La fondazione di Poggio Imperiale

    L’acquisto del feudo dell’AGP da parte di Placido Imperiale, coincise con gli anni in cui gli illuministi della corte partenopea esortavano il re Carlo III di Borbone ad adottare nuovi provvedimenti al fine di rinnovare ed incrementare l’agricoltura nel regno e in special modo nell’assolato Tavoliere daunio.

    Il primo a prendere posizioni in tal senso fu l’economista Ferdinando Galiani, che in quel contesto così si esprimeva: Io conto fra le molte cause di danno il sistema della Dogana di Foggia: sistema che al volgo sembra sacro e prezioso perché rende quattrocentomila ducati al re; al saggio sembra assurdo appunto perché vede raccogliere solo quattrocentomila ducati da un’esten­sione  di suolo che ne potrebbe dare due milioni; abitarsi da centomila persone una provincia che ne potrebbe alimentare e far ricche e felici, trecentomila; preferirsi le terre incolte alle colte; l’alimento delle bestie a quello dell’uomo; la vita errante alla fissa; le pagliaie alle case; le ingiurie delle stagioni al coperto delle stalle e tenersi infine un genere di industria campestre[1].

    In questo clima, favorevole sia alla crescita della popolazione che allo sviluppo agricolo della Capitanata, si colloca la fondazione di Poggio Imperiale.

Alcuni anni dopo aver definito l’acquisto di Lesina, don Placido si recò di persona a visitare i nuovi possedimenti e già confortato  dalle precedenti efficaci trasformazioni realizzate nel proprio feudo irpino, decise di tentare anche in queste sue nuove contrade un esperimento di bonifica che riuscì in modo più che positivo.

    Per attuare il progetto venne scelta un’amena e boscosa collinetta «dalla parte di mezzogiorno, volgarmente chiamata ’Coppa di Montorio’, circa miglia due distante da Lesina e quattro da Apricena»[2] e, dopo averla fatta disboscare, la rese coltivabile. Quindi, sul punto più alto di essa, il Principe dispose la costruzione di un casale[3] costituito da: una palazzina baronale, composta da sedici locali al primo piano, destinati per gli alloggi del suo castaldo, e sedici vani al pianoterra, dove vennero situati gli uffici contabili, i magazzini e le scuderie; piccole abitazioni per i futuri villici; una capace stalla per il ricovero degli animali ed un ampio magazzino, quale rimettere gli attrezzi agricoli.

    Per popolare il caseggiato rurale, l’Imperiale inviò bandi nel regno con la promessa di offrir a coloro che avrebbero l’invito: case gratuite, terreni, animali e quant’altro di occorrente per l’industria agraria. A rispondere alla chiamata furono quindici  famiglie di coloni provenienti da vari luoghi del regno di Napoli, tra le quali: Ambrogio Garappa da Francavilla di Lecce (oggi Francavilla Fontana); Domenico Vocale, Giuseppe Belmonte, Matteo Cristino e Michele Nardella da San Marco in Lamis; Giuseppe di Cirignola e Giovanni Palarano da Cerignola e Serio Chiaromonte da Roccella Ionica. L’amministrazione feudale, invece, fu affidata a Rocco Capozzi.

    Era il mese di maggio dell’anno 1759. Nasceva Poggio Imperiale.

   A questi pionieri, quindi, va il pieno merito di aver avviato il processo di colonizzazione fortemente voluto da Placido Imperiale, il principe «Nato per il bene del genere umano», come lui stesso amava definirsi.

 

 

Poggio Imperiale: la chiesa di San Placido e Piazza Principe Placido Imperiale nei primi del Novecento.

 

 

   Gli ubertosi terreni e la mitezza del clima giovarono al tenace e proficuo lavoro profuso dai coloni, gratificando nel contempo i propositi del Sant’Angelo, il quale decise di trasformare il casale in villaggio, adeguandosi di conseguenza alla politica innovativa in atto in quell’epoca nel Regno di Napoli.

   Al riguardo vennero costruite altre abitazioni e molte stalle furono convertite in alloggi, pronti ad ospitare l’arrivo di nuovi abitanti. E nel gennaio del 1761, il costituendo villaggio accolse una colonia di albanesi scutarini.

