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CONTUS DE FORREDDA
DAL PENNINO
AL COMPUTER
attraverso i ricordi
(DI RINGO)
I
E' difficile, oggi, scrivendo questo articolo al computer,
ripercorrere con la memoria, ritornando indietro nel tempo, tutti
gli anni trascorsi dalla nostra infanzia sino ad oggi.
Premendo sulla tastiera per scrivere, non posso fare a meno di
ritornare indietro di circa trentacinque anni, quando timidamente
in prima elementare ci avvicinammo al favoloso mondo della
scrittura. Già, in prima elementare , perché allora si
incominciava a scrivere a scuola e non alle scuole materne come
succede oggi.
All'asilo, in quei tempi , ricordo che non si andava molto
volentieri, e su questo penso che non sia cambiato molto neanche
ai giorni nostri. Chi ha pressappoco la mia età, ricorderà
quante lacrime siano state versate ogni qualvolta si era
costretti ad indossare il grembiulino; al quale ci ribellavamo
con tutte le nostre forze. Indossare quel grembiule era quasi
come entrare in un'armatura, che ci faceva sentire pressoché in
obbligo di limitare i nostri movimenti all'essenziale.
Quella "vestizione" era per noi una vera e propria
limitazione di libertà! Altro aspetto negativo di quel capo di
abbigliamento era il sentirsi vestiti come femminucce, sminuendo
alquanto il nostro status di maschi dominanti!
La ciliegina sulla torta era costituita dal fioccone intorno al
collo a mo' di uovo di pasqua; si l'uovo di pasqua esisteva anche
in quei tempi , anzi allora pensavo che esistesse prima della
gallina.
Finita la " vestizione " ci veniva consegnata la
borsetta con i viveri ( era fatta in cartone e somigliava tanto a
quella che oggi viene usata dalle signore come custodia dei
materiali per i " restauri facciali ": il beauty-case).
La borsetta in questione conteneva la razione " K "
ovvero lo stretto necessario per la sopravvivenza giornaliera.
Allora, dentro la borsetta, era molto probabile trovare il pezzo
di formaggio pecorino o un trancio de sammin'e proccu.
Erano quasi totalmente assenti tutte le lecornie dolciarie di cui
fanno uso e abuso i bambini di oggi.
I pochi ricordi-reperto-lecorniosi che ho dell'epoca, ma
forse sono da riferirsi al periodo delle elementari, sono il
mitico formaggino ed il famoso gianduiotto (cioccolato
triangolare n.d.r.) Con le prime figurine di lupetto & C.
Ma nonostante l'alimentazione primordiale crescemmo abbastanza
sani. Forse fu anche merito dei vaccini e delle più svariate
punture che trafissero i nostri glutei , che penso siano nel
ricordo di tutti; non tanto per gli effetti terapeutici ma per le
urla disumane che la mano del Dottore, tutt'altro che leggera,
premuta sulla siringa, riusciva a farci produrre.
La scrittura, in quel periodo, era per noi arabo, nel senso che
tutti i geroglifici che riuscivamo a produrre con qualche pezzo
di teullacciu avevano un significato cosi' misterioso che neanche
noi riuscivamo a capire.
Era il periodo in cui facevano la prima apparizione le matite, e
possederne una era già un lusso. Per risalire ai primi approcci
con la scrittura bisogna far riferimento alla prima elementare.
Solita vestizione con grembiule e fiocco rosa. Beati quelli della
seconda che avevano il fiocco celeste, non eravamo forse noi,
maschietti come loro?
E che significato potevano avere i colori dei fiocchi delle altre
classi?
Il giallo della terza , il rosso della quarta, il blu della
quinta: mistero.
Comparve il primo quaderno, che non era come quelli di oggi,
tutti colorati e con su disegnati i più famosi personaggi dei
fumetti e dei cartoni animati. Il quaderno, allora, aveva la
copertina nera che faceva venire tristezza solo a guardarlo.
Ma noi ben lungi dal farci scoraggiare da questo particolare lo
aprimmo con entusiasmo pensando: finalmente incominciamo a
scrivere anche noi. Ed in quel momento avemmo, forse, la nostra
più grande delusione, perché la signorina Maestra, dalla sua
altezzosità (Sopra la pedana della cattedra ci sembrava ancora
più imponente), ci indicò quello che dovevamo scrivere sul
quaderno, che non erano altro che dei trattini disposti
verticalmente sulle righe, uno dietro l'altro, per tutta la
pagina. Questi segni vennero chiamati aste. Ancora oggi ho il
vivo ricordo delle quantità industriali di aste prodotte tra la
prima e la seconda elementare: tanti di quei fogli che avrebbero
sicuramente ricoperto la piazza rossa di Mosca. Nulla da stupirsi
quindi se molto spesso venivano scaricate camionate di quaderni.
Ogni quaderno completamente stipato di aste fatte a scuola e a
casa, diventava cosi spesso, a causa delle orecchie, che sembrava
un vocabolario. Nulla a che vedere con lo spessore culturale.
Finalmente cominciammo a fare conoscenza con la A di aratro, la B
di bue, la I di imbuto e la Q di quadro: l'ABCD.
Impresa dura ricordare a memoria tutte quelle lettere in sequenza
una dietro l'altra, ma riuscimmo a fare anche quello,
probabilmente stimolati dai disegnini posti accanto alle grandi
lettere.
Le novità più grosse comparvero in terza: il quaderno con le
righe più strette e la penna!
La penna era costituita da un'impugnatura claviforme in plastica
con inserito all'estremità il pennino. Fortemente appuntito, il
pennino, era quasi un'arma bianca. Quella penna veniva
normalmente usata per : 1- punzecchiare i compagni, 2- arma di
battaglia tra su ighinau de susu e su ighinau de giossu
,(se bagnata nell'inchiostro diventava una freccia avvelenata),
3-tiro a segno su bersaglio costituito da quaderno, 4- per
scrivere.
La penna come già accennato, per scrivere, bisognava bagnarla
nell'inchiostro che era contenuto nel calamaio, incassato nel
banco di scuola.
Ovviamente gran parte del succitato inchiostro finiva
puntualmente nelle nostre facce, in quantità tale, che al nostro
arrivo a casa era inevitabile essere scambiati per i primi vu'
cumprà. Il pennino dal canto suo, aveva vita molto breve, in
quanto usandolo per gli scopi sopra descritti, si apriva la
punta, la scrittura veniva doppia, e provocava la foratura sul
foglio del quaderno.
Altro esempio di scrittura nuovo per noi era quello con i
gessetti sulla lavagna, con rispettivo strofinaccio per
cancellare, che puntualmente ci tiravamo in faccia l'uno con
l'altro.
A quelle azioni di guerriglia di interclasse, corrispondevano
altrettante non meno dure bacchettate da parte della maestra, che
usava bacchette in robustissimo olivastro stagionato e nodoso. Le
bacchette in oggetto venivano fornite da sedicenti gruppi di
bravi ragazzi che inesorabilmente, quasi come un castigo di Dio,
erano poi i primi ad avere l'onore di inaugurare il sadico
strumento punitivo.
Ovviamente in ogni classe esisteva un folto gruppo di guastatori,
che aveva il compito di distruggere le attrezzature belliche del
nemico: le bacchette. Ma l'approvvigionamento delle armi al
nemico non tardava a riprendere, per cui era una lotta continua.
L'avvento della penna a sfera (Merito del signor Bic) fu un
evento abbastanza importante poiché portò praticamente al
disarmo; togliendo dalla circolazione le penne con il pennino.
Fu cosi' che passammo a sistemi di guerriglia più sofisticati
quali su tirallasticu e altre diavolerie. Con l'uso della penna a
sfera ci fu comunque facilitata la vita, rendendo più rapida la
scrittura e di conseguenza abbreviando i tempi di svolgimento dei
compiti, cosa molto importante per noi, poiché ci lasciva più
tempo per poter scappare al fiume a nuotare o andare a giocare a
tà ( battaglia tra squadre rivali nella quale si usava la mano a
mò di pistola).
Un altro grosso grattacapo per noi poveri scolari era costituito
dai calcoli, non renali o biliari, ma matematici o meglio,
aritmetici.Inizialmente usammo le dita delle mani. Appurato che
avevamo dieci dita a disposizione, ci furono di grande aiuto, ma
se la somma da calcolare superava la prima decina, cominciavano i
problemi. Fortunatamente la tecnologia ci venne in aiuto
fornendoci il padre di tutti i calcolatori: il pallottoliere. Con
questo strumento, costituito da palline forate che scorrevano su
un'asta metallica, fu per noi molto più facile eseguire i
calcoli, ma a renderci la vita difficile restavano comunque i
decimali ( brutta bestia per noi scolari). Pensammo anche di
tagliare in due le palline, ma non reputammo troppo conveniente
la cosa in quanto, non solo la bacchetta era sempre li in bella
mostra, ma cominciavano a volare anche i primi scappellotti (ciaffusu),
talmente sonori e potenti da rischiare di farci perdere i denti e
passare quindi, di conseguenza, il resto dei nostri giorni a
brodino; salvo farsi applicare una protesi dentaria che a
quell'età avrebbe stonato moltissimo.
Ovviamente in quel periodo il telefono azzurro non era stato
ancora attivato, quindi fu cosi' che nacque il motto: prevenire
è meglio che curare.
Dal canto loro i maestri applicavano già da allora lo slogan :
paghi due prendi quattro, (sempre in riferimento agli
scappellotti).
A questo punto dell'articolo, mi rendo conto di essermi dilungato
un po' troppo, ma vista la complessità dell'argomento mi
ripropongo di continuare sul prossimo numero, sperando che quanto
ho scritto vi abbia almeno fatto sorridere un po' e sia servito
agli scolari per affrontare con meno drammi la scuola. Spero
anche di aver stimolato i lettori a cimentarsi nella stesura di
qualche articoletto.
II
Per i lettori che hanno letto la prima parte, non sarà difficile
riagganciarsi, e seguire il proseguo che mi accingo a scrivere.
Per chi ha avuto la fortuna di non leggerlo, basti dire che si è
trattato di una rievocazione degli episodi salienti che hanno
visto tutte le peripezie degli scolari; prima alle prese con il
famigerato pennino, dopo con l'uso della penna a sfera.
Siamo ancora nel periodo paleo-elementare, in cui l'avvento della
penna a sfera, corrispose, più o meno al passaggio dall'età
della pietra all'età del bronzo, e noi sardi questo passaggio
l'abbiamo sentito in maniera particolare, diventando ancora più
duri!
L' uso della penna a sfera, come già detto in precedenza,
agevolò non poco il compito di noi scolari; velocizzando la
scrittura e cominciando a farci uscire da quello che era lo
stereotipo della scrittura elementare: se vogliamo un po' naif.
Cominciammo infatti a concederci il lusso di una scrittura più
personalizzata, che per noi poveri illusi, erano i primi sentori
di maturità: "stiamo finalmente scrivendo come i grandi
" ci dicemmo.
Cosa invece per noi molto strana, era che i maestri non
sembravano gradire molto questo cambiamento così repentino, che
creò loro parecchi problemi per capire i nostri scritti; i quali
sembravano messaggi cifrati, degni del KGB nel periodo d'oro del
controspionaggio!
Allora non immaginavamo certo, che prima o poi nella vita quel
modo di scrivere ci sarebbe tornato utile; non certo per fare
bella mostra di calligrafia, ma per poter capire il sistema di
scrittura che usano ancora oggi Medici e Farmacisti!
Certo, allora, non sapevamo apprezzare appieno le qualità della
penna a sfera, ne potevamo prevederne la sua longevità; talvolta
il compito primario della penna, che era quello dello scrivere,
passava in secondo piano, per trasformare il suo uso in arma di
battaglia: diventava una cerbottana. Estraendo il contenitore
dell'inchiostro, l'involucro della penna veniva caricato con
palline di carta calibro 7,65 e soffiandoci dentro, produceva un
effetto dirompente!
Come accennato nella prima parte tutti questi raid armati
provocavano l'ira del nemico ( Il Maestro), che privo di fantasia
e ostico nel recepire il progresso bellico, reagiva come semre a
suon di ceffoni, facendoci ritirare nelle nostre linee
trasportando i relativi feriti!
L'apprendimento della scrittura corretta, era correlata alla
capacità di ricezione sotto dettatura. Il nostro problema più
grosso in questo senso, era costituito dalle doppie: esse non
avevano per noi una valenza fissa, potevano esserci se a dettare
era il maestro di Sestu, potevano non esserci se a dettare era la
maestra di Nuoro. Dal canto nostro, quando avevamo dubbi, le
doppie le mettevamo comunque, a conferma della nostra sardità.
Dal versante dei calcoli, le cose non andavano certo meglio; i
grattacapi con le quattro operazioni erano pane quotidiano:
abbordabili quando si trattava di addizioni o sottrazioni, da
crisi quando si aveva a che fare con moltiplicazioni o peggio
divisioni. Immancabilmente avevamo a che fare con l'oste talmente
impegnato in su zilleri nella mescita di quartini di
vino che, poveretto, non aveva mai il tempo di farsi i conti:
fatto stà che la contabilità di questi signori era sempre
demandata a noi! Finché il cliente si limitava a consumare pochi
quartini e se li pagava di tasca, poco male; ma se ziu Franciscu,
ne beveva cinque e ne pagava sette ( due di ziu Chiccu ); ziu
Giuanni due normali e due bianchi con gazzosa, e pagava con i
soldi interi sei quartini ( due di ieri ); ziu Peppi ne beveva
due rossi e mezzo bianco (a ghepidu); Giannitteddu (figlio di ziu
chiccu) beveva una gazzosa versando solo un acconto: allora erano
guai! Alla fine la famigerata triplice domanda: Sapendo che un
quartino di vino rosso costa 85 lire; il bianco il 20% in meno;
la gazzosa 20 lire; quanto vino hanno consumato gli avventori?
Quanto, e a chi, l'oste deve restituire di resto? E infine (
classica ), quanto guadagna l'oste?
Certo, allora, ci avrebbe fatto comodo la calcolatrice, ma in
quel periodo le uniche calcolatrici in circolazione ( che
pesavano svariate decine di chili, e sembravano macchine per fare
i ravioli ), le usavano solo pochi commercianti ( il nostro oste
escluso).
Dalle soluzioni dei nostri problemi, scaturiva: l'oste che dopo
aver venduto pochi litri di vino, con l'incasso fatto, poteva
benissimo farsi le ferie alle Hawai e quotare la sua azienda in
borsa; oppure l'oste che avrebbe guadagnato di più se il vino
l'avesse bevuto lui! Più avanti dopo le rimostranze della
categoria dei mescitori fu steso un velo pietoso sul nostro
lavoro di commercialisti, e passammo a rovinare altre categorie.
