INEDITI POESIA

SERGIO FARINA

 

Sono nato il 15 Agosto del 1973. Ho cominciato a leggere molto presto, tanto che già in prima elementare tenevo tra le mani le mie prime copie di Topolino. Per tutti gli anni della scuola dell'obbligo ho letto anche libri per ragazzi di tutti i generi, azzardando anche qualche cosa di più "adulto". Al liceo mi sono appassionato ai classici di ogni epoca e di ogni paese, da Boccaccio a Rabelais, da Manzoni a Dickens, fino agli autori di oggi. A causa della mia passione per la lettura, finisco sempre per avere un po' la testa tra le nuvole... Quanto allo scrivere, ho cominciato da adolescente, scopiazzando e mischiando film e libri che mi piacevano, fino ad aver scritto (era ora!) qualcosa che potessi chiamare "mio"... e quello che leggete in questo sito è il risultato. Grazie per la visita!

 

“FACCIAMO CASINO, DOC!”

 

Federica, per me Chicca, mi svegliò con un bacio sulla guancia. Io sentii i suoi capelli profumati di shampoo alla mela accarezzarmi e mi girai verso di lei.
“Sveglia, dormiglione”, sorrise, “oggi è il gran giorno”.
“Hai ragione, Chicca”, risposi assonnato come ogni sabato.
Mi alzai scotendo la testa e mi stiracchiai, mentre Federica alzava le tapparelle e, stiracchiandosi, si lasciava ferire gli occhi dal gran sole che stava sorgendo. Il suo pigiama azzurrino dal motivo a disegni indefinibili le dava un’aria buffa e infantile, ma i capelli biondi e ricci ancora spettinati curiosamente smentivano questa impressione.
“Vestiti”, le dissi, “preparo io la colazione”.
“Già che ci sei, dai tu da mangiare al cane?”.
“Sì”.
Scesi di sotto e ricevetti i saluti di Musone, il nostro gigantesco alano. Il nome era stato scelto da Chicca: diceva che le ricordava un personaggio minore di Walt Disney che si chiamava così. Musone era una bestia di dimensioni fuori del comune, e anche piuttosto cattivello, ma bastava un niente per ridurlo all’ordine: se un qualsiasi ladro avesse mantenuto il sangue freddo necessario a intimargli “a cuccia!”, lui si sarebbe disciplinatamente accucciato sotto il più vicino termosifone. Il difficile era appunto non cedere alla tentazione di filarsela a gambe levate davanti a sessantacinque chili di cane ringhiante. Era un po’ la sua arma segreta.
Assecondai le feste di Musone, poi preparai la colazione per me e Chicca. Il caffè aveva appena incominciato a bollire quando lei scese. Aveva indossato pantaloni arancione a metà polpaccio e una maglia giallo limone a maniche corte, piuttosto scollata. I capelli erano legati dietro la nuca, ma un vezzoso ciuffo le scendeva sopra l’occhio sinistro. Non era truccata, ma sapevo che Chicca struccata era più bella. Ai piedi portava le sue scarpe da tennis bianche, quelle da cui non si separava mai dalla primavera fino a settembre. Quando la vidi scendere la scala a chiocciola della cucina, non fui colto impreparato e scattai la prima delle molte foto che in quel weekend ci attendevano. “Scemo”, disse lei con tenerezza.

Tutto era cominciato un venerdì sera piovoso di due mesi e mezzo prima. Chicca era rimasta al computer fino a tardi, quando io ero rientrato dall’Istituto di Medicina Legale. Avevo posato la borsa e l’avevo trovata che stava finendo un lavoro.
“Ciao, Doc”, mi aveva detto voltandosi verso di me, “tutto OK nell’anticamera dell’oltretomba?”. Era il suo modo di chiedermi del lavoro
“Tutto OK. Ne hai per molto?”.
“No, ho quasi finito, davvero. Ci sono le pizze in forno, scaldale e comincia pure senza di me, sarai stanco. Io ne ho ancora per qualche minuto”. Ridacchiando aggiunse “se mi lasci qualcosa ti faccio compagnia”.
Stetti al gioco. “Se vuoi mangiare devi muoverti, o ti faccio trovare solo i piatti da lavare”, le risposi con una risata a mia volta, poi corsi ad accendere il forno.

Dopo dieci minuti eravamo seduti al tavolo della cucina, con Musone che si rivolgeva implorante ora all’uno ora all’altra, e ci stavamo raccontando la nostra giornata. Essere marito di una scrittrice di racconti rosa per una rivista per me era difficile come per lei essere moglie di un medico legale non ancora specializzato, ma sopportavamo piuttosto bene gli orari impossibili che reciprocamente ci infliggevamo. Chicca era una donna straordinaria, anche se spesso se ne usciva con idee che definire balzane era un complimento: così fece anche quella sera.