   Questi esuli, fedeli della religione cattolica, per sfuggire ad una recrudescenza di fanatismo religioso da parte del pascià di Scutari, fecero appello a papa Benedetto XIV, che ascoltò quelle implorazioni e, non potendo mobilitare eserciti, con Bolla del 1° Agosto 1754, propose loro di rifugiarsi nello Stato Pontificio[4]

    «Così fu che un gruppo di famiglie albanesi, accogliendo quell'invito, per conservarsi fedele alla fede degli avi, all'inizio del 1756, lasciò la sua terra natale, per veleggiare verso l'occidente, in Italia, con l'ansiosa speranza di essere confortate da un avvenire migliore.»[5]

    Nella comunità cristiana di Scutari, aveva un posto di preminenza la famiglia di tal Andrea Remani. Anch’egli ardente fedele della Chiesa di Roma, Andrea era molto stimato nella sua città. Era un mercante e intratteneva i suoi traffici con le città del Regno di Napoli e dello Stato Pontificio. Nel suo lavoro era aiutato dai figli Antonio, Nicolò e Stefano - che poi diverrà sacerdote - e metteva volentieri il prestigio della sua posizione al servizio della gente oppressa. Mensilmente Andrea si recava nella Marca Anconetana, per commerciare e partecipare alle rinomate fiere di Senigallia e in questi viaggi, spesse volte, era accompagnato dal figlio Antonio, giovane animoso e intraprendente che, come il genitore, «si prodigava a lenire le sofferenze della gente perseguitata. Naturale, quindi, che da parte di quegli infelici arrivassero a lui sempre più pressanti preghiere e lettere dei suoi concittadini, perché li aiutasse a toglierli da quell'inferno, per il vagheggiato paradiso italiano. Antonio Remani non seppe rifiutarsi a tante insistenze, prese a cuore le invocazione di quei miseri, ne fece parola al cavalier Corrado Ferretti, console della Nazione Levantina dimorante in Ancona, e questi fece arrivare quell'ardente desiderio fino al Papa Benedetto XIV.»[6]

   Il Pontefice, tramite il console, convocò il Remani a Roma presso la Corte Pontificia, per concordare le modalità di come trarre in salvo quella gente. Inoltre, al giovane mercante albanese la Santa Sede assicurò che la Reverenda Camera Apostolica (R. C. A.) avrebbe ricompensato e risarcito la famiglia Remani degli eventuali danni che un’azione del genere avrebbe potuto arrecare.

Antonio tornò ad Ancona con molto entusiasmo; s'imbarcò sulla prima nave che faceva rotta per l'Albania e, «giunto fra i suoi con la lieta novella, si pose subito a organizzare il piano della fuga, che già vagheggiava.»[7]

    Ma sorse subito una gravissima difficoltà: «trattandosi di una fuga, certamente malvista e osteggiata dal Pascià, nessun armatore si sentiva di esporre se stesso e la nave alla rappresaglia, alla distruzione e alla morte. Per quanto vantaggiosi fossero i noli, non si trovò chi volesse tentare il rischio. Non si scoraggiò il vecchio Andrea Remani. Perché il figlio potesse riuscire nel nobilissimo intento, rinunciò al suo aiuto nei negozi della mercatura, lui stesso sospese i suoi traffici e mandò Antonio in Puglia a trovare il necessario imbarco. Antonio, infatti, contratta nella Puglia una grossa partita di sale e noleggia due velieri per trasportarlo in Albania. Il superficiale osservatore non poteva capire lo strano affare di quel mercante albanese: il sale in Albania si poteva avere ad un prezzo di gran lunga inferiore a quello comprato nel Reame e trasportato per via mare. Ma nella mente di Antonio quei velieri, al ritorno, dovevano servire per il carico dei fuggitivi. Tutto pareva sorridere all'ideale dell'ardimentoso Remani; sennonché una fiera burrasca travolgeva e affondava in mare i due velieri ed il loro carico di sale. La generosa famiglia risentì il grave colpo finanziario; ma non si diede per vinta. Con una tenacia che ha dell'incredibile, Andrea raggranellò altro denaro, vendendo le sue possessioni terriere. Tre anni durarono le ricerche, i tentativi, le spese, lavorando sempre in segreto, per sfuggire alle persecuzioni dei Turchi. Finalmente nella notte del 2 febbraio 1756, trovato un armatore benevolo ed una nave che pareva sicura, si iniziò a Dulcigno l'imbarco delle famiglie Albanesi da trasportare in Italia.»[8]

