre che un utile avviamento alle «arti manifattrici», Placido mise in piedi un'operazione di trasformazione agraria assolutamente coraggiosa, poiché la privatizzazione e la messa a coltura dei terreni feudali, normalmente aperti agli usi civici essenziali e collettivi, impediva agli abitanti lo sfruttamento delle risorse del territorio che, evidentemente, per la modesta economia silvo-pastorale del feudo significava molto. Una decisione che accese forti contrasti tra il feudatario e i suoi vassalli, che ricorsero più volte ai tribunali borbonici per arginare il tentativo di intensificare lo sfruttamento delle terre per incrementare le rendite agrarie.

 

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Volendo ancor più mettere a frutto i suoi studi e forse anche le lezioni di economia di Antonio Genovesi o di Ferdinando Galiani, il principe Placido colse a volo un'occasione che gli fu parata davanti dallo stesso sovrano borbonico: accogliere nel feudo di Lesina una colonia di profughi albanesi che, dopo un lungo peregrinare, erano arrivati a impetrare accoglienza alla corte di Napoli. Una circostanza che favorì l'opportunità per Placido di diventare il fondatore di una nuova città: Poggio Imperiale. Un progetto in linea con la politica economica della corte borbonica, la quale intendeva trasformare le desolate lande del Tavoliere, fino ad allora preposte alla pastorizia, in produttive terre da destinare alla coltivazione.

Fu questa una scelta strategica dettata anche dalle mutate condizioni dell'agricoltura imposte dal lungo periodo di gravi perturbazioni atmosferiche che a cavallo degli anni cinquanta del Settecento alterarono il ciclo produttivo. Nelle province del Regno si susseguirono, infatti, con una triste regolarità annate di carestia per siccità prolungata, inverni rigidi e invasioni di locuste che distrussero i raccolti. I granai e le dispense semivuote misero a dura prova la capacità di resistenza delle aziende agricole che, per sopravvivere, videro accentuarsi la loro tradizionale subordinazione a mercanti ed usurai ed aumentare il loro indebitamento.

Rovescio di questa medaglia fu il crescente incremento demografico che nella seconda metà del secolo pose seri problemi di approvvigionamento. La crescente richiesta di cibo da parte della popolazione faceva salire i prezzi dei prodotti alimentari e spingeva ad aumentare la produzione agricola attraverso l'espansione dei terreni coltivati e l'introduzione di nuove tecniche. L'ampliamento delle zone coltivate fu realizzato bonificando pianure paludose e abbattendo boschi di collina e di montagna per far posto alle coltivazioni. Altrettanto importante fu il passaggio dalla rotazione seminativa triennale alla rotazione permanente, con l'eliminazione del maggese improduttivo, soppiantato dall'impiego di piante foraggere (trifoglio, erba medica) che meglio si adattavano all'alimentazione degli animali allevati. Quest'erbaggio, oltre ad arricchire il terreno di sostanze utili alla coltivazione dei cereali, permise di sviluppare l'allevamento e di dare vita a una moderna agricoltura, dove le coltivazioni e l'allevamento erano tra loro strettamente integrati. Infine, la produzione agricola aumentò anche per l'impiego di nuovi e più perfezionati attrezzi da lavoro, quali l'aratro di ferro adatto per arature profonde, la falce lunga più efficace del falcetto, e i nuovi tipi di seminatrici ed erpici.

 

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Per tornare agli intendimenti di largo respiro del signore di Sant'Angelo, va detto che il Principe Imperiale si tuffò a capofitto nel suo progetto di modernizzazione dopo che, trascorsi alcuni anni dall'acquisto delle terre della Santa Casa dell'Annunziata, decise di trascorrere con la propria famiglia le festività pasquali del 1759 nel feudo di San Paolo. Da lì, poi, il 15 aprile, domenica di Pasqua, si recò nella città di Lesina per conoscerla nelle vesti di nuovo proprietario e signore.

