INEDITI POESIA

ANDREA GENNARO

 

Mi chiamo Andrea Gennaro, ho ventinove anni e vivo a Torino. Sono sposato da un anno con la mia musa ispiratrice, Chiara, ed ho scritto un centinaio di racconti brevissimi, oltre ad una decina di racconti propriamente detti e due romanzi brevi. Una passione, lo scrivere, che mi accompagna ormai da oltre una decina d'anni e che è riuscita a colorare il mio orizzonte di un perenne rosa-sogno, nonostante il nero della gomma con cui sono costretto a convivere quotidianamente operando in qualità di magazziniere presso una ditta di guarnizioni. Fra gli hobbies: leggere, programmare in Visual Basic, gli Afterhours. Ovviamente, e soprattutto, scrivere.

 

IL ROBIVECCHI

Al robivecchi gli avreste dato un centinaio d’anni, a giudicare dalla ragnatela di rughe che gli intrappolava gli occhi e dalla schiena, nuda, incartapecorita e piegata sul manubrio di quello scassone di bicicletta dell’anteguerra.
C’era da chiedersi come gli riuscisse di spingere quei pedali scalcagnati su per l’erta di Corso Principe Oddone in direzione di Piazza Statuto, nel guardare quegli scarni polpacci anneriti da strati sovrapposti di sudiciume, smog e abbronzatura estiva.
Nel carretto di ferro e legno che trainava però senza apparente sforzo ci avresti trovato un po’ di tutto: vecchi quadri senza cornice arrotolati in decine di tubi tenuti insieme da elastici incancreniti dal tempo, lastre di rame che ricordavano forse ancora il loro sfavillante passato di grondaia, tegami di latta tutti bozzi e rientranze, e ancora flauti traversi di un ottone imbrunito dall’ossidazione, mappe stradali di luoghi lontani mai visitati, bottiglie vuote di vini che altri avevano bevuto e poi tracolle di cuoio usurate fino all’indecenza, sacchetti di plastica pieni di giornali che da tempo avevano urlato la loro notizia dell’ultim’ora, raccordi a gomito di stufe, pacchetti di sigarette vuoti, una stecca da biliardo, pezzi di pane raffermo, una parrucca da clown di un fosforescente verde smeraldo…
Un baule, anche.
Non molto pesante, a dispetto dell’apparenza: scuro legno d’ebano ne costituiva le pareti, saldate fra loro da massiccie borchie di bronzo brunito, con spigoli bombati di un metallo leggero cui un’elettrolisi ben eseguita aveva dato l’aspetto di angoli dorati. Alcune etichette adesive avevano osato profanare questa sobrietà con i loro inviti a bere Coca Cola e ad utilizzare il Camping Calagonone, ma già i bordi si arricciavano, ricoperti di polvere a ciuffetti come a presagire un non troppo remoto distacco.
Al suo interno, qualcosa di misterioso.
Lo stesso robivecchi non aveva mai avuto la curiosità di sollevare le cerniere che univano il coperchio al corpo parallelepipedo. Lo aveva attratto la sfarzosità quasi antiquaria di quell’oggetto, ritrovato al fianco di un cassonetto dell’immondizia, come tutto il resto dell’armamentario che si portava appresso. Lo aveva stupito quella sua strana leggerezza, ché nel sollevarlo aveva temuto di doversi procurare un’ernia. Quasi fosse stato di cartone dipinto, invece, gli era stato sufficiente un minimo sforzo per issarlo e depositarlo sul carretto.
Tutto qui. Del contenuto, come di mille altre cose, il robivecchi non si preoccupava. Raccattava carabattole per puro piacere, seguendo impulsi sconosciuti anche a se stesso, ma fedele nel percorrere le direttive che gli inviava il proprio cuore.
Ma noi siamo qui per svelare il segreto, perché noi da qui vediamo oltre le pareti. Da qui è fin troppo evidente vedere che dentro il baule trova posto la felicità, ed è allo stesso tempo divertente e triste guardare quel vecchio pazzo continuare ad arrancare sulla salita con quel suo strano carico al seguito, fatto di magia ed inconsapevolezza.