    Ma ad un certo punto il capitano della marsiliana[9] ebbe un’intuizione e, pur non avendo preso a bordo tutte le persone, ordinò di levare l’ancora e salpare, lasciando sulla spiaggia Antonio con una parte dei fuggitivi. L’ufficiale aveva fiutato il pericolo: ben presto, infatti, arrivarono i Turchi, che arrestarono tutti «e li tennero sotto custodia, finché il Remani non poté dare per se e per gli altri una forte somma di riscatto.»[10]

    Una volta liberi, gli albanesi poterono raggiungere la nave a Ragusa[11], dove nel frattempo era approdata dopo la precipitosa partenza.

Completato l’imbarco, la marsiliana, sette giorni dopo, poté finalmente prendere il largo verso l’Italia. Viaggiando «con molta tardanza e cautela nel cuor dell'inverno, quel piccolo regno navigante, al governo della famiglia Remani, poté alfine salutare con gioia il sicuro suolo della Santa Madre Chiesa.»[12]

   Sbarcati ad Ancona dopo un tormentato e lungo viaggio, gli scutarini, un gruppo di circa trecentoventiquattro persone (tra cui un sacerdote) concentrate in 39 famiglie[13], vennero accolti dal marchese Trionfi, incaricato della Santa Sede, il quale fornì loro la prima assistenza[14]. Gli albanesi non avevano nulla con sé, tranne che il solo ricavato della frettolosa vendita dei loro beni a Scutari, soldi che consegnarono ad Antonio Remani «per ridurli in romani, che non più li viddero»[15]. Nella città marchigiana gli esuli trovarono ospitalità nel lazzaretto[16], dove furono ricoverati in osservazione per circa quaranta giorni[17], in attesa che la Santa Sede avrebbe comunicato loro il luogo della definitiva dimora.

«Arrivò alfine la notizia tanto aspettata: si andava verso Roma, dal Papa, nella Tomba dei Santi Apostoli.»[18]

    E all'alba del 24 maggio 1756, la colonia, a spese della R. C. A., si avviò alla volta di Roma. Ma lasciata Ancona ed imboccata la via Flaminia, i profughi ebbero una grande delusione, perché dopo Terni, anziché proseguire per la città santa, svoltarono in direzione di Viterbo giungendo, il 6 giugno 1756, nello Stato di Castro. Provvisoriamente presero alloggio a Canino, una cittadina sperduta nella campagna romana: quella era la loro nuova dimora stabilita dal Sommo Pontefice.

I poveri coloni albanesi, donne, vecchi e bambini compresi, giunsero a Canino «stanchi al maggior segno e molto assetati» per aver percorso a piedi l’intero percorso, oltre duecento chilometri, avendo a disposizione soltanto «un misero calesse per gli ammalati e i fardelli.»[19]

    In Maremma, gli scutarini furono accolti dal conte Niccolò Soderini, affittuario generale dell’ex Ducato di Castro, che, in ottemperanza alle disposizione ricevute da Roma, destinò i profughi presso il castello di Pianiano, ormai deserto dal 1734 e, grazie all’interessamento di don Stefano Remani, «che si trovava nella città Eterna a trattare alcuni affari presso la Curia Romana per incarico del suo Vescovo»[20], assegnò loro terreni, case e qualsiasi forma di sussistenza.

«Dalla Santa Sede, frattanto, ebbero il primo aiuto pecuniario. A quelli che erano superiori ai dodici anni di età, veniva dato un paolo giornaliero (10 soldi); mezzo paolo percepivano quelli sotto i dodici anni; per i sacerdoti la diaria era di un paolo e mezzo.»[21]

 

Il borgo medievale di Pianiano.