Ovviamente alla base di tutti i nostri calcoli, c'erano le famose
tabelline che imparammo a memoria, dopo lunghe notti trascorse
davanti al caminetto a leggerle e ripeterle. Ogni tanto tra la
tabellina del sei e quella del sette ci scappava una pennichella
con rispettivo sogno. Sovente si sognava il maestro con un bel
paio di floride orecchie d'asino, che, alla richiesta di ripetere
la tabellina dell'uno, puntualmente si inceppava, e allora
riceveva tante di quelle legnate in mezzo alle orecchie, da
fargli implorare pietà! (Voto dato al Maestro zero spaccato!) ma
il sogno era troppo bello per durare a lungo. Una deflagrazione,
che poteva far pensare a un attentato dei "M.A.C.U.S."
( Movimento Armato Chiusura Ufficiale Scuola); era invece,
causata da una castagna malli pizzullada, che messa sotto la
cenere ad arrostire (esplodendo come una mina anticarro), ti
faceva trasalire; aprendo il sipario su una scena da "The
day after": schegge di castagna miste a brace sparse
dappertutto; il gatto con la coda mozzata in seguito
all'esplosione; la tabellina del nove che bruciava allegramente
sul fuoco di lentisco; una brace gigante che attraversava il
quaderno a quadretti; la penna biro, che caduta sulla cenere,
aveva assunto le sembianze di un ferro di cavallo (La penna
piegata in quella maniera diventò uno strumento bellico molto
innovativo).
La penna a sfera ci fu di grande utilità anche per quanto
riguardava le chiamate alla lavagna. Sul palmo della mano, (cosa
che non si poteva fare col pennino) potevamo scrivere
informazioni utili per l'interrogazione, e al momento opportuno,
fingendo di spremere le meningi, si poteva dare una sbirciatina e
sfruttare i dati a disposizione. Il vile espediente non durò
comunque a lungo perché qualche inetto, non accontentandosi di
scrivere sul palmo della mano cominciò a scrivere anche sul
dorso. Il maestro che non era completamente dormito, si
accorse quasi subito ed emise le sue prime sentenze col rito
abbreviato: se sulla mano scopriva l'addizione 2+2=4, la pena
veniva espiata con due semplici bacchettate sul palmo della mano
posata sopra la cattedra, che comunque ( vista la consistenza
della bacchetta ), ti cancarava la mano. Ma si verificavano casi
in cui qualcuno si azzardava a scrivere sulla mano la Rivoluzione
Francese in versione integrale, ed allora erano bacchettate ad
oltranza, e solo la pietà del campanello ( che informava della
fine delle lezioni), poteva salvarlo dall'essere privato dell'uso
delle mani ed essere condannato a fare l'autostop con i piedi.
Arrivammo finalmente a conquistare il fiocco azzurro: eravamo in
quinta!
Il nostro più grande stupore fu suscitato dalla composizione
della classe, che annoverava nel suo interno un gran numero de
cuaddu' mannusu. Inizialmente, vedendo scolari che potevano
essere in procinto di partire a fare il militare, pensammo di
aver sbagliato classe, qualcuno azzardò addirittura l'ipotesi
che potevano aver aperto a Ruinas una facoltà di studi
universitari; invece no, l'appello fatto dal maestro confermava:
era proprio la quinta elementare di Ruinas.
Allora si bocciava, purtroppo, anche nelle scuole elementari, ma
questo non bastava a farci capire come mai quei ragazzi fossero
ancora in quinta. Ricordo che c'era qualcuno che aveva passato
più anni in quinta che nel resto delle elementari, accumulando
quindi croccorigasa per lui e per i figli che in futuro sarebbero
nati.
Questi scolari, che venivano spesso denominati dal maestro mannu'
debbadasa, crearono non pochi problemi ai docenti. Le semplici
marachelle alle quali eravamo abituati si trasformarono, con
questi ragazzi, in scherzi piuttosto pesanti; il maestro dal
canto suo mostrò subito di non gradire , reagendo con i soliti
ciaffusu, e vista la mole degli interessati: con callàda'de
pei. Ovviamente la controparte non apprezzava molto quelle
reazioni, quindi cominciarono le ritorsioni: certuni reagirono
applicando la famosa legge "occhio per occhio dente per
dente", altri con sistemi di rappresaglia tecnologicamente
più
avanzati, tipo: mettere una serpe nel cassetto della cattedra o
sostituire la sedia ( buona ) del maestro, con una rotta: con le
conseguenza che vi lascio immaginare.
Il momento più drammatico per noi scolari, era la consegna delle
pagelle; che poteva scatenare la gioia più incontenibile se i
voti riportati sancivano la promozione; la depressione più
spaventosa se i voti indicavano un arrivederci nella stessa
classe per il prossimo anno ( in altre parole: croccoriga occannu
puru ). La drammatica notifica spingeva , talvolta, gli scolari a
darsi alla macchia per qualche giorno, per paura della punizione
che sicuramente li aspettava. Dal punto di vista storico, queste
situazioni, assumono grande importanza perché aiutano a far luce
sulle origini del "fenomeno" latitanza in Sardegna.
La promozione rivestiva importanza primaria perchè cancellava
immediatamente l'obbligo ( in caso di bocciatura ) della dolorosa
scelta di una delle tre soluzioni : A - Cadra
riassuntiva di rito, che inglobava tutte le malefatte dell'anno
scolastico, con incentivo per la bocciatura.
B - Condanna in contumacia ( in caso di latitanza ), che rinviava
momentaneamente sa cadra a data da stabilirsi, con le aggravanti
del caso.
C - Cercare asilo politico in casa di parenti stretti, e
convincere qualche parente ad intercedere presso i genitori per
trattare una riduzione della pena; o almeno una tregua, che
doveva sortire l'effetto di far raffreddare gli animi. Questa
soluzione risultava spesso molto rischiosa, in quanto i parenti (
qualche volta ), si innalzavano a loro volta a giudici,
condannando senza appello il povero ripetente e conferendogli il
primo assaggio della sussa definitiva.
La promozione, in quinta elementare, sanciva il passaggio alle
scuole medie, che per noi significava: liberarci finalmente
dell'odiato grembiule e quindi finirla con la
"vestizione" mattutina tipo Compoidori; entrare nel
periodo post-bellico, nel quale ( si diceva ) non venivano più
dispensati ceffoni di sorta; progredire negli studi e nella
scrittura; chiudere definitivamente con la mensa scolastica (
refezione ); messa al bando delle famigerate bacchette-randello
che tante volte ci lasciarono i segni indelebili sulle mani.
Tutto questo sapeva di paese dei balocchi, per cui non ci facemmo
troppe illusioni.
III
Siamo così giunti alla terza parte di questa storia. - Speriamo
che sia l'ultima! (dirà qualcuno!) e non posso certo dargli
torto, per due motivi, primo: perchè le cose belle durano poco (
Pitticca sa modestia!) Secondo: perchè si è parlato talmente
tanto di bachettate, di randellate, de cadrasa (di botte da orbi
insomma) che, a furia di leggere e rileggere di queste cose,
sembra quasi che il nostro passato scolastico l'abbiamo trascorso
a Yuma o a Sing-Sing: con la palla al piede, spaccando roccie
sotto il sole cocente e bevendo (raramente), tra una frustata e
l'altra, l'acqua a turra stampada!
- Quindi. (Dirà qualcun'altro) - Sarà meglio darci un taglio e
parlare, magari, di cose più liete che ci facciano dimenticare
le "sofferenze corporali", subite in tanti anni di
scuola. Ma il pregio (o il difetto) di chi scrive, è quella
piccola dose di sardo-masochismo che si annida in lui, difficile
da reprimere. Quindi prosegue imperterrito (incurante delle
suppliche della coscienza che grida: acabadda!!), senza
curarsi troppo del male che procura a se stesso e agli altri.
Dopo questo sfogo, che è un atto dovuto (alla coscienza),
affrontiamo serenamente il seguito di questa storia, come il
condannato alla pena capitale, che fuma la sua ultima sigaretta,
(e giù scongiuri: corn, ferri di cavallo, coa'de zillighetta
e chi più ne ha più ne metta!). Ma forse è meglio pensare che
questo pseudo-racconto sia, invece, come quella famosa telefonata
che allunga la vita: sperando che non entrino in sciopero gli
operatori Telecom, o che non ci stacchino il telefono per
morosità!
Qualcuno potrebbe obiettare che questa storia somiglia a una
telenovela (nel senso che puoi anche perderti cinquanta puntate
che, comunque, riesci a seguirne la trama). Rispondo che questo
racconto si differenzia da tali storie soprattutto perché, dai
nostri drammi dell'infanzia, riusciamo a tirar fuori qualcosa di
allegro: al contrario delle telenovelas. L'unica cosa che hanno
in comune le telenovelas e le nostre storie è il pianto: (lagrima'che
pungiusu) che hanno fatto versare alle nostre mamme.
Per quelli che sono usciti indenni, leggendo le prime due parti
del racconto, mi sento in dovere di continuare il discorso.
Qualcuno mi chiede: - ma al computer quando ci arrivi? Devo
francamente dire, che non lo so neanch'io; anche perché
nell'epoca in cui siamo, a questo punto del racconto, il computer
era ancora lungi dall'essere inventato. Esistevano, allora,
soltanto dei "calcolatori" (usati a livello
industriale) che sembravano "armadi quattro stagioni" e
avevano una capacità
di memoria, che ai giorni nostri farebbe ridere. Quindi restiamo
ancora nel periodo in cui tutto (o quasi) era ancora manuale.
Seguendo l'evoluzione dal pennino al computer ricorre spesso, in
questo racconto, la scuola. Volutamente , devo dire, in quanto
penso che essa abbia giocato un ruolo fondamentale in questo
evolversi del modo di scrivere e di eseguire i calcoli; ma
soprattutto nella vita di tutti noi.
Torniamo quindi al periodo scolastico, siamo esattamente alla
fine delle scuole elementari: nel periodo delle vacanze estive.
Espiata la pena (i bocciati) e goduto il premio (i promossi), ci
si ritrovava tutti insieme (a ore' solli, dopo essere scappati da
casa uscendo dalla finestra), durante la pausa estiva, e si
apriva ufficialmente la "campagna di razzìa" di tutti
i frutti esistenti nel nostro territorio. Le spedizioni
avvenivano con sistemi di locomozione poco ortodossi, ma erano
per noi gli unici mezzi a disposizione (gratuiti), che ci davano
la possibilità di effettuare le nostre scorribande: i
mollentisi! (Mammiferi equini con lunghi orecchi e pelame per lo
più grigiastro, da tiro e da soma; cita lo Zingarelli). Questi
asini, che nel periodo estivo venivano lasciati liberi dai loro
padroni, erano per noi la manna dal cielo. Si potevano trovare, a
gruppi, in varie zone di Ruinas: Nurachi, is' Argiolla'de Cresia,
sa Scalla Manna etc. Noi ragazzi provavamo per questi animali un
senso di tenerezza particolare (forse perché essendo stati,
sovente, noi scolari, definiti conca'de mollentisi);
sentivamo di avere qualche vaga affinità con loro. Noi eravamo
probabilmente più intelligenti, ma quei quadrupedi non ci
sembravano poi così stupidi come venivano definiti. L'approccio
con questi animali non era certo dei più semplici anzi, spesso,
era piuttosto cruento.
Una volta individuato il gruppo che sembrava facesse al caso
nostro, scattava l'operazione avvicinamento, che incominciava in
questa maniera: con la massima indifferenza possibile ci si
avvicinava alle bestie evitando assolutamente di passargli da
dietro (questo, chiaramente, per evitare l'uso dell'arma più
pericolosa dell'asino: le scalciate ovvero is' cracchidusu).
Ovviamente tutto questo lo capimmo a nostre spese, sperimentando
sulla nostra pelle il doloroso effetto, che poteva persistere per
parecchio tempo, dopo aver ricevuto su cracchidu da qualche asino
poco "socievole". Quindi dopo esserci avvicinati con la
massima cautela si cercava di far capire al nostro interlocutore,
le nostre buone intenzioni: magari scraffendideddu in
prossimità delle orecchie e verificando l'assenza, addosso alla
bestia, di "mosche cavalline".
L'operazione successiva, che consisteva nel montare in groppa,
avveniva solamente se ci sembrava che l'animale dimostrasse, con
un mezzo sorriso, di aver gradito le nostre carezze. A questo
punto, con la leggerezza ed il portamento degni di un nobile
cavaliere, si saltava in groppa: guadagnando immediatamente la
presa sulla criniera del nostro "amico-destriero".
Fu così che cominciammo a fare i primi esercizi di "volo
libero", in quanto nella maggior parte dei casi, su
mollenti (ritenendosi in "ferie", dopo aver
trasportato per tutto l'anno dei carichi allucinanti),
istantaneamente ci catapultava in un cespuglio di rovi o fimorisca,
con conseguenze talvolta drammatiche: in seguito all'infissione,
su ogni parte del nostro corpo, di una miriade di spine. Siccome,
testardaggine ne avevamo quanto loro, i nostri tentativi
proseguivano ad oltranza, finché il quadrupede; verosimilmente
commosso (con produzione di lacrime), per la nostra sorte, non
decideva di accoglierci a "bordo"!
A questo punto il commando di espropriazione frutta ed affini,
era pronto a compiere le sue prodezze: requisizione di tutte le
primizie della stagione ed incameramento dei frutti ancora
acerbi, con messa in conservazione di questi ultimi sotto terra
(sistema a carraggiu).
La frutta sottratta ai padroni (soprattutto nell'ora della
"siesta") veniva consumata in parte da noi; l'altra
parte (minima) veniva offerta ai nostri "destrieri"
(che gradivano molto), per cercare di consolidare la nostra
amicizia e farli diventare più tolleranti nei nostri confronti.
Questa delicata operazione avveniva a debita distanza dalla bocca
dell'asino; la precauzione era dettata dall'esperienza: un morso
con quei "dentini da latte" era tuttaltro che
piacevole! Si poteva addirittura rischiare la perdita dell'arto e
finire, con un gancio al posto della mano, come Capitan Uncino!
Con conseguenze piuttosto spiacevoli (a causa dell'uncino), in
caso di "estrazione" di "corpi estranei" dal
naso!
Ricordo che un nostro compagno, dopo aver subìto un morso su un
ginocchio, da uno di questi animaletti, dovette rinunciare alle
sue mansioni di chierichetto: non potendosi più inginocchiare!
Una cosa che scoprimmo per caso, e provocò immenso stupore in
noi, fu che gli asini mangiavano la carta stampata (giornali, per
intenderci); anzi ne erano ghiotti. Inizialmente non riuscivamo a
capire che cosa ci trovassero di tanto saporito in questi fogli
stampati, ma un nostro compagno (il solito perspicace), con un
lampo di genio disse: - Non c'è altra spiegazione: è fame di
cultura!!