 

IL RITO

Eccomi qui, sul terrazzo di casa mia.
La bandiera della pace l’ho fissata proprio bene: è ancora qui dopo sette mesi, a sorridere alla gente con il suo arcobaleno, a risvegliare coscienze (o magari oramai anche ad annoiarle, ché non c’è niente di meglio di non aver mai provato la guerra sulla propria pelle...), ancora e sempre stesa a bagnarsi ed asciugarsi, forse relegata a cartina di tornasole per il livello d’inquinamento atmosferico che ne offende e ne uniforma i colori col passare delle settimane.
Il mare di Genova è piatto e grigio, oggi, a stento distinguo la linea d’orizzonte che lo separa dal cielo.
Lo guardo rabbrividendo per il freddo, tuffando le mani più in profondità nelle tasche della vestaglia di lana. Questo dicembre siamo scesi a temperature record, ha detto il telegiornale. Ieri a Spianata Castelletto il termometro digitale della farmacia all’angolo segnava -12°C! E poi dicono che nelle città di mare il clima è sempre temperato...
Il mio respiro si addensa in un fumetto come a rimproverarmi.
Dovrei rientrare in casa, lo so, non è proprio il caso che io resti qua fuori a congelarmi pensando alle guerre mentre guardo il lingotto di alluminio del cielomare di fronte a me, tanto più che il quadretto mi puzza un po’ troppo di decadenza borghese e già mi pare di vedere l’indice ondeggiante di mia madre.
No, no, no! Così proprio non va! Fammi un favore e rientra dentro! Dai...
Le direi di aspettare ancora un attimo, che i riti vanno rispettati.
Probabilmente non capirebbe e continuerebbe ad ondeggiarmi il suo indice sugli occhi, in un vano tentativo di ipnotizzarmi per convertirmi alla sua causa, ma alla fine desisterebbe, come sempre.
Mia mamma la guerra l’ha vista. Era solo una bambina, allora, quindi forse dire che l’abbia vissuta sarebbe eccessivo. Però l’ha vista ed io, con stupidità, per questo un po’ la invidio. Perché con quella esperienza ha saputo tramandarmi lo spregio per ogni forma di violenza, il ripudio che io non so se sarò in grado di perpetuare.
A proposito! E’ quasi ora.
Chissà se anche oggi sarai puntuale, Francesco, se busserai ancora per onorare la mia aspettativa e questa attesa alle intemperie. La prima volta stavo proprio aggiustando la bandiera -ti ricordi?- che il vento l’aveva fatta ribaltare verso l’interno del terrazzo. Sei stato discreto, quella volta, due timidi colpetti da dentro come un imbranato alla porta della persona che gli fa impazzire il cuore.
Tock! Tock!
E il cuore me l’hai fatto impazzire per davvero, eccome!
E da allora ogni giorno, a volte con irruenza, altre con garbo, altre ancora quasi come per un dovere. Una piccola capriola interna come a dirmi: "Ci sono già anche se non ci sono ancora, bada a quello che fai!", un monito come se tu fossi la versione embrionale di mia madre.
Ed eccola qua, finalmente, mia madre. Tutta intabarrata nel suo scialle, ciabattando sulle piastrelle del terrazzo in sincrono con l’ondeggiare del proprio indice.
"No, no, no! Così proprio non va, Vanessa! Non senti che freddo che fa? Cosa penserà il marmocchietto, lì dentro? Fagli un favore e rientra dentro! Dai..."
Il mare è un po’ più mosso ora. Anche la bandiera ha preso ad ondeggiare sulle ali del vento. Sono tutti agitati, oggi, anche il mio Francesco.
Puntuale, neanche a dirlo.

