Giulio II Imperiale 

    Morto il principe Placido, i feudi e il titolo passarono al figlio primogenito Giulio II, che fu dichiarato erede dei beni paterni con decreto di preambolo del 15 dicembre 1786. La cosa, però non fu affatto pacifica in quanto per la divisione dei beni burgensatici del padre, morto intestato, il giovane Principe dovette affrontare una complessa vertenza con i fratelli cadetti Gaetano, Domenico e Giuseppe. A dirimere la questione fu incaricato dal re Ferdinando IV di Borbone il marchese Baldassarre Cito, presidente del Sacro Regio Consiglio, che riuscì a portare i fratelli Imperiale a sottoscrivere un’intesa che fu successivamente ratificata in un atto del 19 febbraio 1789.

    Don Giulio, terzo Principe di Sant’Angelo dei Lombardi, Grande di Spagna di I Classe, Signore di Nusco, Lioni, Oppido, Carbonara, Monticchio, Andretta, San Paolo in Capitanata e dell’Isola e del Lago di Lesina, Patrizio Genovese, Ciambellano dei Re di Napoli Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, Ministro Plenipotenziario del Regno di Napoli in Austria nel 1812, fu battezzato a Napoli, nella Chiesa di Sant’Anna di Palazzo il 27 marzo 1752.

    Gentiluomo di camera «con esercizio» di Ferdinando IV di Borbone, il Principe di Sant’Angelo fu tra i nobili più in vista per dovizia di mezzi e fasto del tenore di vita.

    Il 19 luglio 1767 prese in moglie Maria Francesca Albertini, principessa di Faggiano e duchessa di Carosino, che gli portò in dote una discreta rendita che le veniva dai feudi tarantini.

A parte l’unico figlio maschio, Ferdinando, mortogli in tenerissima età, dal matrimonio nacquero altre quattro figlie: la primogenita Maria Giulia, maritata al marchese di Salza Francesco Maria Berio; Teresa, che aveva sposato nel 1796 il principe Giovannantonio Capece Zurlo; Maddalena, maritata con Francesco Macedonio duca di Grottolella, e Placida, maritata con Ettore Carafa principe della Valle.

    Uomo di non comune cultura, anche se fortemente contraddittorio e opportunista, Giulio Imperiale non fu inizialmente attratto alle nuove idee giacobine che a Napoli arrivavano come eco della Rivoluzione francese. Al contrario, egli si distinse per il suo zelo controrivoluzionario, tant’è che nel giugno 1796 il sovrano gli concesse il grado onorario di capitano per essersi distinto nel promuovere la leva e per avere a sue spese armato, pagato e fornito d’uniforme «volontari» per l’esercito.

    Ad evidenziare la qualità del rapporto che il Signore di Sant’Angelo dei Lombardi ebbe con il Re, basta il ricordo di una battuta di caccia con il Sovrano borbonico e il principe ereditario Francesco che l’Imperiale ospitò nel suo feudo di Lesina nel maggio del 1797 e che lo stesso Ferdinando IV così descrive nel suo «Diario segreto»:

    Giovedì 18 [maggio]. Alzatomi alle due e mezza, vestitomi, intesa la S.ta Messa ed alle tre e mezza partito con Francesco ed i miei per Lesina. Alla seconda posta sbagliata la strada; poco, per altro, di cammino abbiamo perduto. Dopo di aver traversato le sue belle campagne e luoghi, amenissimi, arrivati alle sette a Lesina, paese piccolo situato sul lago così chiamato, grande di 32 miglia di giro. Imbarcatici in una barca del principe di Sant'Angelo, padrone del luogo, camminato per due ore. Arrivati alla riva dalla parte di levante, dove ci era una pesca preparata alla sboccatura di un fiumarello; pescato, posto piede a terra e fatto colazione in una casetta de’ pescatori. Rimessici in barca, traversato il lago e smontati dalla parte opposta, dove vi è un superbo bosco tra il lago e il mare. Dato mena ma infruttuosamente, perché essendovi in quel bosco molta caccia, non essendo prattici, per volerla forzare ad andare in un isola, né l’aveano antecedentemente cacciata. Terminata la mena, alle due rimessici in lancia, andati a sbarcare in un altro luogo, dove vi è un comodo casino di legno, dove abbiamo avuto un sontuoso pranzo di 30 coverti, ma noi non eravamo che sette. Il casino resta giusto dirimpetto all’isola di Tremiti, distante miglia sedici. Terminato il pranzo, alle cinque montati in carrozza, partiti per ritornarcene, traversando tutto il bosco per una strada ben angusta per cui ruppimo il timone, che accomodammo subito. Al calar del sole arrivati alla Badia di Riposto ed a mezzanotte felicemente in Foggia, dove sono stato ben ricevuto da mia moglie.