-Ma che dici! Rispose un'altro.- Allora perchè mangia anche
l'Unione Sarda?
(Ovviamente si trattava soltanto de fammini a segai a fittasa)
Questo episodio non fece che rafforzare la concezione che avevamo
di queste bestie: non erano poi così ignoranti anzi; avevano
voglia di imparare!
Il nostro "Commando" si ispirava ad Attila. Bisogna
però dire che nel nostro caso, gli allievi superarono il
maestro. Non solo dove passavamo noi non cresceva più l'erba: ma
nemmeno la frutta!
Nella nostra euforia dimenticavamo, purtroppo, che la spada di
Damocle pendeva costantemente sul nostro capo: non ci rendevamo
conto, che queste ignobili azioni, sarebbero state sicuramente
punite.
Capitava, durante queste "calate" da Unni, che il
padrone degli alberi da frutta presi di mira (per cause
inspiegabili), si destasse prima dell'ora dalla siesta; quindi,
non di rado, venivamo sorpresi con le mani nel sacco. Chi era
talmente veloce da saltare in groppa all'asino, poteva tentare la
fuga (sempre che il somaro non reagisse a modo suo disarcionando
il fuggiasco); per gli altri era assicurata una consistente
razione di legnate a base di mazzocca, e nei casi
limite; de toll'e' cavuna (firmata Franciscu Lai)!
Nella maggior parte dei casi, dopo la solenne lezione del padrone
della frutta, ci aspettava (al nostro ritorno a casa) la seconda
razione de cadra da parte dei nostri, che, tanto per gradire,
consisteva in una bella passada de soghitta (laccio in pelle con
un anello metallico all'estremità, che serviva per fasciare la
legna n.d.r.). L'unica nostra preoccupazione, in quel momento,
era che il nostro castigatore non impugnasse il micidiale
scudiscio dalla parte opposta a s'anella!
Era consuetudine, soprattutto per noi ragazzi, stare scalzi
durante il periodo estivo; questo doveva servire: sia a
risparmiare scarpe, che po affottiai is peisi; e sul secondo
punto non c'era nulla da ridire in quanto a fine estate, avevamo
la "pianta" del piede talmente dura, che i pneumatici
da neve, a confronto, facevano ridere!
I piedi, con quel duro strato sotto, che ci si poteva benissimo
incidere il battistrada, ci tornavano spesso utili nelle ritirate
strategiche (in caso di perdita dei nostri mezzi di locomozione).
Anche in presenza di spia zruppa, pruischedda e callavrigu;
riuscivamo spesso a seminare l'inseguitore che; agitando la
roncola, ( di certo ) non ci correva dietro per offrirci il
gelato!
Queste e tante altre disavventure caratterizzavano le nostre
vacanze di allora, che trascorrevano tra momenti di allegria
conditi spesso con lacrime: arrisu cun croggiollu!
Ma si, il tempo è tiranno: le vacanze finirono molto presto e
inesorabilmente arrivò il giorno di riapertura delle scuole.
Quella volta rientrammo a scuola, non dico volentieri, perché
sarebbe una grossa balla, ma sicuramente con un altro spirito:
parecchia curiosità mista a voglia di qualcosa di diverso (nulla
a che vedere con la signora in giallo); devo dire che le sorprese
non mancarono.
La prima della sorprese consisteva nel numero di maschietti
presenti in prima media: solo tre. Anche la presenza del gentil
sesso era alquanto ridotta: sei ragazze. (Tra l'altro la classe
mista era per noi una novità). La seconda sorpresa era
costituita dalla presenza in aula di un televisore. La presenza
di quest'ultimo, scatenò una curiosità irrefrenabile, pensammo:
magari ci fanno vedere il "gatto Felix" o il telefilm
"Rin-Tin-Tin". L'accensione del televisore fu un grande
avvenimento: quando la professoressa pigiò il pulsante, uscirono
dall'altoparlante un'infinità di rumori seguiti da un boato
potentissimo simile all'esplosione di Hiroshima, che ci costrinse
a rifugiarci sotto i banchi. In quel preciso istante,
dall'interno del televisore, uscì, veloce come una saetta: un
topo. Mezzo abbrustolito dalla scarica elettrica, con la coda
accesa tipo miccia; cercò di guadagnare l'uscita passando tra i
piedi della prof, che cadde gambe all'aria. La corsa del
"ratto-torcia" finì in modo poco eroico sotto la
scarpa n.44 di un nostro compagno!
La professoressa (bianca che sa nia e tremendi che sa canna)
non spiccicava parola. - Spereusu chi di duridi! Disse
il solito maligno. Dopo un lasso di tempo interminabile, la prof,
ripresasi dallo spavento ed annunciando la momentanea
"invalidità" del televisore; ci comunicò che avremmo
fatto lezione senza immagini televisive, finché il guasto non
fosse stato riparato: peccato la sorpresa era rinviata.
A questo punto devo (purtroppo per voi) annunciarvi, che ci sarà
anche la quarta parte di questo racconto.
IV
Per chi non demorde, per chi ha deciso di farsi del male (e
ridaje), per chi vuole buttar via il proprio tempo e per chi
pensa che, tutto sommato, a volte bisogna bere la medicina
nonostante sia amara; anche su questo numero (non senza aver
promesso di smetterla di "usurpare" spazio prezioso sul
giornalino); sono riuscito a infilarci un altro tassello di
questo travagliato passaggio dal pennino al computer. La promessa
mi è stata estorta con la minaccia (nel caso in cui mi ostini a
procedere), da parte dei colleghi della redazione, di mandarmi
come corrispondente di un quotidiano a scrivere di cronaca tipo:
Furto di maiali a Ruinas.
La notte scorsa, in località Pire' proccheddu, sono stati
rubati, al signor Mondo Porcu, due maiali (acchisrogiusu) e due
scrofe da due quintali cadauna, con venti maialetti al seguito. I
ladri dopo aver legato i cani a satizzu, con la minaccia delle
armi, hanno convinto i suini a seguirli, minacciandoli di
trasformarli in insaccati nel caso in cui si fossero rifiutati.
Sul posto non sono stati rinvenuti segni di collutazione: il che
fa pensare che vi sia stata complicità o quantomeno tacito
accordo tra i ladri e le bestie. Testimoni oculari: i cani che,
troppo occupati a liberarsi delle salsiccie, non hanno avuto il
tempo materiale per impedire la "sottrazione". I
rapitori si sono fatti vivi subito dopo chiedendo il pagamento di
un cospicuo riscatto da versare in pressi, pena la soppressione
di un sempresveglio (mai-a-letto), ogni ora. Gli inquirenti
brancolano nel buio, nonostante le indagini si svolgano di
giorno. Gli investigatori (nonostante la complessità del caso)
ricollegandosi al detto "tanto va il ladro al lardo che ti
ruba il maialino", pensano di risolvere il caso quanto
prima. Le indagini sono orientate su abitué di questi prelievi:
genti chi non di di friga'nudda de su colesterolu. Le indagini
sono circoscritte alla Sardegna, essendo vietata (a causa della
"peste suina") l'esportazione di carne di maiale
dall'isola. Dal ns.inviato Giorgio Brocca
Pensionato Raggirato ad Usellus.
Ieri mattina due (finte) Ispettrici dell'INPS, hanno sottratto al
signor Franco Soddu di 75 anni, dieci milioni di lire in contanti
e tre in bottusu (così li ha definiti il signor Soddu).
Due avvenenti, e piuttosto discinte, signorine si sono presentate
nell'abitazione del signor Soddu, dichiarandosi Ispettrici
dell'INPS in servizio per controlli sui falsi invalidi. Le due
due donne hanno invitato il pensionato a esibire il libretto
della pensione. Mentre una delle due lo esaminava, l'altra ha
chiesto di poter utilizzare la toilette: avuto il consenso dal
signor Soddu; usciva dalla cucina e furtivamente si introduceva
in camera da letto, dove, sotto il materasso prelevava il
malloppo.
Le due false funzionarie salutavano, con un sorriso ammaliante,
il vegliardo, consegnandogli cinquantamila lire, quale rimborso
per un errore sull'ultima mensilità da lui incassata.
Il Soddu (con gli occhi in bianco), contento come una pasqua,
ricambiava il saluto invitandole a tornare quanto prima a bere un
altro "Villacidro Murgia". Lo sfortunato pensionato si
è accorto del furto solo a tarda sera, quando (come tutti i
giorni) si accingeva ad effettuare il calcolo degli interessi
maturati. L'anziano malcapitato ha fornito pochi indizi agli
inquirenti, in quanto non ha avuto il tempo di vedere bene in
faccia le due gentildonne: questo perchè troppo occupato a
guardare le minigonne mozzafiato (appena più lunghe di un prammu,
come ha detto ziu Soddu), che indossavano le due donne. L'unico
indizio utile (fornito dal Soddu) che potrebbe aiutare gli
inquirenti, è la "erre" un po' arraspiosa, che avevano
le due donne quando parlavano.
Altro indizio scoperto dai tutori dell'ordine (dopo un
sopralluogo): un persistente profumo di Chanel 5, percettibile,
nonostante un po' confuso da un altro profumo tipicamente
francese (Mer-de Bac), proveniente da sa lolla del
signor Soddu.
Gli inquirenti (due baldi giovanotti dal naso fine), per battere
sul tempo le due donne sono già in volo per Parigi: cominceranno
le indagini dal Moulin Rouge.
Dal ns. inviato Enzo Briaggiu.
Prendendo atto di tali minacce, è chiaro che dovrò, prendere in
considerazione la possibilità di porre fine a questo racconto.
Con la speranza che dopo questa "puntata", la redazione
cambi idea, seguiterò a portare alla luce episodi che forse
sarebbe meglio tenere sepolti.
Nel precedente numero del giornalino siamo rimasti al periodo in
cui si frequentava la prima media. Il primo giorno di scuola,
nonostante l'inconveniente tecnico del televisore, passò
abbastanza tranquillo in quanto passammo le ore di lezione a
conoscere i nostri professori (due): uno per le materie
scientifiche e l'altro per le materie letterarie.
Le lezioni si tenevano nei locali di proprietà della parrocchia,
in quanto (allora) il Comune non disponeva di edifici scolastici
per le scuole medie. Patron di tutta la situazione: Don Natale
(in sa Groria siada). Il secondo giorno di scuola lo trovammo
nella nostra aula, con una valvola (che sembrava un fiasco di
vernaccia) in mano: "Il televisore è a posto, s'era
bruciata questa valvola", disse con voce imperiosa. La
Professoressa lo ringraziò vivamente e diede inizio alle
lezioni.
Questa volta all'accensione del televisore (nonostante fossimo
tutti con le mani sulle orecchie), non sucesse niente di anomalo:
dopo un paio di minuti (necessari alle valvole per riscaldarsi);
comparve sullo schermo il solito nevischio che lasciò
quasi subito il posto a un sornione professore che spiegava ad un
classe di sei alunni. Il professore tottu allicchidiu
(in giacca e cravatta, elegantissimo), pariada prontu po si
coiai. Gli alunni (tre maschi e tre femmine) non erano da meno:
sembravano usciti da una boutique di Giorgio Armandu.
Questa classe ce la portammo dietro fino alla terza media, gli
alunni che ne facevano parte ci diventarono talmente familiari,
da condividere con loro gioie e sofferenze. I loro nomi li
ricordo ancora oggi, i ragazzi: Bruno (langiu che terra,
fraizzu cumente'margiai); Gianni (grassu che u procu);
Mauro (su seriu). Le ragazze: Roberta (leggia che su
trummentu: ua cozzia); Emanuela (sa bonazza), il
cui fascino non sfuggiva neanche ai professori; Gloria (la
preferita, non eccessivamente bella ma intelligente e dotata di
un fascino esotico-cabesusesu).
A questo punto comparvero due grosse novità:
1- Scoprimmo di avere a che fare con altre due lingue
"straniere" (oltre all'Italiano): il Francese e il
Latino.
2- Facemmo conoscenza con un nuovo vocabolo: Appunti.
La lingua francese ci creò non poche difficoltà, soprattutto
per la cosidetta "erre moscia"che tra l'altro ci
sembrava anche una brutta parola. Inoltre non riuscivamo a
spiegarci in quale modo questa lingua ci sarebbe tornata utile,
qualcuno azzardò:"Magari potrà servirci se per caso
andiamo in Francia a lavorare in miniera!" Fortunatamente
nessuno di noi ha poi avuto a che fare con quelle buie
"gallerie" e tantomeno con la silicosi.
Il latino ci sembrava più familiare, vuoi perchè lo sentivamo
in chiesa, vuoi perchè sembrava avere parecchie attinenze con la
nostra madre lingua: il Sardo. A proposito del latino pensammo:
se l'hanno appreso perfettamente a Paulilatino perché non
dovremmo riuscirci noi?
Durante l'ora in cui si seguiva la lezione televisiva bisognava
scrivere sui quaderni quello che si riusciva a capire dalle
spiegazioni del "Tele-prof". Allora era sicuramente un
sistema d'insegnamento molto antiquato (probabilmente dovuto alla
carenza di professori), oggi l'avrebbero sicuramente definito:
"Insegnamento Multimediale".
Tutte quelle pagine che riuscivamo a riempire li chiamarono
appunti (appunto). Ma di questo parlerò (se mi sarà
consentito), più diffusamente nel prossimo numero.
Inizialmente le lezioni si svolgevano nel locale ex Circolo ACLI.
Questa "aula" aveva il pregio di mantenerci sempre
freschi ed in forma, per la sua bassa temperatura. L'unico
inconveniente era che quando si riusciva a fare silenzio, si
sentiva un generale battere di denti che somigliava tanto alla
corsa di un branco di cavalli selvaggi! In quel
"salubre" ambiente si sarebbero sicuramente trovati a
disagio anche i pinguini.
In quel locale si trovavano, ancora accatastate, casse di bibite
ed una botte di vino: rimaste lì da chissà quanti anni dopo la
chiusura del circolo. Naturalmente (appena potemmo) cominciammo a
stappare bottiglie di aranciata, gazzosa e spuma ma, haimè, la
nostra delusione fu troppo grande: dopo tanti anni tutte queste
bibite erano avariate ed avevano un sapore che somigliava più al
petrolio che a una bibita.
A questo punto il solito "sveglio" disse: "Ci
resta sempre il vino!" (Una botte da duecento litri).
In men che non si dica lo scaltro "Somelier" riempì ua
tassa de quatu di quello che (secondo noi), doveva essere
Cannonau invecchiato in botte di rovere; lo assaggiò
immediatamente, e quasi istantaneamente lo risputò esclamando:
" Qustu est'aghedu schettu, torra' su mottu a biu!".
