INEDITI POESIA

 

GIORGIO BONGIORNO

 

Giorgio Bongiorno è nato a Cremona nel Novembre 1943. Compie i suoi studi universitari a Pavia come Alunno dell'Almo Collegio Borromeo  e si laurea in Ingegneria al Politecnico di Milano nel 1968. Ha lavorato come manager in alcune delle più note multinazionali del settore ICT  in Italia ed all'estero ed attualmente opera come consulente direzionale nel Management di Impresa.
Comincia a scrivere  giovanissimo su giornali studenteschi e su vari quotidiani. Le prime poesie sono del 1955 . Pubblica nel 1985 "Specchi di Nuvole" , una raccolta di poesie, con l'editore Severgnini di Milano.Il pittore Agostino Bonalumi firma una litografia originale per i primi cento esemplari della pubblicazione
Vive ad Aosta e continua a scrivere ed a completare raccolte di poesie tematiche come "Aliti di vento" (1995)  e "Il caffè delle quattro" (2001).
E' cultore dell'interdisciplinarietà nell'arte e presiede dal 1994 una Associazione Amici dell'Arte che riunisce poeti , scrittori, musicisti, pittori e scultori di varie nazioni con scopi prevalentemente umanitari e di ispirazione reciproca.

 

Querce perenni

(Sembra che non debbano mai cedere al vento ma, un giorno cominciano a cadere dei rami......)

 

Salivo sempre il mattino
All'oratorio
In cima alla collina
Insieme alle ghiandaie fra i lecci
E ai cinghiali sonnolenti
Nascosti nella macchia
Non di rado l'aquila reale
Disegnava volute trasparenti e solenni
Nel cielo
Ancora incerto tra luna e sole
Con il sospiro della montagna
A pochi passi

Pensavo spesso a mia madre
Come fosse lì a
Camminare con me
Lentamente
A pregare il Signore
A cantare la melodia della speranza
A testimoniare la cantilena della fede
E le note eterne e invincibili
Della vita

E la sentivo sempre vicina
Solida
Dolce
Maestosa
Forte
Orgogliosa
Sicura
Nobile
Mai altera
Come una di quelle querce perenni
Battute da
Mille tempeste
Resistere all'urlo
Dell'ultimo vento di
Tramontana

La rivedevo così spesso
Lassù
E chiamarla e sentire la Sua voce
Era come recitare la fiaba
Del sogno
Dolce e prolungato
Del bambino
Cantare la nenia dei versi
Di quel poeta armeno
Che mi pare dicesse
"La madre è come il pane caldo..."

Era come correre ancora
Dietro il muro di sassi sul sentiero del bosco
Fino al poggio delle rose
Raccoglierle
Vellutate e vermiglie
In un mazzo umido
Di rugiada
Grande come l'amore

Era ancora come ansimare bambino
Nella radura
Sotto i rami dell'olmo
I suoi occhi su di me
E quei colori tenui dell'angelo
Dopo la grande paura
Del temporale
D'estate.

 

 

XXV Aprile 1998

(Con degli amici su un prato della montagna di Valtournenche)

 

Ritornano ogni anno
A parlare di quel giorno
A celebrare insieme
La vita della morte

Un uomo guardava la luce
E prima di andarsene
Mi accarezzò piano
E parlò di libertà

Quella di tutti i giorni

Quella dell'aria
Quella dei prati

Quella del sole
Quella dell'amore

Quella dell'anima
Quella dei fiori

E ogni volta che ricordo quella carezza
Così lieve e lontana
Io sento
Intorno
Quel profumo.

 

 

Cavalli in blu

(Riflessioni sulla libertà attorno ad un acquarello di cavalli)

 

Una volta correvano liberi
Nella prateria umida dell'ultima pioggia
Rincorrendo i disegni delle ombre lunghe
Della sera

Quando li vidi qualche anno dopo
Forse gli stessi
Erano tanti
A colorare il recinto
Di mantelli bai

I grandi occhi rivolti oltre la siepe
Gli zoccoli tremanti
Le criniere fulve ammassate
Una sull'altra come la tempesta
Delle onde del mare

Sull'altura davanti a noi
Sono dipinte le immagini blu
Del loro sogno
Fra i cartelloni del progresso
E le piante allineate del frutteto

Cercano gli ultimi raggi di sole
Si alzano superbi
Ed alteri
Cantando la corsa perduta del branco

L'eco insistente del nitrito segna
Il confine della vita
Sul tronco della betulla sola
Testimone del bosco di un tempo

Questa sera sono anch'io come loro
Sento il sapore lontano
Solenne
Della festa
La polvere del campo
L'insidia delle talpe
L'ansimare della corsa
Il ritmo austero e sfrenato
Del galoppo
E rivedo la danza di quando
Ancora
Potevo sognare la libertà.

 

 

Nebbia

(Tra gelo e nebbia corro a Dio sovente... Vittoria Colonna)

 

Cosa resta

Di quell'autunno

Eternamente freddo

Fin dentro i visceri dei filari

Quasi nell' anima

Di alberi solitari

Umido su per le viti spogliate

Ancora disegnate

Sulla  collina

Come l'onda del mare

Con tutta quella schiuma d' argento

Prima della bonaccia

Gocce di rugiada pesanti come  pioggia

Pochi uomini intorno

Paghi della vendemmia

Recente

Qualche animale

Su verso lo steccato del  bosco

E la campagna a fumare

Grande pentola sul fuoco

Del camino

Con barbabietole  mais e castagne

Neanche un filo di vento

Odori forti nel paese

Cucina di tutti

Concentrata nella piazza

Pasta appena scolata

Sugo in attesa insistente

E profumata

Sulla stufa

Vino rosso da bere a garganella

Dopo la giornata

Cancelli chiusi

Le aie ancora piene di arnesi abbandonati

In fretta

Da lavare e da riporre per  il gelo

Dell'inverno

Una gallina indugia beccando le ultime briciole

Con attenzione e puntiglio

Corazzata dal gelo

Un 'orchestra colora la sinfonia della sera

Con tenui note appena sfumate di pianoforte

Si accendono uno dopo l'altro i fuochi

Fumanti

Scoppiettano le sonore riflessioni

Della famiglia

Non c'è la televisione

E' spenta per un momento

E c' è luce come un presepe

La gente si parla

Per poco

Nella tregua

C' è tempo per pregare

La nebbia piano

Fuori diventa buia

Placida

Smisuratamente solenne

Quasi

Di piombo

Segreto della Langa

Soffoca tutti i gridi

Scomposti del giorno

Qualcuno sogna il mare

Di quell'azzurro così irreale

Qui

Oggi

Suona ancora la campana del vespero

Ma quasi

Non si sente più

(Giorgio Bongiorno)

 

 

 


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