    La battuta di caccia si tenne nel bosco dell’Isola di Lesina,  alla foce di Sant’Andrea, mentre il seguito reale si trovava a Foggia ad attendere la principessa Clementina d’Austria, promessa sposa di Francesco I, la quale da Mestre doveva sbarcare a Manfredonia. Con i reali borbonici e il principe di Sant’Angelo intervennero pure il duca di San Nicola, il conte Gaetano ed altri baroni.

    Per agevolare il cammino, il principe Imperiale fece tagliare cespugli e costruire un’apposita strada, chiamata via del Re. Essa parte da Radicosa, tra la via San Severo, attraversa la mezzana e la parte di Sant’Antonio, del Belvedere, Scardozzo nel luogo detto «Scivolaturo» e nello Jaccio d’Oliva mezzo miglio ad ovest di Poggio Imperiale fino al lago. Dista circa 900 passi dalla croce di Lesina, che in quel viaggio non fu visitata. Attraverso un ponte di legno, i reali di Napoli attraversarono il lago fino al bosco. Qui vi era costruita un’altra via fino al mare ed un’altra che tagliava il bosco da un punto all’altro. Grandi festeggiamenti si fecero e molti marinai e pescatori accolsero gli ospiti con frenetiche acclamazioni. Nella casupola presso Ravaglione sostarono di più e su appositi palchi di legno si assistette alla gran caccia di cinghiali e capri. Poi si pescò nel fiume. Dopo il pranzo consumato nella casupola, gli ospiti, ripartiti lo stesso giorno, passarono per Ripalta. La sera, con la luce delle torce, ritornarono a Foggia per la stessa strada.

    A prima vista appare del tutto inattesa la posizione filofrancese assunta dall’Imperiale, cosicché è facile ritenere che gli ideali politici nutriti dal principe di Sant’Angelo fossero già prima del 1799 assai diversi da quelli ufficialmente professati e che la pubblica adesione realista fosse frutto solo di un opportunista e cinico conformismo di facciata, maturato probabilmente nelle frequentazioni che Giulio Imperiale aveva con Caterina Medici d’Ottaiano, allo stesso tempo favorita della Regina e musa giacobina, di cui frequentava il salotto. Se è provato che il Principe non restò pienamente coinvolto nell’attivismo dei giacobini napoletani, e di conseguenza nelle persecuzioni scatenate contro di questi tra il 1793 e il 98, la prova della partecipazione di Giulio II all’instaura­zione della Repubblica Napoletana la si ritrova in una significativa lettera che Giuseppe Poerio gli indirizzò subito dopo l’entrata a Napoli dell’esercitò francese, il 24 gennaio 1799:

 

Libertà ‑ Uguaglianza

Anno I giorno 3°

Mio caro e generoso Cittadino.

Io ambisco egualmente che voi il momento di darvi un abbraccio Repubblicano. Voi lo desiderate, e ne siete degno perché vi siete efficacemente cooperato al gran fine.

Verrei personalmente, ma il travaglio immenso che ho fatto mi ha donato una febre non indifferente. Se domani alle dodici siete in casa attendetemi: quello è l’unico momento di cui posso disporre liberamente. Devo e  voglio parlarvi. Addio.

Fischetti vi saluta

Il cittadino Giuseppe Poerio.

   

Ma se, prima del 1799, resta abbastanza oscura l’azione politica di Giulio Imperiale, è invece sufficientemente documentato il ruolo svolto nelle vicende della Repubblica Napoletana. In maniera alquanto evidente chiese ed ottenne l’iscrizione alla milizia civica, e allo stesso modo si mise in mostra quando inviò fervorose missive alle città dei suoi feudi, con cui esortava le popolazioni a democratizzarsi e ad aderire al nuovo ordine di cose. Ordinatorie che, per la verità, non trovarono terreno fertile, stante la secolare diffidenza del popolo minuto cui non piace trovarsi coinvolto nello scontro tra potenti.