 

    Verso la fine dell’anno, si aggiunse alla colonia il sacerdote don Stefano Remani, che era stato già il loro parroco a Scutari. Il suo arrivo fu salutato come una benedizione. Gli albanesi erano davvero in condizioni pietose: la scarsezza di acqua, la mancanza di pulizia e di un decente alloggio, poiché vivevano in tuguri, fece manifestare tra i coloni qualche caso di tigna. A questi problemi si aggiunse anche la malaria - che agli inizi del 1700 causò molti morti nella zona tanto da indurre gli abitanti di Pianiano, nel 1729, a trasferirsi a Cellere - a causa della quale nel 1758 persero la vita sette capifamiglia albanesi e negli anni seguenti alcune famiglie furono decimate dal mortale morbo.

    La morte dei compagni e le difficoltà ambientali, che diventavano ormai sempre più crescenti, costrinsero gli Scutarini a chiedere il permesso al Papa di trasferirsi in luoghi più ospitali e il 26 maggio 1759, papa Clemente XIII, che era succeduto a Benedetto XIV, per tramite del conte Soderini, autorizzava gli albanesi a lasciare lo Stato Pontificio.

    La partenza da Pianiano avvenne il 28 novembre 1760. Tutti i profughi, ad eccezione della famiglia di Giovanni Sterbini, che preferì rimanere nello Stato di Ronciglione, si imbarcarono nel porto di Civitavecchia su di una tartana napoletana diretta a Napoli, invogliati anche dal «tenente colonnello Mida, ‘soldato da Napoli’ che accese l’animo dei più ardimentosi, a trasferirsi nel Reame.»[22]

    Nei cinquanta giorni di permanenza a Napoli, gli scutarini, non trovando alcun ricetto, «abbattuti ed avviliti», furono ridotti a mendicare, finché il principe di Sant’Angelo, Placido Imperiale, offrì loro di popolare il nascente villaggio di Poggio Imperiale, che da poco aveva edificato sul territorio del feudo daunio di Lesina, e dove aveva appena avviato un nuovo processo di colonizzazione. La colonia accettò e il 18 GENNAIO 1761, presso il notaio Gaspare Mario Martucci in Napoli, tra il principe di Sant’Angelo e i capifamiglia albanesi fu stipulato il seguente capitolato[23]:

 

        IN DEI NOMINE, AMEN.

DIE DECIMO OCTAVO MENSIS JANNUARII MILLESIMO SEPTINGESIMO SEXAGESIMO PRIMO. NEAPOLI.

Costituiti nella nostra presenza l’Eccellentissimo Signor don Placido Imperiale, principe di Sant’Angelo, il quale agge ed interviene alle cose infrascritte per se e per li suoi eredi e successori da una parte e: [24]  

VENERANDA COLEZZI[25] (Colitzi) con tutta la sua famiglia consistente in undici persone;

GIOVANNI COLEZZI (Colitzi) con tutta la sua famiglia consistente in dieci persone;

NICOLA STERBINI con tutta la sua famiglia consistente in nove persone;

STEFAN NATALE con sua moglie;

NICOLA CALUMETTI (Calmet) con tre persone di famiglia;

ANTONIO CABASCIO (Kabashi) con sette persone di famiglia;

GIOVANNI CABASCIO (Kabashi) con cinque persone di famiglia;

GIOVAN BATTISTA CABASCIO (Kabashi) con cinque persone di famiglia;

SIMONE GIONA (Gjoni) con sei persone di famiglia;

GIOVANNI PIETRO con quattro persone di famiglia;

PAVOLO PALI con tutta la sua famiglia consistente in sette persone;

GIOVANNI KALÀ (Halla) con quattro persone di famiglia;

ANDREA KALÀ (Halla) con quattro persone di famiglia;

GIORGIO LINDI solo;

GIACOMO NATALE con sua madre;

ANTONIO ZADRIMA (Xadrima) con sua sorella;

MARIA KUBINI, tutti d’Albania al presente qui in Napoli di passaggio li quali Capi di famiglia albanese agono ed intervengono alle cose infrascritte per essi e ciascuno di essi e per li loro e di ciascuno di loro insolidum eredi e successori dall’altra parte.

