INEDITI POESIA

EMILIO BIGGI

Non sono un letterato né mi pretendo a tale. Sono un ingegnere agronomo ultrasettantenne, da quarantatre anni in Brasile e a cui sempre é piaciuto, di tanto in tanto scrivere qualcosa. Qualche volta sembra una poesia, qualche volta una prosa. Ho sempre scritto per me, di cose che ho visto o che mi han raccontato e che mi piace ricordare, ma non ho nessuna capacitá di invenzione. L' anno scorso é entrato nella mia vita un computer e mi son rivisto del vecchio materiale, quelle famose cose che chi ha una vita comune mette nel cassetto ed io nella valigia ed ora nel dischetto.

Questo racconto é stato scritto inseguendo ricordi e sogni molto lievi e personali

 

 

Gli stivali di Icaro

 

capitolo 1: ICARO PERDE LE ALI

 

La passione per gli aereoplani mi sembra di averla sempre avuta e mi ricordo che, da Balilla, quando andavamo al "Sabato Fascista", dove ci davano dei fuciletti di legno per insegnarci a crescer guerrieri, io e Nico, gli inseparabili di Via D’Azeglio, ne aproffittavamo per arraffare qualche copia dell’Aquilone, un giornale per bambini che parlava di aviazione e di aereomodelli. Nella mia stanza da giochi, un mezzanino che dava sulla strada e da cui era facile chiamare gli amici a giocare, avevo come tutti i bambini di allora, il seghetto e gli altri aggeggi per il traforo e non fu difficile cominciare a costruire i primi semplici aeromodelli. Divenni balilla e avanguardista, all’Aquilone venne a tener compagnia "L’Ala d’Italia", i primi modellini di tre stecchi e carta velina, incapaci di librarsi per piú di un metro, divennero maestosi alianti di tre metri che volavano per decine di minuti cercando le termiche mentre io aspettavo l’etá per andare a Caserta. A farli volare a quel tempo si andava al Campo delle Caserme, a Santa Maria del Rovere, oggi popoloso rione ma allora vasto terreno dove si giocava a calcio, si correva, si litigava e si lanciavano aereomodelli. Oppure all’Aereoporto Militare di San Giuseppe, quando si volevano voli piú lunghi e sicuri. Avevamo il permesso di entrare e occupare un angoletto, lontano dagli hangar e dalle piste, vicino alla provinciale alberata con platani antichi, sui quali di tanto in tanto un modello finiva il suo volo. A me piacevano gli alianti non tanto perché non avevo i mezzi di comprarmi un motorino a benzina - gioiello che costava come un vero gioiello- ma proprio per quel loro volare maestoso d’uccello sovrano nel vento, quel loro staccarsi dalla mia mano per esser soli lassú e non dipender piú da nessuno se non da se stessi e dal vento. Li progettavo sempre con le ali a gabbiano, un doppio vi dolce che gli dava equilibrio, e avevo trovato per il timone un disegno che era diventato quasi un marchio. Per lanciare l’aliante correvo contro il vento, lo spago forte che lo aggancia il piú lungo possibile, e il "tre metri" saliva cercando il cielo e dando strattoni per chiedere la sua libertá. Quando lo sganciavo era un bianco uccello dalle ali stese in cerca di vento e io mi fermavo ansimante ad ammirarlo, imponente e sicuro, sperando che trovasse un soffio di termica sufficente per farlo star su qualche minuto ma non tanto forte da portarmelo via a schiantarsi nei vigneti delle campagne lá intorno. E quando prendeva una termica e cominciava ad alzarsi, roteando solenne e lento come un falco d’avorio, mi assaliva una emozione assoluta vedendo quella creatura di carta e listelli prender vita da un alito della terra e sognavo di esser lassú a pilotarlo, come leggevo nelle mie riviste che parlavano delle gare e dei primati degli alianti veri e dei loro piloti. Ma la maggior parte delle volte soltanto planava, sostenuto solo dalle sue ali a gabbiano, una planata lunga che lo portava dall’altra parte del campo, dove andavo a prenderlo in bicicletta e lo riportavo tenendolo alto sulla testa, sentendo il vento muoverlo nella mia mano come se avevesse vita e volesse tornare a volare da solo. A quel tempo sognavo solo di volare, volevo essere pilota di caccia, far Caserta quando fosse l’ora. Il Partito aveva riempito il cielo di avventura e di gloria: Agello, De Pinedo, Italo Balbo, la transvolata dei Savoia Marchetti, il trionfo della settima Avenue, i Sorci Verdi sopra il Pan di Zucchero..........la mia strada era tracciata e passava tra nuvole e cirri. Sandro era mio compagno