 

IL CAFFE' IMPOSSIBILE  

 

Quando digo che voglio ca fè, vuol dire che voglio ca fè
E noi giù a ridere, con quella gaiezza stolta dell’infanzia.
La nostra famiglia era composta di otto elementi: io, i miei genitori e i miei cinque fratelli. Tutti maschi, per un fortuito volere del destino, ché di femmine non sapevamo cosa farcene. Alla nostra famiglia servivano “braccia buone per la terra”, come diceva mio padre. Mica “altre bocche da sfamare” e basta...
Era il 1953, un’estate fra le più calde mai registrate qui nella zona del delta del Po, e mio padre partiva alle cinque del mattino col suo bravo codazzo di figli assonnati al seguito per andare a lavorare la terra bassa di queste parti depresse.
Vivevamo di giornate assolate e fatica, senza sosta a rincalzar di vanga le piante di granoturco: le infiorescenze mature andavano ad appiccicarsi sulle nostre schiene chine cosicché era un continuo dibattersi per il prurito provocato, movimenti inconsulti che permettevano alle foglie taglienti di assaggiare i nostri scarni avambracci di bambino.
Avevo sette anni, allora; il mio compito consisteva nell’estirpare le erbacce che crescevano fra le piante di formentone e che “succhiavano l’acqua al loro posto” come diceva mio padre. Passavo così metà della mia giornata a procedere carponi fra i filari di mais, lottando strenuamente contro ogni gramigna infestante, chiacchierando coi lombrichi di passaggio e con le pietre calcinate dal sole sfacciato.
La campagna assolata stordiva le membra, l’aria canicolare le abbatteva assorbendone ogni energia. Eppure, di tanto in tanto, si alzava una brezza fresca, succosa e buona, che rinfrancava quel mio alacre peregrinare. Era al levarsi di quel refolo benevolo che scorgevo in lontananza il rizzarsi delle schiene sudate dei miei fratelli maggiori. Mio padre si spingeva sulla nuca il cappello di paglia e si tergeva la fronte con un avambraccio carnoso e possente. Il suo petto si espandeva ad abbracciare quel soffio del paradiso, quindi si immobilizzava per qualche secondo ed infine ricadeva, grato e soddisfatto.
Lo vedevo come una statua nel grano, un monumento vivente all’operosità.
Avrebbe continuato a lavorare per tutta la vita, mi avrebbe permesso di proseguire gli studi, unico fra i suoi sei figli a perseguire un diploma di licenza superiore, unico fra i suoi sei figli ad abbandonare il lavoro nei campi e ad abbandonare il formentone.
Bisognava stare “sempre sotto”, diceva, “che la vita non te la regala nessuno!”
“Sempre in prima fila se c’è da lavorare”, mi ripeteva.
Ed io sempre sotto stavo, che cavar erbacce non lo si poteva mica fare in piedi!
E sempre in prima fila, volente o nolente, che ad essere il figlio minore ero quello tartassato, quello che si faceva i lavori che gli altri non volevano fare.
Si rientrava a casa col buio, quale che fosse la stagione. Per questo motivo odiavo l’estate. Odiavo quelle giornate interminabili passate in ginocchio, a scorticare la terra.
Mia madre era a casa. Attendeva, bianca come un cadavere che ci disponessimo a tavola, sporchi, unti e bisunti secondo il suo dire. Sul mio piatto veniva a cadere invariabilmente un’unica fetta di polenta bianca così sottile “che ci potevi vedere San Pancrazio attraverso”, come provava ad obiettare Renzo, il più grande.
“Non bestemmiare”, diceva mia madre rivolgendo lo sguardo alla finestra ed alla chiesa, sul crinale.
“Mangia e taci”, era invece il monito severo del babbo, ma si vedeva che la pensava allo stesso modo. A volte si alzava ed elargiva una mezza aringa sotto sale disposta su un foglio di giornale a centro tavola perché ne facessimo un Natale, ma le occasioni in cui avveniva erano veramente rare, come quella brezza pomeridiana nel mais.
Il piatto era subito vuoto, una cena ristoratrice solo per autoconvincimento. Renzo sbuffava e si accasciava sullo schienale, Angelo e Luciano si davano alla morra cinese, Sergio chiudeva gli occhi e annusava la forchetta, Antonio correva dietro a mia madre, già intenta a sparecchiare. Io restavo a tavola, sognando che fosse domenica per poter ricevere anche una pesca.
Più di uno stomaco brontolava ancora, ma tutti assaporavamo più di ogni altra cosa la possibilità offertaci di poter riposare, ché la notte sarebbe passata veloce e il gallo avrebbe cantato come sempre alle cinque: maledetta estate!
Quasi non mi pareva vero di poter distendere le gambe sotto il tavolo, in tutta la loro pur modesta lunghezza. Dopo averle assassinate per un’intera giornata, tornavano anche loro a reclamare un attimo di tregua, producendo secchi schiocchi artritici degni di un ottuagenario.
Mio padre proprio allora si rabbuiava, non voleva vederci in ozio nemmeno per un istante: la vita era lavoro e senza lavoro non c’era vita! Era in quel momento che solitamente pronunciava quella frase. Che a tradurla in italiano non avrebbe fatto lo stesso effetto.
Oggi credo che mio padre la dicesse apposta per farci ridere, perché ci divertissimo a prenderlo in giro, eppure a quei tempi il tono mi appariva quasi minaccioso ed io non mi sarei mai unito alle risa dei miei fratelli se anche mia madre non avesse fatto parte del coro: mio padre pretendeva rispetto con quell’ordine, non voleva certo essere canzonato!
Quando dico che voglio che vi diate da fare, dovete darvi da fare!
Quando digo che voglio ca fè, vuol dire che voglio ca fè!
E il pugno calava sul tavolo, a rimbombare e a sottolineare quelle parole.
A questo punto cominciava il teatrino. Anziché tremare per quella perentorietà, il clima si faceva leggero, tutti sembravano solleticati da una vena ilare che li portava ad alzare la voce in toni da commediante da palcoscenico, e proprio come attori si esibivano nei loro sberleffi all’indirizzo del genitore.
“Mamma, tira fuori il caffè, che papà lo vuole!”, gridava allora Renzo, e lanciava un’occhiata divertita a me e ad Antonio. Altre volte ci strizzava l’occhio, sempre con quell’aria da furetto, come diceva mia madre.
“Mannaggia, mi sa che l’abbiamo finito, il caffè!”, rincalzava Angelo con tono allegro.
“Il caffè, il caffè, il caffè!”, riusciva a dire Sergio.
“Vuole il caffè, il signore!”, diceva mia mamma, ed elargiva il suo sorriso più dolce, quello che più del fuoco riusciva a scaldarci nelle notti d’inverno; quindi faceva una piccola giravolta su se stessa e tornava ad occuparsi delle stoviglie.
E noi giù a ridere, con quella gaiezza stolta dell’infanzia che non sa distinguere la miseria in una fetta di polenta bianca così sottile che ci puoi vedere San Pancrazio attraverso.