“Sai”, mi disse davanti alla pizza vegetariana, “mi piacerebbe farmi fotografare nuda”.
“Sei invidiosa degli scrittori celebri che vanno sui giornali scandalistici?”, le chiesi io a mia volta da sopra la pizza al prosciutto. Non mancai di farle notare una punta di ironia.
“No, non questo”, precisò, “pensavo piuttosto che potresti fotografarmi tu, così, tanto per fare qualcosa di diverso dal solito, per giocare un po’ alla modella”. Chicca si divertiva un mondo a sconcertarmi. “Dai, Doc, accontentami!”, mi chiese prendendomi delicatamente la mano sopra il tavolo. Io ormai ero abituato alle sue dolci stramberie, e d’altra parte dirle di no non era mai stato il mio forte.
“Va bene”, dissi, “c’è il rullino nella macchina fotografica?”.
“Ma io non dicevo di fotografarmi adesso. Vorrei che le foto fossero fatte per bene, come Dio comanda. Mi piacerebbe che le facessimo, che ne so, in un prato, o in montagna, in un bel giorno di sole, o al tramonto in riva al fiume, insomma, cose così, tipo calendario. Se le facessimo in casa sarebbero poco più che foto porno, e non mi va”.
Il ragionamento non faceva una piega: Chicca non era particolarmente femminista, ma ovviamente detestava che le donne fossero considerate oggetti di piacere, e io ero perfettamente d’accordo con lei. Poco importava che lei avesse trattato a volte me come un oggetto di piacere, per lo più al liceo, quando ci conoscevamo poco ed eravamo poco più che adolescenti. Questo, all’epoca, ci aveva fatto litigare furiosamente, ma da sposati quegli “sgarbi del cuore” (per usare il titolo del più rosa dei racconti di Chicca) erano ormai caduti in prescrizione per reciproco, tacito accordo. O, molto più semplicemente, tra noi non se n’era più parlato e tanti saluti. L’unica cosa che era rimasta in lei di quegli anni era la passione per innocue stravaganze: adesso, per esempio, era la volta delle fotografie senza veli.
“Qualche domenica ce ne andiamo in un posto un po’ romantico, io mi spoglio e tu mi fotografi, OK? Però sarà meglio aspettare la bella stagione, mica vorrai che mi metta nuda in un prato a febbraio, no? Dai, non fare quella faccia”, mi disse Chicca mentre io non facevo nessuna faccia, “vedrai che ci divertiamo”.
“Va bene”, dissi infine, “a primavera ne riparliamo”.
“Così mi piaci, Doc!”, esclamò tutta contenta, “ti va se facciamo un po’ di casino, stasera?”.
“Fare casino”, per Chicca voleva dire far l’amore. Anche a questo non sapevo dire di no.

Per i due mesi e mezzo successivi Chicca aveva di tanto in tanto rilanciato la sua proposta con impazienza, e io l’avevo puntualmente assicurata che l’avrei esaudita, finché, dopo gli acquazzoni d’aprile, si era ormai alle porte del primo maggio con un bel sole caldo e un meteo dalle prospettive più che rosee per tutto il ponte. Avevamo deciso di farci una vacanza di quattro giorni in Toscana, in un posto che avevo conosciuto alcuni anni prima, sperduto dalle parti del Mugello. Lì Chicca avrebbe potuto soddisfare i suoi desideri da modella. Era stata lei stessa ad informarsi sulla disponibilità di un appartamento e a fissare la data, mentre io mi ero occupato di racimolare la mia attrezzatura di montagna dagli armadi di casa. Avremmo lasciato Musone a mio fratello, che abitava poco distante da noi e che per il ponte rimaneva a casa.
Quella mattina eravamo dunque sul piede di partenza. Caricammo i nostri bagagli sulla Renault Quattro d’epoca che per quel viaggio sembrava fatta apposta e portammo Musone da mio fratello, che se ne sarebbe occupato mentre eravamo via.
Partimmo verso le nove. Chicca, evidentemente provata per la levataccia, si addormentò appena prima dell’autostrada, lasciandomi solo con i miei pensieri in libera uscita e con Jackson Browne nell’autoradio che viaggiava in riserva (cavoli tuoi, Jack, pensavo compiaciuto), mentre la Re4 si comportava egregiamente, nonostante i ventuno anni d’età, i lunghi periodi d’inattività e la mole di chilometri che stava affrontando. Il tempo era meraviglioso, traffico quasi non ce n’era nonostante il ponte, tutto era bellissimo. Una brezza leggera entrava dai finestrini abbassati a mitigare il caldo. Solo verso Modena Chicca si svegliò, giusto in tempo per chiedermi se avessimo già passato Maranello.
“Vuoi vedere il museo della Ferrari? Possiamo fare una sosta”, proposi io.
“No, Doc, non è il caso, però apprezzo il pensiero”.
Io, come testimoniava la Re4, ero sempre stato tifoso Renault dai tempi di Prost e Arnoux. Chicca, invece, era dichiaratamente ferrarista.