Detti capi di famiglia albanesi insolidum spontaneamente con giuramento avanti di noi e di detto Eccellentissimo Signor Principe don Placido hanno asserito: qualmente essendo giunti in questa Capitale provenientino dall’Albania con dette loro famiglie e desiderando soggiornare in un luogo di questo Regno han fatto varie diligenze per ritrovarlo, alla fine hanno dato le loro suppliche al detto Eccellentissimo Signor Principe don Placido, acciò compiaciuto si fosse darli un luogo nei suoi vastissimi stati che possiede in questo Regno di Napoli. Alle quali suppliche compassionando detto Eccellentissimo Signor Principe lo stato di dette famiglie senza ricovero alcuno, si è compiaciuto concedergli un luogo nel territorio di Lesina e propriamente quello detto Poggio Imperiale in provincia di Capitanata alle seguenti capitolazioni, cioè:

Primieramente detto Eccellentissimo Signor Principe don Placido promette di dare alle suddette famiglie albanesi tomoli trenta di grano per ciascun mese, del peso e misura di Puglia, dal giorno che arriveranno in detto luogo di Poggio Imperiale e sino alla raccolta dell’anno 1762.

Di più promette detto Eccellentissimo Signor Principe darli paia sette di bovi, terre per orti per anni quattro senza pagare, che possino portare armi non proibite dalle Regie Prammatiche, che li sbirri non li diano molestia. Case franche per anni cinque, territori franchi per anni tre, le legne franche sempre alla riserva delle difese proibite. Il pascolo franco sempre nelli territori dell’Università.

Il cappellano mantenuto da detto Eccellentissimo Signor Principe, e sarà parroco, li spetterà la congrua assegnata dal Concilio, cioè ducati cento l’anno, da nominarsi da esso Eccellentissimo Signor Principe e da approvarsi dall’Ordinario del luogo.

Per ogni famiglia si assegnano due pecore, due capre e sei somari in comune per tutte la famiglie e dette pecore e capre ce li concede detto Eccellentissimo Signor Principe gratis e senza pagamento alcuno.

 Il medico franco per anni quindici.

Ed all’incontro detti Capi di famiglia albanesi insolidum promettono e s’obbligano il grano di sopra mentovato, che prenderà uno per occorso d’essi e delle loro famiglie, e le sopradette paia sette di bovi ed ogni altra spesa che facesse per essi detto Eccellentissimo Signor Principe pagarlo al medesimo Eccellentissimo Signor Principe fra quattro anni da questo suddetto dì in avanti per la rata di ogni anno.

E terminati detti anni di franchigia delle case e territori, debbano detti Capi di famiglia albanesi insolidum pagarne l’affitto nella maniera che pagheranno gli altri cittadini e vassalli di esso Eccellentissimo Signor Principe.

Tutto il grano che avanzerà a dette famiglie del debito che si dovrà pagare al detto Eccellentissimo Signor Principe sia a loro libero arbitrio di venderlo a chi li piacerà.

E finalmente si è convenuto per patto espresso e speciale, che se mai dette famiglie albanesi non volessero commorare in detto luogo concedutolo da detto Eccellentissimo Signor Principe, e se ne volessero da quello andare, in tale caso debbano detti Capi di famiglia albanesi, siccome li medesimi insolidum promettono e s’obbligano di pagare al detto Eccellentissimo Signor Principe tutto ciò che avranno ricevuto, ed anche quelli animali, franchigia ed affitti di case, affitti di territori, di pascolo e di qualunque altra cosa che avessero ricevuto in dono da esso Eccellentissimo Signor Principe sino al giorno della partenza, che dovranno fare da detto luogo di Poggio Imperiale, non intendendo esso Eccellentissimo Signor Principe nel caso predetto d’averli donato cosa alcuna, ma che tutto debbano pagarcelo senza replica, né eccezione alcuna anche di liquida prevenzione alla quale con giuramento avanti di noi hanno ringraziato e rinunciano, e non altrimenti e non d’altro modo.