 

 

MATRIOSKA

 

Nello spazio infinito dell’universo veleggiano come barche senza rotta milioni di stelle e pianeti che intrecciano le loro orbite seguendo misteriose leggi di cui ignoriamo forse persino l’esistenza, miliardi di corpi celesti che si incontrano e si allontanano da sempre.
E fra questi c’è la nostra infinitesimale Terra, nient’altro che un po’ di pulviscolo nell’occhio di Dio, un mondo fatto di mare, di terra e di vita in cui si fondono e si confondono milioni di storie di piccole persone che nascono, maturano, muoiono, che si amano e si odiano in un microcosmo fatto di scaramucce e dolcezza del tutto insensate ed irrilevanti al confronto della vastità in cui sono immerse.
E fra queste persone c’è Adamo, un uomo dal nome antiquato ed altisonante, un semplice impiegato statale che programma computer e appuntamenti e viaggia in doppio petto e spolverino frustrato dal proprio lavoro e dalla propria vita provata dalle fatiche e dallo stress, una di quelle tante persone che inconsapevolmente si muove secondo schemi prefigurati, che instaura e scioglie rapporti professionali e privati in una continua girandola di emozioni e stati d’animo.
E in Adamo ci sono dei sentimenti, alcuni dei quali prevaricano sugli altri, come fondamenta su cui egli ha appoggiato la sua esistenza. I quattro pilastri alla base si chiamano Dio, giustizia, famiglia e lavoro; poi ci sono miliardi di sensazioni variabili che passano dalla tenerezza alla rabbia sostando fra serenità e spossatezza, felicità, rancore, dolore e gioia in una sempiterna gara di tiro alla fune fra cuore e cervello.
E nel cuore c’è il nome di una donna: Eva, grazie ad un bizzarro gioco del destino o a causa di un disegno che lui non può capire, e quel nome si gonfia e si sgonfia al ritmo stantuffato del muscolo, si contrae e si dilata nella danza impazzita di ventricoli ed atrii; quel nome rende Adamo come polvere nel deserto.
E in quel nome c’è lo spazio infinito dell’universo...