di classe, suo padre era ufficiale pilota di quei CR che vedevamo da lontano, di lá della stesa del campo, davanti ai capannoni, biplani dal muso cattivo che in Spagna avevano aiutato Franco a far la sua guerra. Sandro era di una famiglia di quelle che in Veneto per antica abitudine si chiamavano ancora "de siori", abitavano in una tenuta in campagna, una villa antica, affrescata, con un parco davanti e un podere di viti. Era una famiglia differente dalla mia, cosí borghesina : avevan modi tutti loro, parlavano un dialetto piú educato, sembrava di sentire personaggi di Goldoni, sedevano a tavola in altra maniera, come se sempre fosse un pranzo di cerimonia, le cameriere in grembiulino e cuffia, donna Angela bionda , le sorelle birichine e belle. I figli non chiamavano il padre "Papá" ma per il suo nome, "Titta" e questo per me era uno strano, ma tanto piú amichevole modo di rivolgersi al genitore. E trovavo logico che Titta non avesse bisogno di minacce di cinghiate per farsi ubbidire. Solo diceva "Sandro" o "Donatella" come se fosse Geová parlando a Mosé ed era sufficente per essere inteso e ubbidito. Di tanto in tanto parlava anche con me. Sapeva del mio sogno di esser pilota e diceva che facevo bene a volerlo. Sandro voleva essere medico e, secondo Titta, anche lui faceva bene a volerlo. Un giorno mi chiese, quando gli mostravo la foto di un mio tre metri piccoletto nel cielo: "E volato, hai mai volato?" "Mai volato, capitano" "Allora bisogna provvedere, ragazzo mio!" Un bel giorno Sandro mi disse: " Vieni al campo domenica, dalla parte degli hangar: Titta ti fa fare un voletto" Lo disse cosí, come se non fosse niente. Era nel mezzo della settimana e le notti che mancavano alla domenica le passai quasi in bianco, a sognare. Erano i primi anni del quaranta e era da poco finita la guerra di Spagna, dove quei CR del campo avevano duellato con i RATA dei rossi riempiendo i cieli e le prime pagine della Domenica del Corriere di looping e picchiate. Nei cinema gli Spad di Baracca e i triplani del Barone Rosso si abbattevano l’uno all’altro e volavano in stormi compatti nel the end finale. Ogni tanto il Dopolavoro organizzava un Battesimo dell’Aria e la G.I.L. portava i bambini con la tosse asinina a farsela passare nel cielo. Ma volare come avrei volato io, da solo con il pilota, in un aereo da caccia, questo erano pochi a poterlo fare......e io contavo le ore leggendo ne L’Aquilone storie di voli, storie di piloti. C’erano spesso storie di "primo volo", quell’estasi, quell’incanto. Le persone come formichine, le casette, le stradine.. disegnate su di un mappa lá sotto, lo smarrimento che ti pigliava, il godimento di sentirsi le ali, di sentirsi solo lassú tra le nubi. La domenica trovai Sandro al posto di guardia del campo. Mi aspettava. Lasciai la bicicletta nel recinto dei velocipedi ed entrammo a piedi, conoscevano Sandro. Mi chiese: "E allora, sei pronto??" " Non ho dormito di notte, da quando me l’hai detto!" "É una stupidata, Quando puó Titta mi fa fare un giretto, ma non ci trovo mica molto sugo......ma se tu hai tutta sta passione per gli aereoplani certo ti piacera da matti" Il capitano Titta era in ufficio e aspettammo un poco, tra quei CR 32 assopiti nell’hangar e solo allora mi ricordai che i CR erano monoposti e lo dissi a Sandro "E come fa a portami lá dentro" "Ma non vai su un CR, vai su quello lá!" E mi mostró un Caproncino da istruzione di un rosso sbiadito, biplano, una faccia domestica e buona, il motore a stella magro sul naso, le ali di tela che sembravan quelle di un aereomodello...non era il caccia mortale che io sognavo, Beltrame non gli avrebbe mai dedicato una tavola sulla Domenica del Corriere. Aveva due posti, uno dietro l’altro. Venne il capitano, allacciandosi un caschetto di quelli leggerini, col sottogola "Olá, sei pronto?" "Pronto, signor Battista, e grazie tante per questo invito..." Sventoló la mano e il guanto: "Per caritá...metti questo sulla testa. "Prese dalle mani dell’aviere un casco e un paio di occhiali da volo, grandi, grossi: avevo i calzoni corti e i sandali e con quel casco di cuoio e quegli occhialoni che mal stringevano sulla nuca dovevo sembrare una formica al mare. L’aviere mi mostró come salire su quel deludente aereoplanino: era tutto di tela, sulle ali al posto giusto c’era piastre di alluminio per metterci