Increduli lo assaggiammo tutti ma dovemmo espellere
immediatamente: "il giovine vinello" era diventato
così forte che, anche un'insalata de indivia si sarebbe
rifiutata di farsi condire da quel "liquido".
La sorpresa più grande l'avemmo il giorno dopo, quando entrando
in "classe" la trovammo completamente allagata di
"vino": il nostro compagno aveva dimenticato il
rubinetto (sa scetta) della botte, aperto. Con i fazzoletti a mò
di mascherina passamo tutta la matttinata a ripulire il locale:
fu quello il primo caso di "sbronza involontaria".
Quando finimmo di ripulire ci trovammo completamente impregnati
di un acre odore di aceto, al punto che, all'uscita di scuola
riuscimmo a stento a liberarci di tutti i cani del circondario
che ci vennero dietro, probabilmente scambiandoci po pruppa
imbinada!
In attesa de scisciai dall'inebriamento, "salvo con
nome" dandovi appuntamento al prossimo numero.
V
Scrivendo al computer sento, a volte, la nostalgia del pennino:
non per spirito conservatore, ma perchè questo moderno
marchingegno (che mette così velocemente sulla carta quello che
scrivi), talvolta, ti concede poco tempo di pensare; capita
quindi che in mezzo a tante cose dettate da ampia riflessione,
trovino posto anche delle cose di cui si potrebbe benissimo fare
a meno di menzionare.
Mi perdoni quindi il lettore per queste asperità, ma questo è
il prezzo che dobbiamo pagare per aver accettato "la
schiavitù tecnologica"!
Certo, il pennino ti dava tutto il tempo (bagnando lo stesso nel
calamaio prima, e asciugando la scrittura con la carta
assorbente, dopo), per ponderare le parole, evitando gratuiti
aforismi e continui scivoloni nella più banale retorica.
Sono quindi costretto, per riuscire a farmi leggere, a camminare
(in precario equilibrio) sul sottile filo teso tra i pali del
serio e del faceto, affondando spesso il coltello dell'ironia e
dell'autoironia, rischiando di aprire piaghe talvolta insanabili
sull'opinione del lettore, già straziata dai martellanti assalti
dei Mass-Media e de is penzamentusu.
Stacchiamo (per un attimo), quindi, la spina dalla vita normale e
viviamo questi attimi di lettura come immersi in una sorta di
momentanea "Trance" che ad effetto svanito ci
riporterà, con la più possibile indifferenza, nella realtà
della vita quotidiana.
Torniamo, perciò, al nostro "racconto" riallacciandoci
al periodo delle tele-scuole-medie, con i professori che facevano
del loro meglio per darci una decente formazione
civile-morale-cultural-scolastica. A tal proposito era in uso, in
quel periodo, una frase (coniata dai professori), che recitava:
"Il profitto ottenuto dagli alunni è direttamente
proporzionale al loro impegno".
Dal nostro canto, sintetizammo così la nostra divergenza
d'opinione: "Lo scarso profitto ottenuto dagli alunni è
direttamente proporzionale all'incapacità dei professori!"
Questi professori che parlavano così in fretta (bontà loro), ci
costrinsero (nello scrivere) ad utilizzare le abbreviazioni che
consentivano di tenere il passo. Ovviamente come ogni medaglia
anche questa aveva il suo rovescio: le abbreviazioni ci
facilitavano la scrittura ma ci complicavano la lettura. Per
stipare i chilometrici appunti nel quaderno, ricorremmo anche
alla tecnica di rimpicciolire i caratteri, finendo così per
rendere quasi illeggibile il tutto e mettere a repentaglio
parecchie diottrie. Quel tipo di scrittura veniva normalmente
definita: scarraffiu'de pudda.
La materia che ci impegnava di più dal versante degli appunti
era la storia: pagine intere zeppe di scoperte, di dichiarazioni
di guerra, di armistizi e via discorrendo. Da quel cumulo di
appunti stracolmi di date e avvenimenti poteva risultare un
confuso ed alquanto improbabile scenario storico di questo tipo.
Nell'anno disgrazia 1486, un certo Cristoforo Columbu di
Carloforte (Cristolu per gli amici), convinto che la terra non
fosse piatta come il Campidano, ma che avesse una forma sferica
tipo anguria, decise di tentare la navigazione ad oltranza,
pensando di poter arrivare alle Indie, seguendo una rotta opposta
a quella naturale.Columbu dovette scontrarsi subito con enormi
difficoltà per reperire i fondi necessari a finanziare la sua
impresa.
Allora, purtroppo, non esistevano gli sponsor per finanziare il
suo viaggio. Il suo primo tentativo (e quì dimostrò subito la
sua ingenuità), lo fece a Genova: figuriamoci se poteva esserci
qualche facoltoso genovese disposto a rischiare le sue
"palanche" per una follia di questo tipo.
Ovviamente (essendo convinzione comune che la terra fosse piatta)
quando parlò dell'impresa che intendeva realizzare, fu subito
bollato come pazzo e nessuno badò a lui più di tanto. Parlò
della sua impresa anche a Marco Polu (che quei posti li conosceva
abbastanza bene, in quanto vi si recava spesso a cavallo per
importare le spezie da portare, appunto, a La Spezia).
"Voglio arrivare alle Indie circumnavigando la terra verso
occidente"- gli disse Cristoforo.
"Tui se maccu che u cuaddu, questa folle spedizione
non può andare in porto!"- Gli rispose Marco,
(complimentandosi con se stesso per la risposta così
"calzante").
Columbu (Che si autodefiniva così: seu Columbu e seu sardu,
no istumbu ca seu testardu), non si fece certo scoraggiare
dall'opinione negativa (anche se autorevole) di Marco Polu,
quindi cercò conforto con altri personaggi dell'epoca.
Ponzio Pelato non volle nemmeno sentir parlare di dare
il suo appoggio a Columbu e, lavandosene le mani, gli disse:
"a mei de su machimini du' no mi'ndi' impotta' nudda,
bai mancai andisti a is corru' de sa furca!"
In quegli anni si stava mettendo a punto la macchina del futuro.
Columbu (che intendeva giocare tutte le sue carte), chiese, ed
otenne di poter intraprendere un viaggio nel futuro: venne quindi
proiettato in avanti di qualche secolo.....
Correva voce, in quel periodo, che a Milano vi fosse un facoltoso
industriale sensibile alle nuove "imprese". Columbu
raggiunse immediatamente la capitale della Padania e ottenne un
colloquio con lui: si trattava del Cavalier Silvio
Berluschino il quale era, allora, molto impegnato a fondare
la "Giovine Forza Italia".
Dopo essere stato introdotto dall'usciere Emilio Fedu,
espose al Cavaliere i suoi progetti. Alla richiesta di
finanziamenti da parte di Cristoforo Columbu, Berluschino
rispose: "Mi consenta signor Columbu, ma devo dirle che la Frodinvest
non può
finanziare la sua spedizione in quanto sta impegnando gran parte
del suo capitale per consentire la mia ridiscesa in campo, che
averrà quanto prima!"
Deluso dal futuro e soprattutto dalle navi della Tirrenia,
Columbu decise di ritornare immediatamente nel presente.
In Sardegna, sensibili al problema di Columbu, si offrirono per
dare una mano i pescatori di Cabras, offrendo le loro tipiche
imbarcazioni: Is Fassonis. Columbu visibilmente commosso
per quello slancio di generosità dise loro: "piccioccusu
non devo andare a pescare muggini nello stagno devo raggiungere
le Indie!". Per ricompensarli della loro buona volontà,
promise che al suo ritorno dalle Indie avrebbe portato i fichi
d'India: tutti noi Sardi siamo testimoni della sua mantenuta
promessa.
Columbu (che di pazienza ne aveva almeno quanto Giove) battè
cassa un pò dappertutto, chiese dei contributi perfino a
Eleonora d'Arborea, al C.I.S. (Credito Industriale Sardo) e un
prestito al B.R.S. (Banco del Regno di Sardegna), ma da tutti
ricevette la stessa laconica risposta: non siamo assolutamente
disposti a buttare via mancu u'arrialli per uno che
pensa che la terra abbia forma di palla!
Provando sulla propria pelle che nessuno è profeta in patria,
Cristoforo Columbu giungette a malincuore alla dolorosa
conclusione: per poter realizzare il suo sogno avrebbe dovuto
varcare la frontiera. Così, un pò facendosi guidare dal proprio
istinto, un pò perchè sentiva che quella terra aveva qualcosa
in comune con la sua, ma soprattutto perchè più vicina
all'Oceano Atlantico, fece la sua scelta: decise di tentare in
Spagna.
A convalida della sua giusta scelta ci fu la calorosa accoglienza
che ricevette in terra Iberica: molti accettarono di buon grado
l'ipotesi che la terra potesse avere una forma sferica, e quindi
caldeggiarono l'impresa che Columbu voleva affrontare. Unico neo
in tutta la vicenda: degli spagnoli intervistati nessuno aveva
una Peseta da poter dare all'intrepido navigatore.
Qualcuno, senza troppa convinzione, lo indirizzò alla Corte del
Re Ferdinando. Vi si recò immediatamente.
"Buscar el levante Jendo por el ponente!".
Così esordì Cristoforo Columbu, esponendo i suoi progetti al
"Rei". Alla richiesta di aiuti, Sua Maestà rispose:
" Senor Columbu se husted pensa que la tierra tienga
forma de pelota, me parece que la su cabeza sia piata como la
tierra! No tenimos dinero de scavular in una impresa loca como
esta!".
Triste e sconsolato Columbu si accinse a lasciare la Corte, ma il
Giullare lo richiamò e lo indirizzò dalla Regina. In men che
non si dica Columbu si ritrovò al cospetto della Sovrana: la
Regina Isabella.
Ripresosi dallo stupore iniziale per la bellezza di sua Altezza,
il nostro Cristoforo illustrò immediatamente il suo progetto. La
Regina, famosa per le sue larghe vedute e per il suo spirito
d'avventura (attratta, inoltre, dal fascino "macho"
dell'italo-sardo), accolse immediatamente il progetto del
navigatore e mise subito a disposizione dello stesso, una
consistente quantità
di Pesetas per realizzare la spedizione e così chiuse il
colloquio: "Senor Columbu jo creo que con la cabeza de
sardo que tiene husted, puede seguramiente arribar a las Indias
jendo por el ponente; tambiem puede spender bien el nuestro
dinero, siendo husted medio Genoves, de manos non mucho
abiertas".
Furono messe a disposizione di Columbu tre bellissime navi
(caravelle): la "Mina", la "Finta"
e l'Ammiraglia "Spanta Maria".
Il problema più grosso; fu a questo punto, trovare gli equipaggi
per le navi: dopo tanti rifiuti da parte dei marinai più
accreditati, il nostro eroe fu costretto ad optare per una ciurma
costituita da elementi piuttosto "guasti"; ma a questo
punto non poteva certo andare troppo per il sottile.
Caricate tutte le provviste e completato gli equipaggi, Columbu
potè finalmente dare il via al suo sogno: Il 3 agosto del 1492
salpò da Palau e con le prue delle caravelle rivolte a 270°
puntò alla volta delle Indie.
Lasciamo (momentaneamente) il nostro Columbu per vedere cosa
succedeva in quelli anni nella martoriata terra
"Italica"...
In quel tempo Giuseppe Mazzinu (antenato di Bossi) si
faceva in quattro per cercare di unificare l'italia. Giuseppe
Gariboldi (che ricevette l'incarico di cominciare
l'unificazione dal sud) partì da Quartu, diretto in Sicilia con
mille gariboldini reclutati tra i minatori del Sulcis
(tradizionalmente rossi). Questi, quando seppero che si sarebbe
andati a Marsala, fecero una bella scorta di vernaccia di
Baratili. L'adunata di quegli intrepidi mille si svolse al Poetto
sotto la supervisione del Maresciallo Badogliu.
Fu in quel periodo che nacquero i "Molti Carbonari":
Associazione di uomini coraggiosi, con smisurato sprezzo del
pericolo, disposti a sacrificare la propria vita per
l'unificazione dell'Italia.
Gli aderenti a questa Associazione Segreta (essendo sempre
nascosti), avevano poche possibilità di uscire dai loro
nascondigli per procurarsi i viveri, quindi dovettero arrangiarsi
con la scarsa quantità di alimenti che avevano a disposizione.
Fu allora che improvvisarano una pastasciutta con uova e
pancetta, ancora oggi molto apprezzata: la pasta "alla
carbonara".
A seguito di questi eventi, avenne a Meana il famoso incontro tra
Vittorio Manuale e Giuseppe Gariboldi. Il primo disse al secondo:
"L'Italia è fatta, adesso bisogna fare la Padania!".
[Questa frase non è sfuggita a Bossi il quale, facendo tesoro di
ciò, si sta dando (oggi) da fare, aproffittando del celodurismo
perenne (simbolo di virilità e prosperità), e dei recenti
progressi della scienza sulla Clonazione, per creare tanti
"padanini" tutti uguali: celodurati (esenti da
eiaculatio precocis), verdi e suD-normali!]
Sperando che i personaggi storici (quì citati) non si rivoltino
troppo nelle loro tombe, e confidando in un improbabile perdono
da parte dei "puristi" della Storia, per (eventuali)
errate collocazioni storiche di fatti e persone, vi do
appuntamento al prossimo numero.
VI
Sullo scorso numero ho fatto una panoramica di avvenimenti
storici, come potevano essere da noi studenti riassunti a seguito
delle lezioni di storia eseguite con il metodo
"Data-System", che non era (come si può pensare) un
sistema d'insegnamento informatizzato, ma semplicemente studiare
la storia ricordando tutti gli avvenimenti (anche i più futili)
e le date precise: anno, mese, giorno e ora (con approssimazione
massima tollerata di qualche decimo di secondo), in cui si
svolsero.
Questo metodo, tanto caro ai nostri Professori, sarebbe stato
meglio definirlo ( per il risultato talmente miscelato di date e
avvenimenti, che non avevano nessuna sequenza logica tra di
loro), metodo "Shaker". Naturalmente, alle
interrogazioni emergeva la triste realtà: tutta la Storia, da
noi rievocata, si presentava completamente ingarbugliata (pillissàda!).
Dopo l'ultima "puntata" avrei voluto stendere un velo
pietoso su questa materia, al che qualcuno si è (per così
dire) teneramente affezionato alle vicende di Cristoforo Columbu,
quindi ha espresso il desiderio di poter conoscere almeno il
seguito della sua impresa. E' quindi per "dovere di
cronaca" e per una personale ammirazione verso l'ex
"Collega" (Navigatore), che cercherò di fare mente
locale, rievocando gli episodi come li vedevamo noi studenti in
quel periodo (seriamente preoccupati per la guerra nel Vietnam).