 

 

 

SALE E GLORIA

 

Giovanna è ai fornelli, suo marito è appena tornato dal lavoro e si è appena seduto alla tavola apparecchiata col giornale piazzato di fronte agli occhi. La loro è una relazione che è andata perdendo la patina di un tempo, in un inesorabile calo di interesse e fantasia. Per Giovanna è stata dura accettare questo stato di cose, e ancora adesso, mentre rimesta la minestra, non è del tutto sicura di comprendere se fra loro vi è indifferenza o se si tratta invece di una normale abitudine alle consuetudini della vita di coppia.
E’ sempre stata una donna positiva, e non accetta che un matrimonio (in particolare modo il suo) debba sgonfiarsi per inezie quali l’assuefazione da routine, ed è proprio per questo che Giovanna ha sempre tentato di pungolare il marito con trovate fantasiose, creando succosi imprevisti ed anche con qualche nascosto gioco da letto.

Suo marito, per altro, non è mai parso realmente convinto dai suoi sforzi. Non che sia apatico, questo no, ma a volte risulta assente, lontano, troppo quotidiano e troppo prevedibile. Semplicemente non riesce a scollarsi dalla mondanità che Giovanna tanto odia. Ma forse questi sono solo pensieri da crisi del sesto anno, forse non sono altro che perversi masochismi della mente, o magari subdolamente è lei stessa a non essere più appagata da quel legame e cerca così motivi di ispirazione, ragioni per cui valga la pena di vivere con Giorgio. No, no! Giovanna ama suo marito, questo è certo, lo saprà bene –no?- cosa prova?
Eppure manca quel... brio!
Siedono a cena. Giovanna come sempre sistema il tovagliolo, Giorgio come sempre intinge il cucchiaio nel brodo.
“Mi passeresti il sale, Gloria?”
Giovanna muore dentro, e gli passa il sale.

 

 

 

AMORE CAMPESTRE

 

La poiana si levò dal campo a maggese, disturbata dal basso brontolio del motore. Sorvolò il campo di granoturco sfuggendo alla vista dei due, veloce come era apparsa.
Guidava lui.
Manteneva inserita una marcia bassa, per evitare che la ghiaia dello sterrato avesse a schizzare sulla carrozzeria, ma nonostante la modesta velocità si lasciava alle spalle ugualmente un gran polverone che andava a saturare l’intera visuale del lunotto posteriore.
La strada poderale terminò con l’antiquato segnale di STOP, il triangolo rovesciato inscritto nella circonferenza, e fermandosi prima di immettersi nella statale ebbe tempo di associare quel cartello agli ideogrammi cabalistici che di tanto in tanto aveva scorto nelle sue serate di zapping selvaggio fra le locali reti televisive, canali che parevano invasi esclusivamente da maghi, venditori e spogliarelliste.
Avrebbe voluto dirlo a lei, ma si trattenne anche solo dal guardarla.
La sua erezione non si era ancora spenta del tutto, e riteneva che un’ulteriore occhiata l’avrebbe rinverdita inesorabilmente; preferiva evitare, c’erano altre cose (tante) da fare, ed in fretta per giunta.
Ma gli fu impossibile non tornare con la memoria ai momenti precedenti, ai loro corpi che si erano fusi fra le spighe alte, fra le pannocchie mature, tra le foglie taglienti; i pennacchi delle piante nelle vicinanze avevano ondeggiato al loro ritmo e le infiorescenze erano piovute su di loro come chicchi di riso ad un matrimonio, irritandone la pelle nuda; e poi un lombrico le era strisciato sugli occhi prima di infiltrarsi fra l’intrico di capelli scuri, e lui aveva veduto la scia infinitesimale lasciata da quel passaggio; in quel momento era venuto, quando anche l’ultimo anello scompariva nel folto della capigliatura, e il suo sperma era fuoriuscito veloce.
Lui l’aveva riempita e aveva irrorato anche il terreno, lui!
“Ti è piaciuto?”, le chiese ora nell’abitacolo, sempre gli occhi fissi alla strada.
Lei non rispose.
Chi tace acconsente, pensò lui.
Dopo poco arrivò alla villetta e parcheggiò nella rimessa adibita ad officina. Uscì dalla vettura e girò intorno al cofano per aprirle la portiera, sostando solo un attimo per afferrare la sega elettrica posata nell’angolo.
“Sei pronta, amore?”
Silenzio.