E per ultimo si è convenuto, che giungendo altre famiglie albanesi che volessero andare a commorare in detto luogo di Poggio Imperiale in tal caso debbano godere in tutto e per tutto quanto nel presente Instrumento si è espressato.

E per la Reale osservanza di tutte le cose suddette le dette parti e ciascuna di esse quello che ognuna di loro rispettivamente insolidum spetta ed appartiene spontaneamente hanno obbligato le loro persone, loro eredi suddetti, e beni tutti mobili, stabili, presenti e futuri una parte all’altra, e l’altra all’una presente e sub pena ed ad penam dubli medietate cum potestate capiendi costitutione precary renunciaverunt et juraverunt. Presentibus judice mag. Notario Domenico d’Aveta di Neapoli. Reg. ad contraetus pro testibus vero.

D. Nicolò Mida, Jone Piatti et Vincentio Daniele de Neapoli.[26]

 

    A queste prime famiglie, altre venti, tra cui quella di Antonio Remani, se ne aggiunsero da li a poco, come dall’atto stipulato dallo stesso notaio il 4 febbraio. Si riportano i nomi dei capifamiglia albanesi, omettendo il resto dell’atto perché sostanzialmente simile al precedente:

 

ANTONIO NEMANI (Remani) con quattro persone di famiglia;

STEFANO MIDI (Mida) con tre persone di famiglia;

ANDREA MIDI (Mida) con quattro persone di famiglia;

MARCO MICHELI con quattro persone di famiglia;

STEFANO MICHELI con quattro persone di famiglia;

GIACOMO MICHELI con una persona di famiglia;

ANDREA CARUCCI (Karuçi) con cinque persone di famiglia;

SIMONE CODELLI con tre persone di famiglia;

MARCO LOCOREZZI (Logoraci) con quattro persone di famiglia;

GIACINTO LOCOREZZI (Logoraci) con tre persone di famiglia;

GIOVAN PIETRO PRENCA (Brenka) con sette persone di famiglia;

MARCO COLA (Kola) con tre persone di famiglia;

SIMONE COLA (Kola) con sei persone di famiglia;

ANDREA GHEZZA (Ghega) con due persone di famiglia;

MARCO MILANI con due persone di famiglia;

PAOLO GIACA (Gjoka) con tre persone di famiglia;

ANTONIO COLA (Kola) con due persone di famiglia;

ANGELO ZANCO (Zanga) con cinque persone di famiglia;

MARCO GHIDI con tre persone di famiglia;

EVERARDO NICOLI con tre persone di famiglia.[27]

Le abitazioni «con tetto di una pendenza» che hanno ospitato gli albanesi nel loro breve periodo a Poggio Imperiale.

(Ringraziamo l'amico Antonio Buca per averci fornito questa foto)

 

    Dopo aver concordato con il principe Sant’Angelo le predette agevolazioni, gli albanesi partirono alla volta della loro nuova destinazione, accompagnati da due guide spirituali, don Marco Micheli[28] e don Simone Vladagni[29], aggregatosi ai connazionali dopo la partenza da Pianiano. «Separatamente sopraggiunsero anche due sacerdoti del rito greco: Simone Bubici con la moglie e cinque figli e Stefano Teodoro con tre figli.»[30]

    Giunti nella piccola borgata sul finire dello stesso mese, gli albanesi occuparono le abitazioni con tetto di una pendenza e banderuola su la porta di un pezzo, un focolaio ed un fenestrino all’ovest[31], situate a fronte la palazzina baronale.

