INEDITI POESIA

SERGIO FARINA

 

 

 

INCONTRO

 

 Sto passeggiando per la mia città, senza pensieri, con le mani in tasca come se vi si concentrasse tutto il mio mondo. Stasera libertà, più o meno provvisoria. In questa sera tiepida e stellata di agosto, sto dirigendo i miei passi attraverso la gente, o loro stanno portando me? Non lo so, ma ho l’impressione che mi stiano accompagnando verso casa, a dormire finalmente, caldo permettendo, o magari davanti al televisore a vedere una partita di calcio. Ma la strada è ancora lunga, siamo in centro, io abito un po’ in fuori. Non c’è fretta, un passo per volta e ci arrivo. Me la prendo comoda.

E d’un tratto ti vedo. É lei? Ma no, non mi pare. Sì, invece. Ti chiamo, vergognandomi del suono che ha la mia voce nel pronunciare, svilendolo, il tuo nome. Tu, coccolando un gelato, ti volti, ti guardi intorno per vedere chi ti trae dal tuo fantasticare e infine, dopo un istante lungo come l’ultimo minuto di gioco, mi vedi. Tiepidi e consolanti i ricordi ci avvolgono, togliendoci la parola, e a nulla servirà chiedergliela: tocca a noi.
“Ciao”, mi dici. “Ciao”, ti rispondo.
L’imbarazzo si fa palpabile, non sappiamo cosa dire, finché un provvidenziale “Come stai?” mi aiuta a scioglierlo e a sciogliermi.
“É passato tanto tempo”, dici.
“Quasi un anno”.
“Sto bene”.
“Anch’io”.
E intanto ti ripenso seduta di fronte a me sul treno del pomeriggio che da Milano ci riporta a casa, ricordo il tuo visetto da scoiattolo prudente che faceva tenerezza esattamente come questa sera, mentre mi raccontavi un angolo della tua vita dove magari mi sarei potuto fermare un po’. Anche allora non ti vedevo da un pezzo, ti scorsi sulla banchina da lontano e mi avvicinai. Tu, con l’auricolare, ascoltavi musica, e infagottata com’eri in una giacca a vento e una sciarpa, col cappellino, avevi un aspetto tenerissimo, come di un passero che ripiega la testa sotto l’ala per dormire. Ti toccai la spalla, goffo, e ti salutai. Tu potevi contare su un innocente sguardo color nocciola e un visetto da bambina, tutto quel che ci voleva perché ti volessi bene da quando ti conoscevo e perché questo affetto si rinnovasse ogni volta. E incominciammo a chiacchierare di che cosa facevo io e di che cosa facevi tu e se avevamo già pensato al capodanno e le ultime vacanze estive e il teatro e i tuoi cani e il mio cane e la musica e i nostri affetti malati da guarire... Non sarebbero mai più stati come prima. Però ne parlammo a lungo in quel pomeriggio d’autunno sul treno. Tu eri lì, e il resto del mondo, dimenticato, scorreva indifferente ai miei occhi come l’erba bagnata di pioggia fuori dal finestrino. Eri tu l’amica, il sorriso che consola, il numero di telefono che puoi sempre fare quando sei giù. Eri tu la protagonista delle mie canzoni preferite e la dedica all’inizio dei libri. Eri tu la cioccolata calda mentre fuori piove, il vento che ti abbraccia in primavera, la luce ammiccante della stella della sera quando nei tramonti d’estate si respira l’universo dalla finestra di casa, eri tu il giorno di Natale con la neve sugli ombrelli..
E adesso tu sei davanti a me. “Tutto ok?”, mi chiedi.
“Tutto ok. I tuoi cani, sei ancora così premurosa con loro?”.
“Sempre”.
“Mi piacerebbe che ti facessi sentire”.
“Forse ho ancora il tuo numero. Prima o poi ti chiamo”.
“Ne sarei felice”. Davvero.
“Allora ciao”, dici.
“Ciao”, ti rispondo, e faccio per accarezzarti il viso. Tu, dolcissima, mi baci sulla guancia e sorridi. Ti volti e ti incammini, e io fingo di andarmene ma resto ancora un po’ a guardarti andare via: sei così bella.

 

 


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