Facemmo sosta verso mezzogiorno per mangiare in un ristorante a Borgo San Lorenzo, ormai in vista della meta: avremmo potuto aspettare di essere arrivati e cucinarci qualcosa, ma quel giorno volevamo trattarci bene. Davanti ad un piatto di ravioli ai funghi, Chicca se ne uscì con un’altra delle sue (o così mi parve allora): “Ti piacerebbe avere un figlio, Doc?”.
“Dipende”, dissi io spiazzato, “perché?”.
“Così”.
Ci pensai un momento. Io avevo trentadue anni, Chicca ventisette, eravamo sposati da due: niente ci avrebbe impedito di cercare una maternità. Fino allora di casino, secondo il vocabolario di Chicca, ne avevamo combinato parecchio, ma mai con la seria intenzione di procreare, né col terrore del pancione. Semplicemente, non ne avevamo mai parlato. Io, poi, nemmeno ci avevo mai pensato. Mi chiesi se Chicca me ne facesse una colpa. Ai tempi dell’università, frequentando i corsi di ginecologia e pediatria, ero giunto alla conclusione che avere un figlio implica un cambiamento radicale della propria vita. Chicca era una moglie deliziosa e responsabile, io l’adoravo. Ma per diventare genitori avremmo dovuto maturare molto entrambi, e non ero sicuro di volerlo, così come non doveva essere sicura di volerlo lei.
“Sai,”, le dissi allora, “io credo che la decisione finale su questo argomento spetti a te. Sei tu che dovresti portarti appresso la pancia per nove mesi. Io potrei solo starti vicino e non farti mancare niente, ma mi sembra un po’ poco per avere l’ultima parola”.
“Te lo chiedevo appunto perché a me piacerebbe avere un figlio. Prima o poi parliamone seriamente, ti va?”.
“D’accordo”, promisi, “ne parleremo seriamente”.

Dopo un momento di silenzio tra noi, ricominciammo a chiacchierare della nostra vacanza.
Chicca mi diede il cambio, e fu lei a guidare per l’ultimo tratto. Arrivati in cima al passo, c’erano quattro case che costituivano il paese, e di queste una era stata riservata a noi dall’agenzia di viaggi, un appartamento molto carino al primo piano di un vecchio cortile. Passammo il pomeriggio in città a fare un po’ di spesa, poi Chicca si fece una doccia mentre io preparavo la cena.
Ebbi un’idea: presi la macchina fotografica dal mio zaino, mi avvicinai quatto alla porta del bagno, poi la chiamai. Il suo “Sì?” e il flash furono simultanei, e io fissai su pellicola l’espressione sorpresa di mia moglie, avvolta in un asciugamano da cui facevano capolino i suoi piccoli seni e le sue gambe magre.
“Ma dico!…”, rise, tirandomi una spugna mentre me la filavo.

Il giorno dopo, domenica, ci svegliammo presto perché volevamo fare una bella escursione con tanto di picnic. Chicca preparò i panini, cosa che sapeva fare eccezionalmente bene, mentre io mi occupavo di mettere nello zaino tutto il necessario che non fosse commestibile, come una cartina della zona, un binocolo (eravamo nel Mugello, c’era sempre la possibilità di incontrare qualche animale), e la macchina fotografica, nel caso che Chicca avesse trovato il posto migliore per posare come diceva lei. Per tutta la mattina camminammo su un sentiero che apparentemente non portava da nessuna parte, e che invece finì per portarci in cima ad una montagna, dove mangiammo quasi all’una. C’era molto vento, e col sole di fine aprile c’era da restare scottati. Noi, fortunatamente, eravamo stati previdenti, e ci eravamo spalmati di crema solare, peraltro facendoci il solletico a vicenda e spassandocela un mondo. Nonostante ciò, già dopo mezza giornata eravamo rossi. Proposi perciò a Chicca di tornare attraverso il bosco, dove sicuramente avremmo trovato un po’ di frescura. Scendendo attraverso le pendici della montagna, tra i castagni trovammo un torrente, e Chicca decise che valeva la pena tentare: “Fuori la macchina fotografica, Doc”, intimò scherzosa.
“Qui?”, le chiesi, “In riva al torrente?”.
“Sì”, rispose lei con entusiasmo, “è un posto troppo bello! Aspetta che mi spoglio”, ed eseguì. Io cominciai a farle un po’ di foto già in questa fase; quando poi fu nuda, Chicca si divertì a giocare un po’ alla modella sexy. Io stetti al gioco mentre lei si “atteggiava” ridendo di gusto.
Andò avanti per un po’, poi anche lei si stancò di giocare. “Quante me ne hai fatte?”, chiese. Io controllai il contatore della macchina. “Quindici, comprese quelle di ieri”.
“Come sono venute?”.
“Benissimo”, le dissi, “perché sei bellissima”. E lo pensavo davvero.
“Come sei carino, Doc, era proprio quello che volevo sentirmi dire”. Chicca mi abbracciò e andò a riprendersi i suoi vestiti. Io colsi l’occasione per fotografarla ancora un po’ mentre si rivestiva, tanto per finire il rullino, poi ci muovemmo per tornare a casa.