    Ma una parte di essi non trovò di gradimento il sito, sia per la malaria che arieggiava nella zona, sia per l’accoglienza con la comunità italiana - che non fu tra le più incoraggianti - e insieme a don Micheli, dopo poche settimane dal loro arrivo, decise di lasciare il luogo[32] e fare ritornò a Pianiano. Il resto della colonia, compreso il sacerdote Vladagni, abbandonerà Poggio Imperiale subito dopo la Visita Pastorale del vescovo di Lucera, Giuseppe Maria Foschi, compiuta nel marzo del 1761, anche per le disposizione impartite dal presule, che vietava al sacerdote albanese di celebrare le Sacre Funzioni nella chiesa di San Placido.[33]  

    Il 23 marzo del 1761, la colonia albanese di Poggio Imperiale risulta riunificata interamente a Pianiano, fatta eccezione per le famiglie di Simone Gioni, Primo Cola e Michele Zadrima, che decisero di restare nel Regno di Napoli.[34]

    Alla luce di quanto esposto, e grazie all’ausilio di nuovi documenti, potremmo affermare con espressa certezza, fugando ogni sorta di dubbio, che Poggio Imperiale deve la sua crescita culturale, demografica ed economica solo ed esclusivamente alle famiglie italiane.

La colonia albanese, presente sì a Poggio Imperiale, ma nel solo arco che di poche settimane, non ha lasciato alcun segno né della propria cultura, né tanto meno del suo passaggio. Gli albanesi rimasti a Poggio Imperiale, ma non giunti con la colonia di Pianiano, Simone Bubici, Giovanni Bubici, Stefano Teodoro e Giovanni Spenza (o Spencer) si sono subito integrati nella vita sociale della Poggio Imperiale del Settecento, assimilando tradizioni, costumi e lingua della gente italiana.

    Il tentativo di Placido Imperiale, di colonizzare i boscosi terreni circostanti Poggio Imperiale con i coloni di Scutari, era infelicemente fallito!

    L’imprevista partenza degli albanesi sembrò ostacolare del tutto i benevoli propositi dell’Imperiale, il quale non cedette alle avversità e sempre più determinato nell’impegno assunto, inviò circolari nel Reame con le stesse promesse convenute con i medesimi albanesi, invitando chiunque ad accrescere il nascente villaggio.

    A raccogliere le proposte furono in tanti e nel mese di maggio dell’anno 1764 una moltitudine di coloni del Principato Ultra, si trasferì con le proprie famiglie a Poggio Imperiale per realizzare gli obiettivi prefissatisi da Placido Imperiale, e che gli albanesi nemmeno abbozzarono.

«L’afflusso di tanti volenterosi compiacque il Principe che per prima cosa dispose la costruzione di nuovi alloggi più conforte­voli dei primi per capienza e struttura; mantenne, anzi, allargò in favore dei nuovi arrivati gli impegni presi, agevolò di più i negletti perché si mettessero al par degli altri; cercò insomma di infondere in ognuno la certezza di un più sicuro avvenire nella nuova dimora.»[35]

    Ma il fato non era dei migliori. In quello stesso anno, infatti, memorabile per lo scarso raccolto, per cui un tomolo di grano superò il valore di quattro ducati, una mortale carestia causò molte vittime. Questa sventura non scoraggiò gli operosi coloni, i quali «in un abbraccio di affetto ingigantito dalle avversità, al Principe uniti nella Fede, ravvivarono i loro propositi, tornando ai campi più volenterosi, più caparbi.»[36]

    Venne estesa, infatti, la coltivazione dei cereali e del frumento, per cui la necessità di manovalanza consentì l’arrivo di nuovi coloni anche dai paesi vicini.

E grazie alla tenacia di questi antesignani, Poggio Imperiale ebbe finalmente il suo decollo.

 

 

 

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www.poggioimperiale.net/

http://web.tiscali.it/anlacr/

 

 

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Note:

[1] - M. Magno: La Capitanata dalla pastorizia al capitalismo agrario (1400-1900) - Centro Studi e Ricerche - Roma 1975 - pag. 53. (Torna su)

[2] - Archivio della Diocesi di Lucera (in seguito sarà ADL): Atti della Visita Pastorale che il vescovo di Lucera, Giuseppe Maria Foschi, compì nell’anno 1761 in Poggio Imperiale. (Torna su)

[3] - Durante il feudalesimo la definizione di «casale» era data a quegli agglomerati rurali edificati nei tenimenti delle «Università» (Comuni) con lo scopo di metterli a coltura. (Torna su)

 