Nella sua visita l'Imperiale trovò un feudo che si perdeva a vista d'occhio, arso dalla siccità e abitato da gente semplice la cui salute, però, era pregiudicata dall'aria malsana che si alzava dalle terre paludose del Lago. Era necessario e urgente provvedere a risanare l'area con imponenti e impegnative opere idrauliche che mediante fossi e canali mettessero in comunicazione il lago con il mare. Tutto questo mentre gli abitanti della zona si sarebbero dovuti mettere a distanza di sicurezza dai miasmi malarici.

L'opera di bonifica impegnò non poco l'Imperiale, che impiegò macchine idrauliche, assai più da se stesso escogitate. Nel frattempo una notevole manovalanza, a circa due miglia a sud, tra Apricena e Lesina, provvedeva a disboscare la collina di Coppa Montorio per costruirvi un palazzotto che potesse ospitare il Principe durante il tempo che avrebbe voluto soggiornare nel nuovo feudo. Un alloggio signorile che in assenza del feudatario era abitato da Rocco Capozzi, nominato da Placido amministratore di quelle terre. Nei pressi furono pure realizzati alcuni alloggi per una quindicina di famiglie che avevano accettato l'invito a trasferirsi nei suoi territori, dove nel frattempo aveva avviato un significativo esperimento di colonizzazione. I contadini, provenienti per lo più da paesi vicini, ebbero in comodato gratuito delle comode abitazioni costituite da monolocali a schiera con tetti ad una falda ed una piccola finestra. Le case, munite di un caminetto che assolveva alla doppia funzione di cucina e di fonte di riscaldamento nel periodo invernale, erano fornite di una stalla per gli animali e di un deposito per gli attrezzi agricoli, separati dalle abitazioni da un'aia che dava al contesto abitativo le sembianze di una vera e propria azienda agricola.

Fu questo il primo embrione del nuovo paese che, per la posizione sopraelevata in uno con l'omaggio al blasone, il fondatore chiamò Poggio Imperiale. E perché fosse chiaro fin da subito che di un nuovo paese si trattava e non di un improvvisato assieme di case e pagliai, il principe fece costruire anche una chiesetta che volle fosse dedicata a San Placido, al cui culto, di lì a qualche anno, andò ad affiancarsi, ad opera dei coloni provenienti dalle terre del Principato Ultra, pure quello per l'Arcangelo Michele, in onore del quale fu costruito un nuovo altare con il concorso del Principe e degli abitanti di Poggio. A ricordo di tale evento, l'agente feudale Rocco Capozzi fece apporre accanto al sacello la seguente epigrafe: ELEMOSYNA INCOLARUM HUJUS OPPIDI PODII IMPERIALIS ET PRINCIPIS S. ANGELI LOMBARDORUM AC DOMINI CIVITATIS LESINAE DOM PLACIDI IMPERIALIS SACELLUM  NOVUM MICHAELI ARCANGELI DICATUM IN HAC ECCLESIA S. PLACIDI MARTIRIS CONSTRUCTUM IVIT. VIR ROCHUS CAPOZZI EXCELENTISSIMI DOMINI MINISTER MONUMENTUM HOC AD FUTUR REI MEMORIAM PONENDAM CURAVIT DIE XX MENSIS AUGUSTI MDCCLXXI.

Dunque, alla stregua del feudo altirpino che conservava memoria dei suoi fondatori, il nome del nuovo paese di Capitanata avrebbe ricordato ai posteri il nobile casato degli Imperiale. Allo stesso modo l'intraprendente Principe pensò di affidare il ricordo di sé al culto del Santo di cui portava il nome, non disgiunto da quello dell'Arcangelo guerriero, evocato già nella denominazione della città di Sant'Angelo dei Lombardi e caro alla gente irpina non meno che a quella del Gargano.

Per tutto il 1759 e poi per l'anno successivo gli unici residenti nella nuova cittadina furono i coloni di origine pugliese. Ben presto, però, nel gennaio del 1761, a questi andò ad affiancarsi un gruppo di una novantina di Albanesi, tra uomini donne e ragazzi, partiti da Scutari dopo che la città fu occupata dai Turchi. Una robusta presenza che a Napoli, con reciproca soddisfazione, convenne col Principe la decisione di trasferirsi nella Terranova, come comunemente continuava a chiamarsi Poggio Imperiale.