    Passione e calcolo portarono i giacobini a dividersi su tutto, fuorché nel cercare di guadagnare una poltrona nel Governo Provvisorio che andò a costituirsi. Un tentativo in questa direzione lo fece anche il principe Imperiale che, con una congeniale dose di rampantismo, diede vita con alcuni suoi amici al partito cosiddetto degli «aristocratici», che badava bene a non cancellare del tutto i privilegi dei nobili, ai quali si sarebbe pur dovuto riconoscere il primato nella guida degli affari di governo. In netta contrapposizione c’erano i «despoti», giacobini puri guidati da Carlo Lauberg, capo provvisorio della proclamata Repubblica; a fare da cuscinetto tra le due fazioni si adoperarono i «buoni repubblicani» di Mario Pagano, preoccupati di non disperdere con posizioni estremistiche gli ideali e i valori della lotta giacobina e attenti alle spinte spregiudicate che volevano l’Imperiale e i suoi colleghi orientati a costituire con il Lauberg un Direttorio che sostituisse il Governo Provvisorio.

    Dopo la riforma della rappresentanza governativa operata dal commissario francese Abrial, il principe Imperiale fu estromesso dall’esecutivo, e vani furono i tentativi che pure fece per tornare in auge:

    Molti si agitano per occupare le sedi vuote e per essere nella nuova rappresentanza nazionale. Medici, Colombrano e Sant’Angelo Imperiale non tralasciano veruno sforzo per essere in carica. Voi conoscete troppo bene si fatti individui, per non aver bisogno di stimolo a farne il carattere ben conoscere a chi l’ignora.

    Giulio Imperiale, che si era alienato le simpatie dei molti a causa della smodata ambizione, pagò il prezzo della sua smania venendo radiato dalla Milizia civica. Molto probabilmente furono proprio i contrasti che ebbe con le varie fazioni giacobine e il suo conseguente allontanamento dai vertici del direttorio rivoluzionario che gli salvarono la vita quando, ritornato sul trono il Re Borbone, fu costretto all’esilio evitando di salire sul patibolo come era successo agli altri.

    Quando, alla fine di maggio, le truppe a massa del cardinale Ruffo arrivarono nelle province napoletane, i feudi dell’Imperiale furono occupati dal distaccamento del luogotenente d. Antonio Greco. Dopo il 13 giugno vennero saccheggiati il palazzo in Napoli in via dei Carrozzieri ed il «casino» di Portici.

    Da questo, un tal Giuseppe Tufari, capitano di truppe a massa, fece trasportare alla sua terra nativa, Rossano Calabro, varie casse, contenenti «il rame di cucina; porcellane di Sassonia; tappezzerie di disegni diversi; due pianete (della cappella domestica); un orologio in forma di gabbia con un finto canarino dentro; un altro, orologio collocato sopra un tavolino di mogano, e molti cristalli fini inglesi».

    Il furto fu scoperto dal giudice di polizia D. Pasquale Bosco, originario di Montella, ma gli oggetti non furono restituiti, essendo sorto il dubbio se avesse dovuto procedere lo stesso delegato di polizia, oppure Gaetano Sambuto, uno dei giudici della Suprema Giunta di Stato.

    La Giunta di Stato, con sentenza del 15 gennaio 1800, approvata con risoluzione regia del 25 marzo, lo condannò al bando, ponendogli sotto sequestro tutti i suoi beni. Anche nell’esilio, comunque, Giulio Imperiale, che prima della fuga si era fornito di capitali liquidi, continuò a godere del suo patrimonio posto fuori del regno e particolarmente a Genova e a Madrid.

    Nonostante la «Pace di Firenze» (28 marzo 1801) avesse prescritto l’indulto completo verso i rei di Stato, il Principe di Sant’Angelo preferì restare lontano da Napoli ancora per qualche tempo. Per due anni consecutivi chiese ed ottenne dal governo borbonico il permesso di restare all’estero, stabilendosi a Lione, in Francia, dove il 7 maggio 1800 redasse il suo testamento col quale nominava erede universale la primogenita Giulia.

    Stando a quanto riferiva un informatore della polizia francese nel 1801, Giulio faceva molto per i patrioti deportati, per cui non si poteva che elogiarlo. In Francia occupava un posto di spicco nell’ambiente dell’emigrazione politica meridionale.

    Benedetto Croce, trattando degli esuli napoletani in Francia, riporta una relazione della polizia francese di quel periodo dove si legge che Giulio Imperiale, di illustre famiglia, era nemico della corte di Napoli oltre che molto ricco, e che era capace di grandi sacrifici pur di conseguire titoli e onori; inoltre aveva beneficato numerosi esuli privi di risorse e che di conseguenza la sua condotta era lodevole sotto ogni riguardo.

    Ma anche su questo periodo le ombre dell’opportunismo si allungano in notevole misura. Giulio, infatti, trovò il modo di fare il doppio gioco facendo l’informatore per la corte borbonica, alla quale faceva giungere notizie sugli esuli in terra francese mediante l’ambasciatore napoletano a Parigi, marchese del Gallo, col quale intratteneva rapporti confidenziali.