....Salpato da Palau a bordo della Spanta Maria, Columbu guidava
la "flotta" verso le Indie portandosi sulla scia (a
qualche migliaio di piedi) le altre due Caravelle: la Mina,
affidata al fratello e la Finta al cugino ("Tutto in
famiglia"- notarono subito i maligni).
Fin dai primi giorni di navigazione il destino non si mostrò
molto favorevole a Columbu. Tutta la superfice velica venne
issata per poter essere gonfiata dal vento ed imprimere velocità
alle imbarcazioni, ma come al solito soffiava il Maestrale, che
provenendo da nord-ovest non era certo il vento favorevole per
spingere le Caravelle verso ponente.
"Ma candu arriba' su ent' e solli!" (vento di
levante n.d.r.) - gridavano i marinai.
Trascorrevano intanto i giorni e gli scafi solcavano molto
lentamente, troppo lentamente, l'Oceano Atlantico; fu a quel
punto che cominciarono i mugugni della ciurma. Il mugugno, ovvero
la lamentela, era un diritto sacrosanto per i marinai, che
rinunciavano a parecchie Pesetas in meno di paga per poter avere
il diritto di esercitarlo. " La testardaggine di Columbu
supera ogni limite!"- esordì un marinaio, " gli avevo
consigliato di ascoltare il signor Diesel, che gli aveva proposto
di far navigare le caravelle sfruttando la sua invenzione: il
motore Diesel appunto. Ma lui come al solito non mi ha dato
retta, anzi così
mi ha apostrofato": "Gli inventori sono tutti un po
bacati, come può pensare di poter spingere le imbarcazioni con
quei frullauovo!" "Mi sa che il bacato è lui!"-
aggiunse un altro della ciurma, "Come ha fatto a rifiutare
un' offerta così allettante, che ci avrebbe permesso di arrivare
a destinazione in pochi giorni di navigazione!"
Ma per Columbu i guai più grossi dovevano ancora arrivare. I
giorni ed i mesi passavano tra mille peripezie. La sfida con
l'oceano e le sue frequenti tempeste stremava, giorno dopo
giorno, i componenti degli equipaggi, le provviste si
assotigliavano sempre di più e la speranza di rivedere un lembo
di terra diventava sempre più
labile e lontana. Il morale della ciurma era ormai a pezzi.
I primi focolai di protesta non tardarono ad accendersi, le teste
più calde incitavano gli altri: "Invertiamo la rotta,
torniamo indietro, stiamo andando incontro alla morte
certa!"; Columbu dovette ricorrere a tutto il suo
"savoir faire" per sedare i tentativi di ammutinamento.
"Capisco benissimo il vostro malumore,"- disse Columbu
"ma dovete avere fede, sono sicuro che tra qualche giorno
avvisteremo la terra; questo evento ci farà diventare parte
integrante della storia e saremo ricordati per sempre da tutta
l'umanità (esclusi gli scolari naturalmente) e come se non
bastasse ritorneremo in patria (?) con le nostre navi cariche
d'oro!".
Ai gaglioffi della ciurma, non fu certo la prospettiva di passare
alla storia, che li convinse a tenere ancora duro, ma accarezzare
la possibilità di tornare indietro con le caravelle cariche
d'oro fu determinante per la loro scelta.
La tregua durò comunque poco: la mancanza di viveri, d'acqua e
la stanchezza ripresero il soppravvento ed i marinai cominciarono
a dare i primi segni di squilibrio creando seri problemi a
Columbu, che per non rischiare di finire nella pancia di quei
simpaticoni di pescicani non dormiva quasi più. Stremato dalla
stanchezza e da notti insonni, Columbu cedette e chiudendo gli
occhi si sdraiò su una gomena arrotolata sopra il cassero; fu in
quel momento che due "ammutinandi" lo immobilizzarono e
lo legarono all'albero maestro intimando al timoniere:
"Inverti immediatamente la rotta se non vuoi ritrovarti con
la testa rotta!"; questi non capì bene la frase ma si
accinse ad effettuare la manovra, ed in quel preciso istante
successe (sicuramente per volontà degli Dei) quello che ormai
nessuno sperava più, Dalla cesta in cima all'albero si sentì la
vedetta gridare come un forsennato: "Tierra!! tierra!! las
Indias! las Indias!!!!"
Ma il capo degli ammutinati ordinò al suo subalterno: "Callaindeddu,
sest'ammacchiau custu puru!"
Un marinaio si arrampicò sull'albero per tirare giù il povero
marinaio fuori di testa, ma giunto in cima si mise a gridare
anche lui: "Tierra!! tierra!! se mira la tierra!!! "
In men che non si dica tutti i membri degli equipaggi furono
sopra gli alberi e come stregati osservavano un lembo di terra in
lontananza. Columbu urlò: "slegatemi, gente di poca
fede!"; un vecchio marinaio che non potè salire sull'albero
perchè
aveva una gamba di legno, liberò l'intrepido navigatore
tagliando, con una pattadesa ben affilata, le cime che gli
stringevano i polsi.
In un attimo Columbu riprese la situazione in mano e riprese il
comando della flotta. Ai responsabili dell'ammutinamento inflisse
una delle più dure punizioni che la legge del mare prevedeva:
furono condannati a mangiare esclusivamente arengada per
cinque giorni senza bere un goccio d'acqua!
All'alba del trentesimo giorno, dell'ottavo mese di navigazione,
le caravelle al comando di Cristoforo Columbu toccarono
finalmenete terra, approdando su una splendida spiaggia
delimitata da una lussureggiante vegetazione!
Ovviamente il primo a calcare la terra fu il nostro Columbu che
piantò subito sul terreno la bandiere del Regno di Spagna e
quella dei Quattro Mori, quindi baciò solennemente il terreno,
ma sollevando la testa ebbe la sorpresa più
grande della sua vita; a poca distanza dal punto di approdo
faceva bella mostra di se un grande cartello sul quale stava
scritto: Wellcome to U.S.A. Bevete Loca Cola!
Restarono tutti allibiti, mentre si chiedevano tra loro e loro: "Ma
que diablo de tierra es esta? Aqui no semos certamiente in
India!"
Ripresosi dallo stupore, Columbu disse: "No beid'a bei,
qustu' fraizzu' de Inglesusu s'anti frigau qust'otta puru,
funt'arribau' prime' nosu! A patt'e coa nc'adai marocchinu' puru,
bendendi tappettusu!" Un rumore assordante di cavalli
in corsa interruppe le riflessioni dei marinai. in mezzo al
polverone sollevato dagli animali si poteva notare una
moltitudine di pellerossa con la faccia dipinta in variopinti
colori e la testa ornata da coloratissime piume che, cavalcando
"a pelo", correvano come forsennati cercando di
sfuggire all'inseguimento di un reparto di cavalleria.
"Los indianos! los indianos! Ma allora semos in
India!"- Esclamò un marinaio.
"Ma que dices piezo de imbecil, non sabes che los
abitantes de la India no tiengono la cara rubia como estos? Aqui
no semos in India!"- Rispose Columbu.
"No sin'di cumprendi' prù nudda, 'nchi funti
is'indianusu e no seusu in India, vai e cerca donde semos!"-
Esordì un mozzo. Fu allora che per non confondere anche noi
decisero (all'unanimità) di chiamare gli abitanti di questi
posti con un altro nome: Indigeni.
Nel frattempo i pellerossa riuscirono a sottrarsi alla furia dei
bianchi, i quali rinunciarono momentaneamente all'iseguimento.
Alla testa dei soldati, stava fiero ed imponente sul suo cavallo
un generale con un'infinità di gradi sulla divisa, il quale
notando le tre caravelle e i marinai sulla spiaggia, si avvicinò
(con un plotone di militari e un operatore della C.N.N.)
immediatemente sul posto. La sorpresa fu talmente grande (per
entrambe le parti) che per un lasso di tempo per tutti
interminabile, nessuno riuscì a pronunciare una parola. Ruppe il
ghiaccio l'alto Ufficiale, che ripresosi dallo sbigottimento
disse: " Ecchini tiaullu seisi? Where You come
from?" (Da dove venite?)"I am Cristoforo Columbu e
questi sono i miei marinai sardignoli e tui chini sesi?"-
Rispose Columbu.
"I am General Custer e sto dando la caccia a Crazy Horse
(Cavallo pazzo) e ai suoi scagnozzi, ma che vuol dire
sardignoli?- Ribattè il Generale.
"Sardignoli vuol dire metà sardi e metà spagnoli"-
Rispose Columbu.
" Appu cumprendiu, Congratulation mister Columbu
you have scoprito America!"- Disse Custer.
"Cummenti s'America? deu penzau ca custa fu'
s'India". - Disse il navigatore.
" No qui non essere India anche se ci sono indiani, comunque
la vostra essere grande scoperta!"- Rispose l'Ufficiale.
Seguirono giorni di festa e ospitalità per gli europei che si
rifecero della fame patita durante il lungo periodo di
navigazione. Gustando le prelibatezze di Mc Donald's, per Columbu
& Company, l'aragosta alla Catalana non fu che un vago
ricordo!.
Giunse il giorno della partenza per Columbu e la sua ciurma, che
non andarono via certo a mani vuote: le caravelle vennero stipate
all'inverosimile con casse di Loca Cola; un'infinità di
sacchi di noccioline americane e quintali di Chewing-Gum.
Columbu ricambiò tanta generosità con tanta tela (prodotta a
Genova) per confezionare Blue Jeans e ua pischedda de casu
furriau, inoltre invitò gli americani a venire in Sardegna
con la promessa che sarebbero stati accolti a braccia aperte.
Gli americani non hanno certo dimenticato la promessa. Oggi ce li
ritroviamo piuttosto numerosi a Decimomannu, Teulada e La
Maddalena, ma si sa in Sardegna non neghiamo ospitalità a
nessuno! ...Mi sorge un interrogativo: noi sardi siamo indigeni o
indiani?
Dopo questo doveroso omaggio al nostro intrepido navigatore vi
rimando al prossimo numero.
Asta la vista. Good bye. A si Biri!
VII
"Verba volant, scripta manent". Con questa inflazionata
e supersfruttata frase latina, i nostri professori delle scuole
medie motivavano quella che era per noi studenti un'altra novità
: la nota. Nulla a che vedere con la musica, se non quella dei
probabili ceffoni che ci aspettavano a casa quando se ne prendeva
qualcuna. In effetti la nota non era altro che una delega data
dai professori ai genitori; cioè
, ai nostri, abbastanza frequenti, comportamenti scorretti in
classe seguiva l'ammonimento scritto che veniva portato a
conoscenza dei familiari, i quali garantivano l' esecuzione della
punizione materiale.
L'ammonizione verbale, per il motivo che ci entrava in un
orecchio e ci usciva dall'altro, cadde quasi in disuso, per
essere sostituita dalla nota scritta (cartellino giallo) che
diventava automaticamente rosso dopo la terza, con conseguente
sospensione dalle lezioni (espulsione dal terreno di gioco).
Sovente, però, i professori non paghi dei cartellini gialli e
rossi, si lasciavano andare ad azioni punitive
"volanti" (volant), che non erano certo parole (verba),
ma dei veri e propri U.F.O. rientranti in una gamma di oggetti
che andava dallo strofinaccio per cancellare (punizione più
leggera), al megavocabolario italiano-francese francese-italiano
(punizione più pesante), quest'ultimo paragonabile a u
brochettu de pedra de cussu' chi fadia' su spacciau de ziu Crobu
de Biddobrana: brochetusu chi in cussu tempusu ianta scògliau
tottu' i mavovallisi de sa provincia.
Questi oggetti venivano scagliati, soprattutto dalle
professoresse, a velocità vertiginose, dalla cattedra verso il
banco occupato dal rompiscatole di turno. I segni (scripta)
tangibili del centrato obiettivo, restavano (manent) spesso sulle
nostre capocce sotto forma di mumungiollusu.
Non di rado l'impatto tra gli oggetti scagliati e le nostre sarde
teste provocava l'immediata disintegrazione dell'oggetto stesso.
L'azionamento automatico della "catapulta" avveniva
istantaneamente all'insorgere di avvenimenti tipo:
1 - Copiatura spudorata del compito in classe dal compagno di
banco;
2 - Svolgimento di gare di velocità tra lumache e conseguente
tifo di quelli dell'ultimo banco;
3 - Espulsione rapida e chiassosa di noccioli di pesche
sottratte dalle piante di Don Natale;
4 - Sguardi poco velati, da parte dei maschietti, rivolti alle
gambe della prof seduta alla scrivania;
5 - Appisolamento momentaneo causato da "overdose" di
lezioni seguite alla televisione;
6 - Suggerimenti durante le interrogazioni, che sovente venivano
captati dai sensori auditivi dei prof;
7- Deflagrazione (a 1000 db) causata da scoppio bolla di
chewing-gum sapientemente gonfiata a dismisura da una delle
ragazze;
8 - Uso della lingua sarda in classe che risultava
incomprensibile (?) ai prof (tutti sardi!);
9 - Esecuzione di opere "gaffitare" sulle pareti
dell'aula inneggiagianti alla libertà (Freedom) o ai gruppi rock
del momento: Beach Boys, Beatles, Equipe 84 o i ruinesi Newsboys;
10 - Attuazione dell'effetto "zanzara", ovvero azione
continua di disturbo verbale o fisico durante le lezioni (segament'econca).
I reduci da punizione di questo tipo venivano generalmente
espulsi fuori dall'aula per tutta la durata della materia in
questione. Ovviamente questa condizione di "esiliati"
non ci pesava molto, anzi, ci permetteva di svolgere attività
"gastro vandalistiche" come saccheggiare la giara in
terracotta di Don Natale straripante di ottima ollia de corroga
cunfetàda; oppure, sotrarre pessiu e piricoccu dalle piante
dell'orto, o al limite giocare a bruciu campana nel cortile.
Naturalmente tutto questo era possibile solo ed esclusivamente in
assenza del prete, poichè essere sorpresi da lui ad eseguire una
delle "operazioni" di "furtofrutta"
significava rischiare d'incorrere in una abbondante dose di
ceffoni o altrettanto cospicua passada de puntada'de pei.
Penso che tutti quelli della mia generazione siano testimoni di
quanto sarebbe stato meglio evitare queste punizioni che
lasciavano, haimè, segni a lunga scadenza dovuti al fatto che il
"simpatico" parroco aveva la mano tutt'altro che
leggera e is iscarpinusu puntudusu chi no' beniad' a beni.
Essere sorpresi da Don Natale in condizione di castigo durante
l'ora di lezione, era comunque una situazione sempre poco
piacevole anche quando non si era sopresi a furai frutta.