 

 

Il monumento a Placido Imperiale, opera del genovese Demetrio Paernio, collocato nella piazza di Poggio Imperiale. 

 

Da diverse altre parti del Regno arrivarono nuove braccia albanesi e ancora altri immigrati che avevano ascoltato il bando che il Principe Imperiale aveva fatto diffondere per richiamare uomini nelle sue terre di Capitanata.

Per incoraggiare questi trasferimenti, a chiunque avesse voluto stabilirsi nel nuovo villaggio Placido concedeva molti privilegi, tra i quali, oltre all'esenzione dal focatico, c'era la consegna di casa e terreno e di una certa quantità di sementi e animali. Il Principe pensò finanche alla cura del corpo e dell'anima, assegnando alla nuova comunità un medico e un cappellano.

Dalle università e dalle terre del Principato Ultra furono in molti a raccogliere l'invito, e tra questi Nicola Papa di Nusco, che prese la strada della Capitanata nel 1770. Il gruppo più numeroso, però, fu quello che nel 1764 partì da Morra Irpino, con Giuseppe Braccia, Domenico Capozzi, Pasquale Castellano e Antonio Covino. Nello stesso anno emigrarono pure Giuseppe Di Salvo di Andretta e Amato Lentinio di Lioni, che nel 1772 fu raggiunto da Rocco Palmieri. Tutti con la speranza di trovare nelle nuove terre del principe Imperiale migliori condizioni di vita.

Diversa la storia del sacerdote don Nicola D'Amelio di Sant'Angelo dei Lombardi che, in virtù del diritto di giuspatronato esercitato dal Principe, arrivò a «Terranova» investito del titolo di economo-curato della nuova chiesa di San Placido Martire, compito che svolse dal gennaio 1773.

Fu così, tra alti e bassi, che Placido Imperiale vide assumere man mano al neonato casale la forma e la dimensione di una significativa realtà urbana dove si andarono costruendo sempre più nuove abitazioni per i coloni, a cui furono affidate molte misure di terreno coltivabile sottratte ai boschi e ai pascoli, e dove la produzione agricola, con l'inserimento di nuove piante alimentari come il mais, la patata, la rapa e la barbabietola da zucchero, era arrivata a proporzioni ragguardevoli, tali da far dire al Targioni:

L'esempio del sig. Principe di S. Angiolo Imperiali dà luogo a sperare che se fossero fatte le convenienti esperienze si potrebbero ridurre ad assai più utile cultura non meno gli Abruzzi, che la calda conca della Puglia.

Non solo l'agricoltura fu nelle mire innovatrici del nobile ecista di Poggio Imperiale. Nei piani del Principe prese corpo anche una moderna concezione della pesca, sullo stile di quella praticata nelle acque di Comacchio, e soprattutto una fiorente industria metallurgica, con una notevole fonderia di ottone e ferro affidata a braccia esperte fatte venire appositamente da Pistoia. Insomma, un riformista a tutto tondo che trasformò le assolate terre di Capitanata in un fiorente e moderno centro agricolo e industriale, dove le idee nuove che arrivavano dal resto dell'Italia e dalla Francia trovarono entusiastica accoglienza nell'operosità dell'Imperiale.

Il grandioso disegno del Principe aveva trovato, dunque, soddisfacente compimento; e questo grazie soprattutto all'impronta illuminista del suo governo che, senza rinunciare alla ferrea logica delle prerogative feudali, fu tutto sommato mite e comprensivo.

 

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Il Principe Imperiale passò a miglior vita il 10 dicembre 1786 all'età di anni 59 e le sue spoglie furono traslate nella cripta di famiglia nella Chiesa di San Giorgio dei Genovesi in Napoli, dove già riposavano il padre Giulio e gli altri consanguinei.