    Dopo una sosta a Genova, dove nel dicembre 1806 divise il patrimonio esistente in Liguria col fratello secondogenito Domenico, finalmente il principe Giulio si decise a rientrare a Napoli. Erano i primi del mesi del 1807 e nel frattempo si era consolidato il nuovo regime napoleonico. Ma non godé a lungo del riacquisto dei feudi, poiché nel frattempo Giuseppe Bonaparte, che aveva avuto da Napoleone la reggenza del Regno di Napoli, aveva promulgato la legge eversiva della feudalità. Fu costretto, allora a fare appello ancora una volta alle sue capacità di esperto «navigatore» nelle acque infide della politica.

    Tra i pochi ad essere ammessi alla corte del fratello di Napoleone, fu da questi nominato commendatore dell’Ordine delle Due Sicilie e, nell’autunno di quello stesso anno, incaricato dal marchese del Gallo, divenuto Ministro degli Esteri, di una missione diplomatica ad Amsterdam quale inviato straordinario e ministro plenipotenziario. La sede olandese era di indubbio prestigio e l’Imperiale seppe districarsi bene nel nuovo incarico che durò poco più di un anno. Lasciata la corte olandese su sua sollecitazione e per motivi di salute, il principe di Sant’Angelo fece ritorno a Napoli. Qui Murat lo nominò «Ciambellano Comandante dell’Ordine Reale delle Due Sicilie» e continuò ad utilizzarlo sia a corte che nella diplomazia. Nel 1811, infatti, l’ex feudatario di Sant’Angelo dei Lombardi approdò a Vienna come ministro plenipotenziario, compito che assolse fino al 1813.

    Ritornati nel 1815 i Borbone sul trono napoletano, L’Imperiale ritenne di essere troppo compromesso agli occhi del sovrano, pertanto si rifugiò a Roma, dove il 12 gennaio 1817 approntò un nuovo testamento in favore della figlia secondogenita Teresa.

    Il Principe Giulio si spense a Procida il 2 maggio del 1818.

   Con la moglie, Maria Francesca Albertini, non sempre i rapporti furono sereni. A seguito delle bizzarrie politiche del consorte, la principessa di Faggiano patì non poche mortificazioni soprattutto a seguito del sequestro dei beni di Giulio, dichiarato «reo di Stato» e costretto all’esilio. Avendo il principe ritardato nel pagamento alla moglie dell’assegnamento dei 2.800 ducati, i mariti delle figlie le fecero sequestrare i beni, costringendo a sua volta la Principessa a citare il marito, che giustificò la sua omissione attestando una presunta «depauperazione del suo patrimonio».

    Sugli eccessi di prodigalità dell’Imperiale ci fu chi scrisse: Mentre viveva, il Principe di Santangiolo voleva tutto, e tutto era insufficiente ai suoi bisogni.

    Pure da morto Giulio Imperiale procurò difficoltà e imbarazzi ai familiari. Mentre, infatti, col testamento olografo del 7 maggio 1800 aveva nominato sua erede la primogenita Maria Giulia, con il successivo atto istituì erede e legataria universale nella disponibile la secondogenita. Questa alla morte del padre avanzò richiesta della metà disponibile unita alla successione legittima, entrando così in aperta lite sia con le sorelle e con la madre.

    Con Giulio può praticamente dirsi estinta sia la signoria feudale sulle città e sulle terre in Irpinia e di Capitanata, sia il titolo di principe di Sant’Angelo che, in mancanza di figli maschi, fu assegnato attraverso la linea femminile alla figlia primogenita e, priva pure essa di figli maschi, successivamente a Carolina Berio che andò in sposa a Sebastiano Marulli, duca d’Ascoli. Infine Ferdinando II il 18 febbraio 1843 decretò che il titolo di principe di Sant’Angelo andasse poi al primogenito Troiano Marulli, i cui eredi negli anni a seguire si videro riconoscere anche il titolo di barone di Nusco, Andretta, Lioni, Carbonara, Monticchio e Oppido che veniva dagli Imperiale, nonché quello di barone di Montemarano, Volturara e Parolise che era dei Berio. Le università di Lesina e Poggio Imperiale, invece, riuscirono ad affrancarsi dal loro ex feudatario ereditando terra e diritti.

    Il nome degli Imperiale di Sant’Angelo fu perpetuato nel ramo cadetto dal marchese Domenico, fratello minore di Giulio II, e da suo figlio Giuseppe, che educato dal padre agli ideali liberali, fu condiscepolo di Mazzini e dei fratelli Ruffini dei quali condivise lo stesso ideale di patria.