Nella migliore delle ipotesi ci poteva capitare di dover fungere
da "motorino di avviamento" per la sua Fiat 600
Multipla, la quale aveva la batteria perennemente scarica. Questa
sua "dimenticanza" giustificava pienamente il fatto che
quando andava fuori paese si portava dietro un ragguardevole
numero de chirichettusu (i più robusti), prontusu a ponni in
mutu a istrappu il glorioso ferrovecchio. La speranza dei
chierichetti addetti alla messa in moto era che il parroco non si
recasse ad Oristano (tottu logu parisi), ma ad Aritzo
paese ricco, oltre che di noci, castagne e torroni, de
callàdasa.
Inevitabilmente mi trovo a parlare di questo parroco che è
stato, volenti o nolenti, un punto di riferimento per tutti noi.
Egli riusciva a portarci in chiesa usando, talvolta, mezzi poco
ortodossi (ma si sa, il fine giustifica i mezzi) tipo assistere
alla Messa per poter enrare al cinema (naturalmente pagando). I
film venivano abbondantemente decurtati delle scene da lui
giudicate "hard": per esempio quando il protagonista
maschile, s'attori, osava posare le sue labbra su quelle
della protagonista femminile. Le forbici della censura
intervenivano puntualmente martoriando la pellicola, già
malconcia di per sè. Eventuali commenti, da parte degli
spettatori, riguardanti il taglio della "celluloide",
venivano puniti dal solerte operatore, che, dalla cabina di
proiezione, si portava in un battibaleno in sala e prendendo il
malcapitato spettatore a is origasa, lo trascinava
fuori. Ovviamente la punizione non si limitava a questo, ma,
scattava automaticamente l'inibizione agli spettacoli
cinematografici fino all'accertato pentimento del colpevole e al
suo avvenuto reintegro previo u' meriu de marringiu in s'otu.
Parlare di questo parroco vuol dire, in ogni caso, rischiare di
fare un discorso non propriamente compiuto, in quanto per rendere
l'idea di quello che era realmente questo particolarissimo prete
bisognerebbe cimentarsi nella stesura di un "trattato"
biografico che conterebbe sicuramente migliaia di pagine. Detto
questo, mi limiterò a ricordare solo qulche aneddoto, affinché
chi non ha avuto "il piacere" di averci direttamente a
che fare, possa farsi un'idea della possente personalità di
questo parroco.
Punto di forza del parroco in questione erano i chierichetti: uno
stuolo di ragazzi che ufficialmente assistevano il prete durante
la messa assicurando la loro presenza a tutte le funzioni
religiose de sa missa bascia a s'arrosariu. la presenza costante
dei ragazzi non era certamente dettata esclusivamente dalla fede,
ma subentravano altri fattori che avevano ben poco a che fare con
la spiritualità. Uno dei motivi che spingeva i ragazzi a
svolgere questo compito era che ad ogni presenza sull'altare in
veste di "assistenti" corrispondeva un punto (bonus)
che sommato agli altri acquisiti dava diritto a: su suspi suspi
(lecca lecca prenuragico chi pariada su stoccu de su Cumpoidori)
per 2 punti; due partite a biliardino, gratis, per 3 punti;
cinema gratis per 5 punti; gita in 600 Multipla ad Aritzo (con
l'opzione de oddì castangia a percentualli de s'ottu po milla,
tottu su mengiau) per 50 punti.
Tutto ciò poteva anche andar bene se si osservavano le ferree
regole da lui imposte, ma nel nostro caso, che non eravamo certo
dei precisini nei regolamenti, scattava spesso la classifica
"avulsa" con conseguente scivolone dai primi posti in
classifica (zona UEFA) alla zona bassa (retrocessione) a
livellu de suspi suspi. Questo significava rincominciare a
guadagnare qualche punto che ci tirasse almeno fuori dalla zona
critica per poter usufruire di qualche "beneficio".
A far scattare le penalità potevano essere episodi di questo
genere:
furai ostiasa e a ndi bufai sa malvasia de sregrestia; imbruconai
in s'altari po crupa de u' cirichettu chi di fadia' sa trobea, a
rischiu de ispistorai su mramuru de s'altari cu' i murrusu; a si
punghi pari pari cun sa lancia de Santu Giorgi;
giogai a cua cua aintru de su cunfessionalli; a si
callai a sonnu in s'Arrosariu; cantai a trallallera
acumpangendisia cu' i matràcullasa.
La tacita annotazione di penalità veniva confermata
immediatamente da uno sguardo fulminante del prete, se lo sgarro
avveniva durante le funzioni; serie de puntada' de pei a due a
due finché non diventavano dispari, se la malefatta si svolgeva
in altri frangenti.
La nostra giornata di studenti, in pratica , si svolgeva quasi
per intero in domm'e su predi. Sia perché al mattino ci
andavamo per seguire le lezioni, sia perché di pomeriggio
passavamo ore attaccati ai giochi nel salone parrocchiale. Era
presente anche il televisore; uno dei pochi a Ruinas, no e'
chi du tengiausu a disigiu meda, visto che anche tutte le
lezioni erano televisive, ma ci permetteva di vedere qualche
cartone animato o i telefilm di quel periodo. Naturalmente anche
la visione del piccolo schermo era riservata a chi teneva un
comportamento esemplare (quindi per pochissimi) mentre gli
"abusivi" venivano gentilmente accompagnati fuori dal
locale: a tira tira.
Con questo ringrazio coloro che hanno la pazienza di seguire tottu
custusu scimproriusu e vi do appuntamento al prossimo
numero. Ciao.
VIII
Nello scorso numero mi sono un po? dilungato a parlare di un
parroco che per molti di noi è stato, come ho già detto, un
punto di riferimento per molti anni. Come ho già precisato, non
sarà mai detto abbastanza su di lui; perciò ogni tanto salterà
sicuramente fuori qualcosa che lo ha riguardato, relativamente
agli episodi o aneddoti, che assieme a parecchie
"frescacce", contribuiscono a farmi riempire pagine di
questo giornalino, in questo pseudo-racconto paragonabile al
famoso tappeto di Penelope (Di quest'ultima, probabilmente,
riparleremo più avanti).
Per parecchi questo parroco è stato colui che lo ha accompagnato
dal battesimo fino al matrimonio; questi hanno quindi dovuto
condividere con lui una buona fetta della propria esistenza,
assimilando giocoforza gli influssi di vario genere.
Don Natale, nato e vissuto nell'era del pennino, era comunque un
computer vivente. Il paragone potrebbe far sorridere, ma chi ha
avuto modo di conoscerlo a fondo non potrà che convalidare
quanto asserisco. La sua capacità di memoria, se fosse stato
possibile quantificarla, avrebbe sicuramente superato i 2
Gigabyte. Riusciva a memorizzare una miriade di informazioni e
dati, che nel momento in cui gli erano utili, rielaborava alla
velocità dei migliori processori Pentium con una frequenza di
almeno 400 Megahertz. Per chi non mastica neanche un pò di
calcolatori, si può dire che il paragone con i migliori personal
computer in circolazione, non è, tutto sommato, azzardato. A
convalida di quanto sto affermando andrò a ripescare qualche
prova concreta di quel periodo che consenta, a chi non lo ha
conosciuto, di capire le doti di quell'uomo.
Come ho già fatto notare in precedenza, chi non si recava a
messa la domenica non poteva accampare nessun diritto per poter
assistere agli spettacoli cinematografici domenicali. Considerato
che in quel periodo, per svariati motivi, la chiesa era sempre
strapiena; preso atto che, allora, il Celebrante officiava le
funzioni rivolgendo le spalle al pubblico per quasi tutta la
durata delle stesse, a eccezione de sa predica; appurato che
molti fedeli solevano sistemarsi nelle cappelle laterali (mesu
cuàusu); la domanda, per dirla alla Lubrano, sorge
spontanea: cumenti tiàmmana fadiada a s'arregodai tottu is
chi fuant' a cresia?
Dalle nostre teste, con pochi Byte di memoria, scaturì un piano
strategico per aggirare l'ostacolo, la strategia era molto
semplice: intrai a cresia scètti a s'ora de sa predica;
farsi inquadrare dal suo "sguardo panoramico" a 360°,
quindi, finita l'Omelia, sgattaiolare nuovamente fuori!
La domenica pomeriggio, tottu togusu, ci presentavamo
all'ingresso della "sala cinematografica" con le nostre
cinquantalire, sudate fendi cummescioisi, per il
biglietto d'ingresso. Alla scontata domanda: << Ma voi
c'eravate a messa?>>; seguiva l'altrettanto scontata
risposta: << Ge ddu creu, dall'inizio alla
fine!>>. Quasi istantaneamente scattava il suo dito indice
rivolto verso il cancelletto, accompagnato da un'alzata di testa,
che senza bisogno di chiarimenti verbali, lasciava intendere che
dovevamo guadagnare immediatamente l'uscita pena l'azionamento
immediato della macchina distributrice de iscafìtasa.
Chiaramente, pensando che qualcuno avesse fatto la spia, la
domenica seguente ritentavamo lo scherzetto. Dunque ci
ripresentavamo con fare sicuro alla soglia del
"salone", dove si proiettava per la ventesima volta
"sette pistole sparano": film dove la parte della
protagonista femminile, a causa delle forbici, s'era ridotta a
qualche minuto in tutta la pellicola. Per i recidivi, quali noi
eravamo, non era prevista nemmeno la domanda di rito. Appurato,
in una frazione di secondo, che nel "File" presentiamessa
non risultavano i nostri nomi, il parroco si accingeva a darci il
suo "benvenuti pargoli", ma noi velocissimi archetipi
del Concorde avevamo già preso il volo.
Il dubbio su come facesse a notare che si entrava in chiesa
soltanto all'ora della "predica", ce lo siamo portato
dietro per tutti questi anni senza peraltro trovare una risposta.
Oggi nell'era del computer viene lecito pensare che nel costruire
i primi chip per i processori si siano ispirati al prete in
questione!
Ma ritorniamo alla sfera scolastica, fermo restando che con molta
probabilità avremo di nuovo a che fare con col nostro ex
parroco.
Da che mondo è mondo, chiedere agli studenti se vanno a scuola
volentieri, è quantomeno superfluo per l'implicita risposta già
scontata. Risposta sicuramente condivisa da almeno il novanta per
cento degli interessati, lasciando ai "secchioni" il
restante dieci per cento.
Uno dei pochi stimoli che inducevano noi (maschietti) ad andare,
non dico volentieri, ma con una consistente dose di paranoia in
meno, era la presenza della nostra professoressa delle materie
scientifiche. Il fisico slanciato; una serie di curve tipo
"Scala di Giocca", tutte collocate nei punti giusti; un
caschetto di capelli nero corvino da tipica bellezza
mediterranea; uno sguardo accattivante e un sorriso (molto raro)
da favola, facevano si che questa adorabile creatura turbasse i
nostri sogni di adolescenti occupando parecchio spazio nella
nostra fascia onirica a maggior traffico, tipico delle ore di
punta. Chiaramente una donna di quel calibro non sfuggiva alle
attenzioni dei soliti "vitelloni" del paese che le
orbitavano intorno a tipu crobusu.
La nostra venerazione per questo capolavoro della natura si
manifestava con metodi poco ortodossi che, nella maggior parte
dei casi, non facevano altro che produrre risultati negativi o
comunque contrari alle nostre aspettative.
Un giorno, sperando che non si spaventasse troppo, collocammo ua
zillighetta (cassada a lobu) chi pariada u'
cocodrillu, nel cassetto della sua scrivania. Il nostro
inconsueto silenzio, al suo ingresso, non presagiva niente di
buono e ciò non era certamente sfuggito alla nostra prof, che
con fare guardingo si accinse ad aprire il cassetto. Tutti
eravamo preparati al peggio. Non successe niente di quello che ci
aspettavamo: prese in mano con dolcezza e delicatezza il povero zillihettosauro
tottu strodoinau de su friusu, lasciandoci di stucco per il
mancato spavento. Dalla presenza di quel simpatico animaletto
trasse due ore di lezione di osservazioni scientifiche con
rispettivo compito a casa!
La stessa professoressa, che insegnava educazione artistica,
soleva farci svolgere temi dal vero e quando ci disse che
dovevamo ritrarre lei stessa partimmo a razzo con l'entusiasmo
degno di Picasso nei momenti di maggiore ispirazione.
Fu così che lei si sedette sulla seggiola accavallando le gambe
affusolate, lasciate pittosto scoperte da quell'invenzione che in
seguito sarebbe stata ufficialmente attribuita a Mary Quant: la
minigonna.
I nostri colori pastello viaggiavano a ritmi vertiginosi (il
pennello era allora ad appannaggio di pochi), tutti ci sentivamo
dei piccoli Michelangelo indaffarati a realizzare la nostra
"Pietà", ma l'unica pietà in gioco era quella che i
nostri disegni avrebbero suscitato in chiunque li avesse poi (per
sua sfortuna) dovuti esaminare.
Bisogna precisare che in quei tempi (non so se succede ancora
adesso) coloro che non potevano aspirare a fare il
"pivot" nella nazionale di pallacanestro cioè i
basciusu, venivano sistemati nei primi banchi. Solitamente
questo fatto sminuiva un pò gli interessati, me compreso, ma in
quel caso fummo ben felici di non essere dei "vatussi".
Giunse il momento di consegnare le "opere" e tutti
restammo con il fiato sospeso aspettando il voto. I fogli
scorrevano pittosto veloci nelle mani della prof, per soffermarsi
un po' di più sui disegni di quelli del primo banco. I dipinti
in questione erano una sorta di "ibrido" che ricordava
in parte la Gioconda e in parte una coniglietta di Play Boy, con
le parti discinte piuttosto in evidenza, vista la nostra
posizione ravvicinata al soggetto e l'angolo di osservazione dal
basso verso l'alto.
Il nostro stile di pittura tendente al (troppo)
"realismo" giocò un ruolo fondamentale
nell'assegnazione del voto sicuramente inferiore alle nostre
aspettative: dusu!
Quel voto, secondo noi poco obiettivo, ci fece comunque capire
che nessuno di noi avrebbe mai avuto l'onore di esporre qualcosa
al Louvre di Parigi o negli Uffizi di Firenze!
Con questo vi do appuntamento al prossimo numero, a si bi' cun
salludi!
IX
Mentre il fumo della sigaretta, che tengo accesa in mano, sale
lentamente formando tanti cerchi (ovviamente color fumo di
Londra), che salendo verso il soffitto ingiallito (ormai),
dall'enorme quantità di Philipu Marras fumate,
diventano, sfumando, sempre più grandi; il monitor del computer
mi osserva mentre ogni tanto mi gratto la testa. Talvolta sembra
quasi che sogghigni, e al posto della solita finestra (windows),
vedo prendere forma una bocca mostruosa con un'infinità di denti
altrettanto mostruosi, che minacciosamente mi dice: <<Hai
finito di propinare le tue baggianate agli incolpevoli lettori,
che tra una puntata a is Aruttas, crichendi de cuccai; un
vermentino o una birra "agricola" asutta de is
peraculusu de Andrea e Gennaro o in su bar de Valter o pappendi
casu furriau in domu, sfogliano svogliatamente s'Oghi Nosta.