A casa cenammo poco perché eravamo molto stanchi entrambi, e Chicca andò dormire quasi subito, giusto il tempo di fumarci una sigaretta insieme. Io rimasi un momento sul balcone a guardare le stelle, favorito dal buio della valle. Dopo un po’, sentii alle mie spalle lo scalpiccio dei piedi scalzi di Chicca. Mi voltai e la vidi arrivare sul balcone in pigiama.
“Ciao”, disse, “come va?”.
“Bene”, le risposi abbracciandola, “Non eri andata a dormire?”.
“Ho pensato di venire a farti compagnia. È così bello, qui…”.
Rimanemmo in silenzio e io mi gustai per l’ennesima volta il profumo agrodolce di shampoo nei suoi capelli.
“Doc, tu credi che sarei una buona madre?”.
“Io credo di sì, ma ti costerebbe parecchio”.
“Lo credo anch’io”. Mi diede un bacio sulla guancia. “’Notte”.
“’Notte”.
Chicca andò in camera. Quando la raggiunsi, qualche minuto dopo, dormiva già profondamente.

Restammo ancora un giorno nel Mugello e facemmo ancora una gita. Chicca avrebbe voluto vedere un cervo, ma dovetti deluderla spiegandole che non c’erano cervi in quella zona. Lei disse che le sarebbe andato bene anche un muflone o un cinghiale, e in questo fu fortunata: su alcune rocce scoscese vedemmo proprio due mufloni che saltellavano agilmente. “Che belli!”, disse Chicca. Quanto ai cinghiali, ne vedemmo solo le impronte e sentimmo che dietro un cespuglio ce ne doveva essere una cucciolata. Silenziosamente ce ne allontanammo, temendo che la madre dei piccoli non gradisse la nostra visita di cortesia. Tornammo a casa tardi, stanchi morti e arrossati dal sole, ma eravamo contenti. Saremmo tornati a Milano l’indomani, e perciò cominciammo la sera stessa a racimolare il nostro bagaglio, compresa la spesa in esubero che Chicca, fin troppo previdente, aveva comprato due giorni prima.
E quella sera facemmo anche un po’ di casino.

La mattina di martedì primo maggio mi svegliai per primo ma non mi alzai subito. Era ancora molto presto non dico per partire, ma anche solo per fare colazione, e solo in quel momento il sole faceva capolino dalle persiane chiuse. Chicca dormiva serenamente.
Decisi di fare colazione da solo e lasciarla dormire e andai in cucina. Ma al mio primo accenno di rumore lei entrò in cucina a sua volta, ancora piena di sonno. “Ne abbiamo fatto di casino ieri sera, eh, Doc?”, mi salutò stiracchiandosi e sbadigliando.
“Ciao”, dissi, “già sveglia? Eppure abbiamo tirato tardi”.
“Hai ragione, a far casino il tempo vola. Mi sono proprio divertita questo weekend. Mi sa che ti costringerò a tornarci, qui”.
“Sei troppo carina per dirti di no”. L’abbracciai: sarà stata stramba, ma era un tesoro. Lei ricambiò il mio abbraccio.
“Ti voglio bene, Doc”, disse.

La settimana dopo, Chicca scoprì di essere incinta.

Non ebbi mai modo di sapere se Chicca sarebbe stata una buona madre, certo è che le nostre previsioni andarono a segno. Quella gravidanza le costò, infatti, moltissimo: Chicca morì durante il parto, a causa di un aneurisma cerebrale di cui nessuno si era mai accorto. Come medico legale, avrei saputo intentare causa a chi di dovere, ed ero sicuro di vincerla, ma non m’importava nulla: niente valeva per me come mia moglie, e non c’era causa vinta che me l’avrebbe restituita. Mio figlio nacque ugualmente e adesso è un bel bambino sano, che somiglia tutto alla mamma che non ha conosciuto. Forse, anzi sicuramente, un giorno gliene racconterò. Adesso come adesso, posso solo riguardare ogni tanto le foto che scattai in quel weekend: non tanto quelle “nude”, quanto l’ultima. Chicca sorride maliziosa in primissimo piano, ed è come se la sentissi ancora dirmi: “Facciamo casino stasera, Doc?”.

 

UN ALTRO RACCONTO: INCONTRO

 


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