i piedi senza sfondar tutto." Attento a non bucarmi l’aereoplano" Sandro rincaró: " Guarda dove metti i piedi, pivello!" Affondai nel mio posto e l’aviere mi allacció le grosse cinghie e non vedevo niente, se non il cielo e il bordo lucido del pozzetto, piú sú del mio naso. Avviarono il motore dando un colpo secco all’elica e dopo due tentativi il motore scoppiettó, si fece importante e ruggí. Il pilota lo portó sulla pista e io non vedevo niente, solo il cielo, qualche nuvola e una manica a vento, alla mia destra. Il motore alzó la voce, il Caproncino si avvió barcollando, trepidó, saltelló e d’improvviso tutto fu tanto tranquillo, solo il motore e il vento tra i tiranti. Per la prima volta in vita mia non avevo terra sotto i piedi. Titta inizió una virata, il Caproni si inclinó e riuscii a vedere, ancora vicini, il campo, i filari di platani, le viti, i casolari, gli arativi bruni, incastonati qua e lá nei verdi delle campagne sottostanti. Il biplano si raddrizzo e cominció a salire rapidamente e mentre saliva invano cercavo in me qualche emozione: seduto lá in quel pozzetto, nel puzzo d’olio e di vernici, guardando in su senza veder niente, il seggiolino sotto il sedere e sotto il suo trapuntino solo un traliccio di alluminio e una tela verniciata di coppale a separarmi dal vuoto, facevo forza per emozionarmi come m’avevan detto che ci si emozionava.... ma niente. Seduto lí o da Buosi, in Piazza dei Signori era la stessa cosa: le nuvole erano nuvole di qui o di laggiú e poi eran tanto alte che non ci arrivavamo neanche vicino, per quel poco che avevo visto la campagna era campagna anche vista dall’alto. E che cos´altro avrebbe dovuto sembrare? Non mi sentivo nemmeno un poco un Icaro moderno né un uccello con quel trabiccolo fragoroso a portarmi a spasso lá in cima. Quando il Caproni si inclinó per tornare, fece una virata ben larga e dolce e eravamo molto piú alti e sulla strada, di cui ora vedevo un lunghissimo tratto, qualche auto sembrava ora sí uno scarafaggio, e i ciclisti pulci indaffarate e gli omini, nelle strade tra i campi, formichine, come doveva essere e come avevo letto: mi piacque di piú, ma era molto, molto meno emozionante che leggerlo sui libri o nei racconti dell’ Aquilone. Titta picchió un poco, cabró, scivoló d’ala, tutto con delicatezza, per farmi assaggiare quelle manovre senza spaventarmi, ma non ce n’era bisogno: ero tanto deluso con me stesso che avrebbe potuto fare un giro della morte senza che me ne accorgessi e pensavo, ma allora questo é volare: era come salire una montagna senza far fatica, per veder il panorama la in basso, solo che con puzza d’olio e un tremendo rumore. Atterró, mi slegarono e scesi mettendo cautelosamente i piedi sulle placchette di alluminio. "E allora?" Mi chiese il capitano. "Stupendo, emozionante: la terra sembra un presepio, le persone formichine... ..l’emozione di sentirsi sospeso tra cielo e terra...." "E allora ti é piaciuto! Sono contento. Tra poco avremo un altro cacciatore!" Mi unsero la faccia con qualche goccia d’olio nero dicendo che era il battesimo dell’aria e allo spaccio il capitano ci offerse una gazzosa, di quelle con la pallina di vetro che si usavano allora.. Tornai a casa confuso, pedalando e cambiando marcia distrattamente col mio cambio nuovo solo per far qualcosa. Il viale era ombroso, di tanto in tanto passava una Balilla o una Aprilia, gruppi tornavano dal lavoro in bicicletta e io quasi con le lacrime agli occhi mi chiedevo cosa mai fosse quello, cosa avessi io dentro, che non riuscivo a sentire niente di tutto quel che gli altri dicono e scrivono di sentire al loro primo volo. A casa la mamma e mio fratello erano ansiosi: "Come é andata, come é andata?" Li guardavo stranito, come si guardano i cari da un letto di malato, e ripetevo le stesse, solite cose, che sí era una emozione indicibile, che sí le persone sembrano formichine, che sí ci si sentiva vento e nuvola a veder le cose da lá in cima. Cenai di malumore, dovetti sorbirmi la curiositá di Nico e della banda lá in strada, andai a letto presto e mi sembrava di avere un difetto, una tara, una brutta malattia che nessuno doveva sapere che l’avevo presa. Poco dopo cominció la guerra e presto l’Italia entró nella mischia.

 

 

CAPITOLO 2 : ICARO SPARA ALLE STELLE

 


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