Il tuo repertorio demenzial-sardopatico si è, con gaudio
generale, esaurito!!>>. In quel preciso istante, la
bestiaccia a 12" (il monitor) apre le sue immense fauci e
mentre si accinge a mi mossiai a conca, vengo inaspettatamente
salvato dalla brace della sigaretta, che consumatasi
completamente tra l' indice e il medio, con un dolore
indescrivibile, mi sveglia dal torpore e mi riporta alla realtà
dello schermo bianco e della ventola di raffreddamento del
computer, che gira pigramente e se potesse, sicuramente, si
sarebbe già rivolta al sindacato reclamando le proprie
sacrosante ferie!
Mi ritrovo quindi di fronte al video con l'amletico dilemma:
questa "puntata" s'ha o non s'ha da fare? Riuscirà
questo Wilbur Smith (?) della Marmilla a trovare argomenti per
continuare a intasare l'hard disk e distrarre gli affezionati
lettori dalla loro ginnastica napoletana (cura del sonno) e dalla
immancabile e piacevole caccia al flirt estivo? L'impresa si
presenta ardua, probabilmente più complessa del rimettere il
dentifricio dentro il tubetto (così diceva un mio amico quando
si parlava di realizzare cose impossibili).
Ma lo scrittore in erba non può demordere, non può certo farsi
"stoppare" dalla calura estiva; non può sottrarsi al
proprio dovere di sollevare il morale al concittadino, stressato
da undici mesi di duro lavoro, trascorsi a stringere bulloni alle
"Bravo" e "Brava", nelle catene di montaggio
della Fiat; mesisi aporrendi paiollu' de cimentu ai
muradorisi chi funti sempri aboghinendi; mesi passati tra
vagonate di pratiche da sbrigare e snervanti battaglie, con
rispettivi calci agli stinchi, per respingere le pesanti avances
di quell'avvoltoio del capufficio lasciato a secco dalla moglie;
mesi passati dietro alle pecore, studiando tutti gli stratagemmi
più possibili e immaginabili per fargli aumentare la produzione
del latte anche di pochi litri!
No....non posso, sento che dovrò rinunciare a qualche giorno
delle mie ferie alle Virgin Islands, ma almeno mi sentirò a
posto con la coscienza, e non è poco!
A tutte queste motivazioni, peraltro molto valide, si aggiunga il
fatto che sono stato spronato (inaspettatamente devo dire) a
proseguire, da amici che stanno fuori dalla Sardegna. Per contro
sono stato precettato dagli studenti a esimermi dal parlare di
scuola, almeno in questo periodo di vacanze. Sono quindi nella
classica e scomoda posizione tra l'incudine e il martello, e
allora che fare? In questi casi vige il compromesso: restare sul
"soft", senza irritare ne gli uni ne gli altri.
Accantoniamo, quindi, per questa "puntata" il discorso
scuola e parliamo di vacanze!
Torniamo indietro al periodo dell'adolescenza e cerchiamo di
vedere quali siano le differenze fondamentali tra le estati di
allora e quelle di oggi. Prima differenza: sa basca; oggi la
temperatura sembra mantenersi su standard abbastanza tranquilli,
allora l'estate durava da maggio a ottobre con temperature da
tropico del cancro!
Oggi c'è la corsa esasperata al mare per farsi un'abbronzatura
decente. Allora bastava mettere il naso fuori di casa e fusti
nieddu che su trumentu. Qualche maligno, oggi, dice che a
giocare un ruolo fondamentale nella formazione dell'abbronzatura
era (allora) su sodri.
Per i più giovani si rende necessaria una spiegazione. Su
sodri non era altro che una spessa corteccia che rivestiva
la pelle ed era essenzialmente costituita da: su pruini
pinnicau imbuscinendi me i' bìasa; la resina dei tronchi
degli alberi che scalavamo continuamente po callai nìusu o
pira; il pigmento lasciato dal dorso degli asini, cavalcati
a "pelo", sulle gambe nude; il tutto reso omogeneo dal
sudore che scendeva copioso dalla testa ai piedi e che fungeva
esattamente da catalizzatore, dando uniformità e resistenza alla
spessa pellicola, al punto che per eliminarla non bastava neanche
una superconcentrata lissìa.
Questa pigmentazione conferiva alla pelle (già scura) un colore
ebano e la rendeva talmente liscia che il sughero al confronto
sembrava seta orientale (quasi come la pelle di Naomi Campbell!).
Ovviamente la sera, prima di andare a letto, aveva luogo
l'operazione "disincrostazione" che consisteva nel
portare l'acqua, contenuta in 'du creddaggiu, alla
temperatura di ebollizione (tipu po spinniai procheddusu)
l'interessato vi si immergeva dentro e con considerevole dose di
olio di gomito e spazzola si asportava a mo' di estrazione de otìgu
"la seconda pelle".
Il liquido ottenuto a fine operazione veniva utilizzato per la
produzione di un conglomerato bitumoso che ancora oggi si usa per
asfaltare le strade!
A prescindere da queste boiate, allora faceva caldo veramente.
Noi ragazzi non perdevamo certo il nostro tempo a dormire dopo
pranzo (cosa che tutti i normali esseri umani facevano). Anzi per
noi quella era l'ora migliore per fare di tutto e di più , in
quanto sfuggivamo a qualsiasi genere di controllo. Non ci
fermavano neanche le minacce che un essere misterioso avrebbe
sicuramente punito che si fosse permesso di starsene in giru a
or' e solli. Si trattava di Maria Solliàna che osservava
dall'alto e avrebbe punito i recidivi lanciando la sua scure
sulla loro testa con il risultato de d'aberri sa conca in
dusu cumente ua pilladra de tamàtasa. Nessuno di noi si è
(per fortuna) ritrovato con la testa aperta in due nè tantomeno
con il sale in zucca!
Altra differenza fondamentale tra oggi e allora erano le spiagge
frequentate: oggi Is Aruttas; Baia Sardinia; Baia Chia ecc. Ieri:
is aruttas (de Sollimandara); Baecanna; Baelliu. Ma una
delle "spiagge" più battute (candu no ettànta
brebeisi) era sicuramente Barralla Beach che
permetteva anche i tuffi da due livelli: de sa conchitedda e
de s'arradellu, quest'ultimo per i più temerari che si
lanciavano a pei in abba.
Immancabilmente anche allora esisteva la spiaggia dei VIP: su
ponti. Vi si recava chi amava fare sa zilighetta tottu sa di'
sdraiati al sole e fendi is cocodrillusu in sa pischinedda
andendi e torrendi de su corongeddu a sa spiagedda.
Questi "VIPS" ( Very Important Poburusu Spiantausu)
erano tali soprattutto perchè avevano appresso almeno qualche
birra fresca; per noi "infiltrati" il drink più
elaborato era s'abba de sa minza. Era così leggera che
un giorno Messner, passando da quelle parti per scalare is
Conca' de s'Arughi, morend' e sidi, ne bevve u' opìa (
sorta di bicchiere in sughero n.d.r.), la conseguenza fu che non
ce la fece a scalare il muretto che dava sulla strada: fu
toccau a 'ndi d'aziai a carriadroggiu!
Si sa, per i VIP la vita non è mai semplice in quanto il plebeo
sembra che abbia come missione in Terra, quella di creargli
fastidi e rendergli la vita difficile, proprio come su sinzùlu.
La "spiaggia" - che di giorno era sempre occupata da
loro - noi potevamo utilizzarla solo la sera e questo ci
infastidiva alquanto. Ovvio quindi che ci sentissimo spinti a
rendere la vita un po' complicata a questi "vipisi".
Uno scherzo abbastanza frequente consisteva nell'occultare,
immediatamente sotto la superfice sabbiosa, la
"sorpresina". Quindi si riportava perfettamente la
sabbia alle condizioni naturali e si andava via facendo
ovviamente bene attenzione a non passarci sopra. L'indomani
mattina, prima che arrivassero i "bagnanti" più
mattutini ci appostavamo a debita distanza (fuori tiro de
pedra), in postazione ottimale per osservare la scena.
I VIPS ancora insonnoliti non facevano altro che buttarsi
immediatamente sulla sabbia, e quì cominciavano veramente i
dolori (nel vero senso della parola). Sotto la sabbia stavano
perfettamente celate le foglie di fico d'india con annesse le
micidiali spine che non vedevano l'ora di conficcarsi nei glutei
dei "pseudo-bagnanti". Alle loro grida di dolore miste
a rabbia si miscelavano le nostre risate, ed era a quel punto che
si svolgeva la scena madre. Individuata immediatamente la nostra
posizione partiva una fitta sassaiola nella nostra direzione,
talmente fitta che sembrava una pioggia di meteoriti nella notte
di S. Lorenzo!
A quel punto era doverosa, da parte nostra, una solenne ritirata,
con gli "aspiranti fachiri" che tentavano un
inseguimento in stile Custer. Chiaramente noi, avendo un buon
margine, riuscivamo, in genere, a seminarli; anche se talvolta
qualcuno veniva agguantato e in quel caso per il malcapitato si
prospettava un'allegra mattinata all'insegna de is corpusu
dosati in proporzione alla numerosità del "commando".
Sempre a proposito di abbronzatura è curioso ricordare come a
quei tempi si diventasse così neri in breve tempo, nonostante
l'acqua dolce del fiume abbia potere di agevolare l'abbronzatura
meno di quella di mare. Al contrario, oggi si vedono numerosi
gruppi di ragazzi, attrezzati di enormi asciugamani che sembrano
tendoni da circo (che se dovessero veramente stenderli tutti, in
spiaggia no ddu iadai pru logu po nisciunusu); candu
torrant' a bidda funti pru biancusu de candu funt' andausu.
I commenti dei soliti perdigiorno che sono sempre in strada de
candu obreschidi a candu scuricada (ai quali non sfugge
assolutamente nulla) non riuscivano a dare una spiegazione a
questo fenomeno. C'era chi diceva che ormai stiamo andando verso
l'era glaciale e quindi il sole ha perso parecchi gradi di
temperatura; c'era chi diceva che anche il sardo non è più
quello di prima (piccolo e nero) ma sta diventando come i
"polentoni" biancusu che sa labrast' e sa nia;
oppure chi diceva <<Funti tottu sa di' aintr' e s'abba,
ammarolla no s' innièddiganta!>>. Nulla di tutto
questo. La vera spiegazione è molto semplice: de candu
arribanta a innia, finzasa a ora de 'ndi torrai, abàrranta tottu
sa di' buffendi birra asutta de is cannizzadasa me i barracasa de
is Aruttas!
Altra differenza: le "merende" (nulla a che vedere con
Pacciani). Oggi i ragazzi si portano al mare le loro brave
merendine costituite generalmente da panini enormi (mustazzusu
intreusu) imbottiti con quantità industriali di mortadella,
oppure bottusu de nutella chi parinti cracìdasa, o làdasa
intreasa cun bistecca' de cuaddu.
Quando si scendeva al fiume, allora, lo si faceva purtroppo a
stomaco vuoto e senza zaini o bètullasa appresso.
Ovviamente dopo la discesa (a piedi) e le lunghe nuotate ci
veniva un certo appettito, quindi al ritorno, non avendo niente
di meglio ci facevamo delle solenni sazzadasa de pira mianesa e
tonificante acqua de minza, che ci appesantivano a tal punto che
salire dal fiume diventava un' impresa eccezionale!
Oggi, come allora, c'è comunque chi non gli può fregar di meno
dell'abbronzatura e si dedica alla pesca. Allora ci si recava al
fiume e attrezzati esclusivamente di buona volontà, si passavano
le giornate a forrogai in mesu de sa stoia o me is tanasa
per tirare fuori qualche carpa o tinca che non si faceva in tempo
a prenderle (a mano) che già stavano arrostendo in un allegro
focherello di lentisco. Oggi si va al mare per orate e spigole.
Attrezzati di muta subacquea da 20 mm (mod. polo nord), maschera
autofocus, pinne che ti imprimono una velocità da Off Shore,
fucili da sub a fiocina intelligente che fanno arrossire i
Patriot americani usati contro Saddam, canne da pesca in fibra di
carbonio con mulinelli costosimmi e lenze invisibili che tengono
un cetaceo, esche vive con tanto di "pedigree",
talmente care che costano più delle aragoste! Il tutto per
portare a case delle prede "mostruose" talvolta più
piccole delle esche stesse!
X
La fine delle vacanze è, certamente, uno degli eventi più
tristi che si possano verificare nel corso della nostra vita.
Forse, con lo stesso quoziente di tristezza (ex equo), possono
trovarsi in classifica: la fine di un grande amore e l'ufficiale
giudiziario che, imperterrito, bussa alla nostra porta per
pignorarci i mobili.
La tristezza viene, se è possibile, ulteriormente amplificata a
dismisura se alla fine delle vacanze segue il rientro a scuola.
Fortunatamente questa tristezza si attenua dopo i primi giorni di
scuola per lasciare posto a un sentimento meno cupo, ma non per
questo meno preoccupante: la rassegnazione. Ci si rassegna, ci si
abitua all'idea che se non si studia si deve lavorare, il che
potrebbe essere anche peggio. Conseguentemente la rassegnazione
si trasforma in abitudine. Si va a scuola quasi per inerzia e
già dal secondo mese incomincia il count-down, ovvero il conto
alla rovescia dei giorni che mancano alle prossime vacanze.
Ovviamente anche la tristezza si manifesta a vari gradi di
intensità (come la scala dei grigi): i più tristi in assoluto
sono i cosidetti "primini", ossia le matricole (quelli
che frequentano la prima classe di ogni ciclo scolastico). Si
riconoscono fra mille. Normalmente appaiono a disagio, si
guardano intorno con aria circospetta, quasi come se da ogni
angolo possa spuntare un potenziale scuartatore di studenti
novelli, pronto a infierire su di loro con orribili coltellacci.
Si riconoscono subito per lo zaino enorme rigorosamente
"griffato" onde escludere qualsiasi possibilità di
essere scambiati po peddizoisi. Gli zaini in questione, roba che
neanche chi va a scalare l'Himalaya ce l'ha così grandi,
potrebbero contenere sicuramente duasa o tres' quarra' de pira.
Contengono invece decine di chili di libri che insieme al
portatore passano alla "pesatura" prima delll'ingresso
a scuola; chi sta sotto il quintale viene penalizzato con
l'obbligo di tenere lo zaino in spalla per tutta l'ora delle
lezioni.