[4] - G. Ribeca: Una colonia albanese a Pianiano (Territorio dello Stato Pontificio - 1756), Tesi di laurea, relatore prof. Pietro Silva, Anno Accademico 1947-48. Ringrazio il professor Italo Sarro che mi ha fornito la copia anastatica della tesi del Ribeca. (Torna su)

[5] - Ibidem. (Torna su)

[6] - Ibidem. (Torna su)

[7] - Ibidem. (Torna su)

[8] - Ibidem. (Torna su)

[9] - Veliero mercantile del XV secolo, precursore della galeazza. (Torna su)

[10] - G. Ribeca, op. cit. (Torna su)

[11] - Ragusa o Dubrovnik, città della Croazia situata su una piccola penisola rocciosa della costa dalmata. (Torna su)

[12] - G. Ribeca, op. cit. (Torna su)

[13] - Sul numero delle famiglie albanesi giunte in Ancona, gli studiosi sono discordi. Il Blasi, facendo riferimento ad un racconto di anonimo, parla di 40 famiglie e 218 persone; il Donati nella sua opera: Pianiano, una colonia albanese nel Lazio, riferisce di 45 famiglie e 208 persone. (Torna su)  

[14] - I. Sarro: Pianiano, un insediamento albanese nello Stato Pontificio, Sed Editore, Viterbo 2004, pag. 21. (Torna su)

[15] - Ibidem, pag. 171. (Torna su)

[16] - Ospedale designato all’isolamento e alla cura delle persone affette da malattie contagiose. (Torna su)

[17] - cfr. G. Saitto: Poggio Imperiale. Storia, usi e costumi di un paese della Capitanata, Edizioni del Rosone, Foggia 1997, pag. 58. (Torna su)

[18] - G. Ribeca, op. cit. (Torna su)

[19] - I. Sarro: op. cit., pag. 21. (Torna su)

[20] - G. Ribeca, op. cit. (Torna su)

[21] - Ibidem. (Torna su)

[22] - Ibidem. (Torna su)

[23]- Una strada di Poggio Imperiale, chiamata appunto VIA 18 GENNAIO 1761, ricorda ai posteri il giorno del patto stipulato a Napoli tra Placido Imperiale e gli albanesi. (Torna su)

[24] - Tra parentesi, si riportano i cognomi, subito italianizzati, degli albanesi giunti a Pianiano ai quali, il 29 novembre 1757, furono assegnati terreni, animali ed attrezzi. (Torna su)

[25] - Moglie del quondam Andrea Sterbini. (Torna su)

[26] - Copia conforme all’originale tratta dall’archivio del notaio Luigi Ruo di Napoli. (Torna su)

[27] - A. De Palma: Poggio Imperiale. Noterelle paesane, Edizioni «Il Richiamo», Foggia 1984, pagg. 36-37.  (Torna su)

[28] - Don Micheli era originario di Bria, della diocesi di Scutari. (Torna su)

[29] - Dagli atti della visita del vescovo Foschi del 1761, rileviamo che don Simone Vladagni, e non Uladagni, come erroneamente riportato nel documento, sia nato intorno al 1724 a Scutari. All’età di quattordici anni fu condotto al Collegio Illirico di Loreto, dove fu istruito nelle scienze, indi fece ritorno in Albania per predicare le Sacre Missioni. Nel 1750 fu promosso al presbiterato. (Torna su)

[30] - A. De Palma: op. cit., pag. 37. (Torna su)

[31] - M. Fraccacreta: Teatro Storico Poetico della Capitanata, Tipografia A. Coda, Napoli 1834, Tomo IV, pag. 107, parafrase 54. (Torna su)

[32] - È quanto afferma il vescovo Foschi negli atti della sua visita. (Torna su)

[33] - Per il decreto emanato dal vescovo Foschi nei confronti del Vladagni, cfr. G. Saitto: op. cit., pag. 135 e seg. (Torna su)

[34] Cfr., I. Sarro, op. cit., pag. 36. (Torna su)

[35] - A. De Palma: op. cit. - pag. 46. (Torna su)

[36] - Ibidem, pag. 48. (Torna su)