La tomba degli Imperiale, posta nell'ipogeo della chiesa, dopo che fu saccheggiata dai ladri, è stata svuotata e richiusa. La lastra tombale, oggi nascosta sotto una maxi pedana, ricorda che «Presso quest'antico sepolcro dove ci sono le ceneri dei suoi antenati, ma soprattutto del padre che ha conseguito un gran numero di imprese, è sepolto, per onorare la loro stessa memoria e come sprone ai posteri, tra scelti marmi di squisita fattura e grande raffinatezza, né senza cognizione artistica, Placido Imperiale principe di Sant'Angelo».

La consorte del Principe, Donna Anna Caterina Acquaviva, morì a Napoli il 9 dicembre 1797.

Il munifico Signore di Sant'Angelo dei Lombardi tre lustri prima della sua morte aveva fatto abbellire il sacello di famiglia con eleganti marmi policromi. Sull'imponente altare, che occupa interamente il transetto destro, risaltava una tela di Francesco De Mura raffigurante il martirio di San Placido; sui piedritti con lo stemma della famiglia Imperiale si può leggere l'epigrafe dettata dallo stesso Principe:

placide sanctissime qvi cælesti iam in sede æternalem dvcis pacem imperialem prosapiam nomenq præsentissima tvtela ac fide præcipve placidvm sancti angeli principem de te pietate cvltvqve religionis egregie meritvm serves ac tvteris eiqve serissimos destines svccessores tibi etiam pia mente devotissimos sacellvm cvm ara vbi opvs sepvlcri dvmtaxat visebatvr divi placidi tvtela avgvstvm qvovis ornamentorum genere decorum addicta pro celebrandis evcharisticis sacrificiis svpellectile omne cenvs locvpletissima placidus imperialis s.angeli princeps ob avspicatam svi nominis religionem impensa sva excitavit dedicavitq an. mdcclxxi

Il Principe Placido morì improvvisamente per un colpo apoplettico, senza avere la possibilità di lasciare testamento; cosicché il titolo e le terre feudali passarono al figlio primogenito Giulio, non senza però che si aprisse tra questi e i fratelli Gaetano, Domenico e Giuseppe una complessa controversia per la divisione della cospicua eredità dei beni burgensatici. La questione fu risolta con la mediazione del marchese Baldassare Cito, presidente del Sacro Regio Consiglio, a ciò incaricato dal re Ferdinando IV. Nonostante l'accordo fosse stato ratificato con un atto del 19 febbraio 1798, la vertenza riesplose alcuni anni più tardi, dando origine ad una complessa vicenda giudiziaria che vide coinvolti gli eredi dei vari rami della famiglia e che portò al disfacimento del notevole patrimonio di casa Imperiale.

 

       

Napoli: la chiesa di San Giorgio dei Genovesi, a sinistra, e il sacello funerario della famiglia Imperiale di Sant'Angelo.

 

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Per concludere, non si può proprio dire che la stagione terrena del principe Placido sia trascorsa senza che fosse notata la sua opera. Ancor più lo si capisce dal ritratto fortemente elogiativo del nobile possessore che si ritrova nel Saggi fisici... di Luigi Targioni, il quale, trattando delle condizioni in cui si trovava in quel tempo il Regno del Borbone così annotava:

Fra i riguardevoli personaggi dell'illustre corpo del baronaggio, si distingue il Principe di S. Angiolo Imperiali, il quale facendo uso dell'acutezza dei propri talenti, e dell'ereditario dovizio insieme, ha mutato diversi suoi feudi, che possiede nel Principato Ultra e nella Capitanata, dal tristo aspetto al più favorevole, che immaginar si possa.

Senza dubbio alcuno, il secondo principe di Sant'Angelo dei Lombardi fu una figura emblematica della stagione feudale nella seconda metà del XVIII secolo. Un periodo che negli anni a seguire avrebbe assunto una connotazione dirompente, destinato a mutare profondamente e in senso moderno, seppure a prezzo di profonde lacerazioni e travolgenti conflitti sociali, sia il concetto di feudalità che quello di proprietà.