 

POTENZIALITÀ DI UN CUORE

 

        Sul suo cammino Silvia trovò un cuore. Giudicò che le sarebbe potuto tornare utile per uno dei suoi soliti scherzi: avrebbe potuto ingannarlo fingendo di amarlo. Poi lo avrebbe gettato via, come aveva fatto con tutti gli altri che aveva raccolto per la strada. Così fece.
         Poco dopo passò Giuliana. Guardò il cuore con circospezione, gli si avvicinò cautamente, poi, dopo aver osservato il via vai di persone, lo toccò con il mignolo e fuggì lontano, felice e triste allo stesso tempo.
         Fu la volta di Paola. Lei il cuore lo aveva visto da tre isolati prima, e già da allora aveva pensato cosa farne: non rallentò nemmeno il passo, e quando ebbe il cuore ai suoi piedi, risoluta lo scalciò con rabbia e violenza oltre il marciapiede.
         Il cuore rotolò attraverso la strada, e per un pelo non fu investito da un auto.

         Lo raccolse Elena che lo squadrò da tutte le parti. Incapace di raccapezzarsi, dopo un po’ lo gettò a terra, chiedendosi cosa le fosse mai passato per le mani.
        Toccò poi a Veronica. Lei col cuore ci avrebbe giocato. Lo fece rimbalzare, lo lanciò, lo allungò e lo compresse, poi lo scagliò in cielo, stufa anche di quel nuovo giocattolo. Non vedeva l’ora di vederlo spiaccicarsi al suolo.
        Ma passava di lì una bimba minuta, Giorgia, e vide il cuore librarsi nel volo, vide l’Amore che racchiudeva al suo interno. Lo rincorse e lo afferrò prima che cadesse e se lo strinse al petto, coccolandolo. Lo baciò e lo accarezzò. Gli sussurrò dolci canzoni e se ne innamorò... fintanto che il cuore non riprese a battere.

 

 

L’UOMO CHE PARLAVA COL FUOCO

 

         Nemmeno lui sapeva come avesse fatto, ma ormai non se lo chiedeva da tempo: sapeva che il modo migliore per distruggere una magia è scoprirne il trucco, e non voleva che quel suo personale incantesimo svanisse come un bel sogno al risveglio.
         Viveva in un casolare in aperta campagna, isolato da quel lontano agglomerato di case che era pretenzioso chiamare paese, e nella sua lunga vita contadina aveva visto migliaia di cose: le gemme gelate e il silenzio delle due pomeridiane, la morte dei suoi genitori e quella dei suoi figli. Aveva visto nascere e morire i suoi quattro cani, ma un fuoco che parlasse era troppo anche per lui.
         A dire il vero non è che proprio si levasse una voce dalle fiamme nel camino, ma in uno strano modo che neanche lui comprendeva, egli riusciva a decifrare nelle scintille, nella lucentezza della brace, nell’ampiezza e altezza del piccolo falò... un significato, un messaggio lucido e coerente, a volte un intero discorso. Che ci fosse un codice per interpretare le parole del fuoco, che il fuoco seguisse schemi precisi ed una propria grammatica, questo era certo, giacché il vecchio aveva notato il ripetersi di taluni movimenti, qualche esplosione di faville come a punteggiatura, e alla fin fine la ricerca del come e del perché aveva lasciato il posto ad un ignaro e grato divertimento. Il vecchio intavolava lunghe conversazioni con la vampa passionale del caminetto, e la pira rispondeva, dialogava, poneva domande, discorreva del tempo, raccontava barzellette, si stupiva... Gli parlava, in una parola.
         Un giorno il vecchio ricevette la visita della nipote, praticamente una sconosciuta che lo veniva a trovare una volta l’anno chiamandolo “Nonnino mio”. Dovette così abbandonare il camino per intrattenersi con lei, trascorrendo due ore in un’allegra discussione sui ricordi.
         Stranamente, da quel giorno, il fuoco non gli parlò più.
         Ma il vecchio non si arrese. Aveva pur sempre il faggio nel giardino: e nello stormire delle foglie, nelle biforcazioni dei rami, nelle rughe della corteccia... si intellegivano significati, frasi, a volte interi discorsi.

 

 

 

GUERRA

 

         “Luigi, il muro!”
         Riassetto il sacco di sabbia e la barricata è presto riparata. E’ stato il tenente a chiamarmi. Strano, si è ricordato il mio nome.
         Piove ormai da quattro giorni, qui, e il rumore delle granate si confonde con quello dei tuoni. La trincea è piena di fango e noi ci sguazziamo come buoni anatroccoli, senza protestare.
         A chi poi? E per cosa?
         C’è un silenzio tombale in questa buca, anche se siamo in trenta. Il rumore delle mitraglie in prima linea fa ormai da continuo sottofondo, e noi si è imparato a non sentirlo più.
         Così come non sentiamo neanche la voce dei nostri compagni che sono stati feriti e che ora sono fuori della trincea, incapaci di trascinarsi fino a qua.
         Nessuno esce ad aiutarli, sarebbe un suicidio, con le bombe a mano che fischiano in ogni punto.
         Oggi è morto Francesco.
         Era lui quello che mi passava la carta. Come farò ora a scrivere a casa?
         Qui si pensa sempre alla casa e non ci si pensa mai. Non si vuole pensarla.
         La pioggia picchia sul mio elmetto. Poggio la schiena al muro e attendo. Non so cosa, ma fanno tutti così e allora lo faccio anch’io.
         Noi siamo in seconda linea. La radio di quelli in avanscoperta tace ormai da due giorni e qui si teme che presto saremo coinvolti nella battaglia per l’aeroporto.
         E’ un modo di dire. Significa la battaglia in cui si muore, in cui si va in paradiso. O all’inferno, chissà...
         Un fischio riempie il mondo.

         Ci siamo sdraiati a pancia in giù nel ventre della buca, affondando nel fango. Il fischio ci ha superati, ha continuato il suo viaggio, è scemato e si è concluso con un botto devastante. Per questa volta siamo salvi.
         Si è imparato ad accettare la nostra morte come un qualcosa di prossimo, imminente. Chi sarebbe tanto pazzo da credere il contrario?
         Ci siamo rialzati. Mi è entrato del fango nel colletto della camicia e l’ho sentito, gelido, scivolarmi lungo la schiena.
         Non è più nemmeno fastidioso. Ci si fa l’abitudine. Ce la si fa a tutto.
         “SPARARE!”
         Come buoni cagnolini imbracciamo il nostro fucile e ci mettiamo a far fuoco e subito ci ripariamo dietro i sacchi, resi pesantissimi dalla pioggia.
         Forse ho ucciso un uomo.
         Forse ne ho ucciso più di uno.
         Forse non ne ho ucciso nessuno.
         Sicuramente però, ogni volta che sparo, muore un pezzettino di me.
         Un altro fischio. E’ ancora più forte questa volta. Fra poco ci sdraieremo di nuovo nel fango. Quando e se ci rialzeremo, il fango gelido ci scivolerà lungo la schiena.
         Non sarà più nemmeno fastidioso.
         Mi tuffo nella melma paludosa che si è raccolta sul fondo della trincea.

         Il fischio si avvicina, e continua a piovere.

 

 

 

 


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