Inspiegabilmente il carico diminuisce gradatamente con il
passaggio dello studente alle classi superiori; in seconda il
peso viene quasi dimezzato, per ritrovarsi poi alla fine del
ciclo scolastico con un bagaglio apresso "peso piuma":
un quaderno ultrapiatto molto "casual" (possibilmente
finito in lavatrice insieme ai jeans per un trattamento
stone-wash) e una biro del tipo "in via di estinzione".
Per i benpensanti questo potrebbe significare che più si avanza
con gli studi meno si studia; invece la realtà è completamente
diversa: lo studente munito di regolare certificato medico
(rilasciato dalle autorità sanitarie competenti), attestante un
grado di invalidità superiore all'ottanta per cento, a seguito
di deformazione irreversibile della spina dorsale, dovuto a
"sovraccarico culturale" continuato; viene
automaticamente esonerato dall'obbligo della "pesatura"
e di conseguenza dall'essere costretto a portarsi dietro muntoisi
de lìburusu. In questo senso devo dire che non è cambiato molto
da quando andavamo a scuola noialtri. La differenza fondamentale
sta sicuramente nel tipo di zaino: come già detto, oggi
rigorosamente di marca e che non costi meno di mezzo salario
mensile, calcolato sulla base dell'ultimo contratto nazionale dei
metalmeccanici, portata utile (esclusa la tara) minima di un
quintale; ieri, zero zaino, unico lusso una fascia elastica che
permetteva di tenere insieme i volumi; i meno abbienti usavano,
in sostituzione della fascia elastica, codreddasa o materiali
similari. I quaderni che portavamo allora diventavano vecchi fin
dal primo giorno di scuola e quando erano pieni zeppi di appunti
sembravano pergamene egizie, talmente erano invecchiati. Oggi
sarebbero dei cimeli storici se non fossero finiti nei forni a
legna, parisi a i fascìnasa de mudregu, po allui su
fogu po coi i ladigheddasa e i mustazzusu.
Non bisogna comunque drammatizzare più di tanto il rientro a
scuola, perchè in fondo presenta anche i suoi lati positivi. -Magalli!,
diranno in molti, non riferendosi al presentatore della
televisione. A prescindere dal discorso puramente istruttivo,
c'è da far notare il discorso sociale, ovvero il ritrovare i
propri compagni di "sventura" ( a pati is chi si
funti scoigiasu po motivu' de crocoriga) per dividere con
loro i momenti tristi e quelli felici, (sicuramente un pò più
rari) o appurare se almeno qualcuno dei prof sia stato sostituito
con un altro più tollerante e più propenso alla chiacchera, in
modo da poter assotigliare sensibilmente le lunghe ore di
lezione.
Un altro aspetto positivo dell'andare a scuola era, almeno ai
miei tempi, che essendo appunto a scuola no si podianta
"stressai" mandendisi' a fai cumesciosi. Già per
noi era veramente stressante: no accudiast' a torrai de fai
ua cumescioi ca fuanta giai mandendidi' a u'antru logu.
talvolta capitava che durante il tragitto si venisse mandati a su
stangu per comprare gigarrusu o a sa starìa per un
fiasco di vino. Naturalmente era impossibile rifiutarsi perchè
si andava incontro alle solite sanzioni punitive del tipo callada'
de pei. Questo servizio di corrieri "veloci" viene
egregiamente svolto, oggi (per la fortuna dei ragazzi) da Sidoru,
che sta rendendo un servizio chi no ddu paga' dinai, non
solo ai beneficiari de is cumesciosi, ma soprattutto
alle nuove generazioni che sono, appunto, completamente esonerate
da questo servizio. Inutile dire che lo svolgimento de is
cumescioisi non produceva per noi esecutori (tranne in qualche
caso eccezionale) alcun reddito, ma soltanto, a conclusione del
servizio, un breve ringraziamento tipo: "bravu la'!"
pronunciato con un tono molto particolare che lasciava intendere
quanto fosse stato conveniente per noi non esserci rifiutati di
svolgere tale servizio!
Is pagu' cumesciosi chi cumbenianta fuanta i mandàdasa:
ovvero portare l'uva (nel periodo della vendemmia), o la carne
del maiale (sa di' dopu chi si occhia' su procu), ai
parenti e ai vicini di casa. Con un piatto avvolto in un candido
tovagliolo si portavano molto volentieri queste mandadasa,
che venivano sempre generosamente ricompensate, dal ricevente,
con sonanti monete! Per molti di noi la ricchezza era comunque
destinata a durare poco: alla fine della campagna de i'
mandadasa, su 'inai, andaiausu a si ddu giogai tottu a tiradasa o
a pesadasa. I perdenti torrànta pru poburu' de primu; i
fortunati vincitori (is coffàusu) si ritiravano,
momentaneamente, a casa con le tasche piene, salvo rimettere in
gioco il malloppo (decurtato dalle spese folli in castange'
Napuli o gazzosa), il giorno dopo.
Ritorniamo alla scuola, che nel contesto del discorso "dal
pennino al computer", come già detto, occupa un ruolo di
primaria importanza.
Una grossa pecca dei locali adibiti ad aule è sempre stato il
riscaldamento. Oggi bene o male esistono gli impianti di
riscaldamento che, anche se funzionano a singhiozzo, consentono
perlomeno di non morire assiderati. Ai nostri tempi l'unica forma
di riscaldamento, che se vogliamo si poteva anche definire a
energia "pulita", consisteva nel calore prodotto da
coloro che andavano a scuola per scaldare le sedie, e vi assicuro
che non erano pochi! Grazie a loro, e a is casiddeddu' de
brascia, siamo sopravvissuti ai rigidi inverni di allora!
questo non vuol dire che oggi non ci siano quelli che vanno a
scuola per "produrre calore", anzi, a tanti gli fuma
talmente tanto la testa che i pompieri hanno un bel daffare
corrrendo quotidianamente da una scuola all'altra per
raffredddare questi crani in ebollizione, manco fossero dei
reattori nucleari! A far fumare queste nobili teste non sono
tanto la trigonometria o i concetti filosofici ma is
penzamentu' de is picciocheddusu chi no binti s'ora de 'ndi essi'
de iscolla.
Uno dei motivi che spinge gli studenti di oggi a "fare
vela" (marinare la scuola) è appunto il bisogno fisiologico
di far raffreddare la "testata", onde evitarne,
appunto, la fusione.
Ai nostri tempi a no intrai a iscola si correvano dei
grossi rischi e se ci andava bene, il minimo che poteva capitarci
era: cadra segura. Questo perchè, o si andava a furai
frutta, quindi se ti beccava su meri erano guai; oppure si andava
a giocare a pallone a Su Legau senza l'indispensabile
autorizzazione di Don Natale. In quest'ultimo caso le
possibilità de buscai sa cadra diventavano doppie.
Primo caso. Essendo allora il campo di calcio del tipo erboso (a
foraggiu) era adibito anche a pascolo po bestiamin' e
ullu (bovini), poteva sorprenderti l'affituario che
gridando: su tiaull' e su baticorru chi s'inda' betiu, eita
stocada 'nchi fadeis' innoi! Con la patadesa riduceva il pallone
a spicchi tipu arangiu e, armau de càvuna, iniziava un
inseguimento che era sicuramente molto salutare evitare.
Secondo caso. Poteva sorprenderci direttamente Don Natale che
(più silenzioso di una pantera) arrivava sul posto senza che
nessuno se ne accorgesse; compariva improvvisamente in un punto
indefinito del campo; in quel momento si sollevava la sottana e
quello era il segnale che si dovevano sfruttare tutte le energie
per intraprendere una velocissima fuga! Conoscendo le sue doti
atletiche, copriva i cento metri in 8 secondi netti (senza
anabolizzanti) altro che Ben Jhonson! Non ci restava altro da
fare che cercare di "bruciarlo" sulla partenza; in quel
preciso istante partivamo cument'e tiru' de balla conc'a
Bevenosu, paria' ca etaiau' fogu! certo non potevano darci
fastidio i tacchetti delle scarpette, che non sapevamo nemmeno
com'erano fatti! Per i meno veloci erano cavoli amari: durante
l'inseguimento, senza perdere il ritmo della corsa, riusciva ad
assestare dei micidiali calci nel fondoschiena dei malcapitati,
finchè non ne agguantava qualcuno al quale d'agabàda de
scutullai su pruini! Chi riusciva a scappare non poteva
certo dire di averla fatta franca. Infatti sa cadra era soltanto
rinviata a nuovo ordine, questo perchè, come già detto in
precedenza, il nostro parroco (dalla memoria computerizzata)
ricordava perfettamente i nomi di tutti i presenti, che prima o
poi sarebbero passati obbligatoriamente da lui nel salone
parrocchiale. A nulla serviva, quindi, astenersi dal passare da
quelle parti per un paio di giorni. Quando ci riavvicinavamo da
lui lo facevamo con fare indifferente, ma molto guardingo e
preparati al peggio, nel momento in cui notavamo che ci
"puntava", si cercava di guadagnare velocemente
l'uscita, e, nel migliore dei casi ua puntad' e pei no si
'ndi dda lea' nisciunusu!
Certo in quel periodo la vita per gli aspiranti calciatori era
molto dura. Infatti fino a ché (parecchi anni dopo) l'accesso al
"campo sportivo" non fu quasi del tutto liberalizzato
(quasi, perché l'utilizzo era sempre condizionato dalla presenza
a messa la domenica) trovare un posto che permettesse, non dico
di giocare, ma almeno di fare quattro tiri al pallone, era
piuttosto complicato. Siccome la testa no dda potaiausu sceti
po estetica (come disse qualcuno), dovevamo ingegnarci a
"inventare" degli spazi che, anche se non erano il
Maracana', potessero permetterci di giocare. Fu così che
provammo prima in località Chistingioisi: u cungiau chi si
paia' pàrisi ma sicuramente aveva il 20% di pendenza! (poburusu
a chi' ddi tocàd' a giogai contra' susu!). Dopo aver
trascorso un paio di giorni a ddu spedriai cominciammo a
svolgervi la nostra attività calcistica, che non durò molto poita
tottusu ollianta giogai conc'a giossu!
Provammo allora nella cava di trachite di ziu Crobu in località Is
Pirasa, che se non altro era in piano, sempre che non ci
fosse qualche gradino in mezzo che poteva comprometterne
l'agibilità. Certo che lì il tappeto erboso lasciava un po' a
desiderare, infatti al posto della soffice erbetta c'era il piano
di trachite totalmente coperto da un consistente manto di polvere
prodotto dalle seghe circolari usate da ziu Crobu per tagliare i
blocchi. Potete quindi immaginare in quali condizioni si
rientrava a casa dopo le "partite"; si finiva tottu
pistausu e talmente ricoperti di polvere che, al rientro in
paese, potevamo essere scambiati benissimo per sculture di
Pinuccio Sciola!
XI
Talvolta il progresso può essere controproducente. Può sembrare
una delle tantissime frasi fatte che solitamente, non sapendo
come cominciare uno scritto, vengono sfruttate per dare una certa
risonanza a ciò che seguirà.
Perché ho aperto con questa frase; la motivazione mi viene
offerta pensando alla televisione, che sicuramente è importante
in questo, ormai solito, discorso "Dal pennino al
computer".
Non troppo tempo addietro, stiamo parlando di circa trent'anni fa
o giù di li, non esisteva il telecomando. E già, certo che non
esisteva, perché non sarebbe servito a niente. Questo per dire
che allora la televisione era limitata a un solo canale: il primo
della RAI. Oggi esistono un'infinità di canali pubblici e
privati, a pagamento, satellitari analogici, digitali e via
discorrendo. Le cose si sono talmente complicate che un solo
telecomando, ormai, non basta più. Aveva quindi ragione Arbore,
quando in una sua canzone cantava che in effetti a comandare in
casa è colui che ha in mano il telecomando, appunto. Ovviamente
chi ha in mano questo preziosissimo strumento deve guardarsi le
spalle dai predatori, che non aspettano altro che il detentore si
distragga o si callidi a sonnu, un attimo, per poterglielo
sottrarre. Naturale, quindi, che colui che ha in mano "lo
strumento di piacere", abbia sempre con se sa lipedda per
respingere i continui assalti dei maniaci dello
"zapping". Non si contano più, ormai, le vittime
causate dalla sindrome da telecomando; non siamo lontani, come
numero, dalle vittime causate dall' Aids, dall'eroina o dagli
incidenti stradali! Può quindi capitare che visitando il
cimitero si possa vedere una lapide, a forma di piccolo schermo,
con una scritta tipo:
Ovideo Manca 1950 - 1997 Caduto da valoroso mentre con
assoluto sprezzo del pericolo tentava, mettendo in essere
un'azione eroica, di sottrarre il telecomando al nemico.
Nonostante le quindici coltellate infertegli riusciva a strappare
la terribile arma al nemico, e prima di spirare faceva in tempo a
cambiare su tutti i canali Mediaset, Rai e pay TV. Che il suo
eroico gesto sia di monito per le nuove generazioni, affinchè si
adoperino per salvare l'intera umanità dai despoti in possesso
della micidiale arma.
I videodipendenti, Posero.
Le nuove generazioni, come auspicato, stanno cercando di
risolvere il problema evitando, nei limiti del possibile che
altro sangue, anche se per una giusta causa, venga versato.
Un primo tentativo, purtroppo non andato a buon fine, è stato
fatto con l'assegnazione di un telecomando a ogni membro della
famiglia. Ciò sembrava poter risolvere il problema, aggiungendo,
se possibile, un po' di sana competizione giocata sulla velocità
di cambio da un canale all'altro! Bisogna dire che questo sistema
ha portato a un notevole calo delle vittime causate da
videotelecomandomania, ma non ha risolto definitivamente il
problema. Un'altra soluzione prospettata è quella di dotare le
famiglie di tanti televisori quanti sono i componenti de nucleo
familiare. Per le famiglie numerose dovrebbe farsi carico delle
spese, la Comunità Europea. La soluzione, ha ulteriormente
migliorato la situazione, ma ha creato un altro problema: toccada
a 'nhi ogai i mobillisi a forasa po dd'u istai tottu cussas
televisioisi!
Le case produttrici si stanno adoperando per risolvere il
problema: l'ultima soluzione proposta è una sorta di mostro a
forma poligonale (intorno al quale siede la famiglia), che ha,
incastonato, in ciascun lato, un video. Vasta la gamma proposta:
si va dal modello Renato Zero (triangolare) per le famiglie
moderne o per la coppia + l'amante; al modello Bossi
(dodecagonale) per le coppie del sud con dieci figli! Sovente il
problema non è tanto il televisore quanto il telecomando in se
stesso. Mi spiego (disse la tovaglia): alla fine ciò che conta
veramente è avere un telecomando in mano; cosicchè può
succedere di vedere Il capofamiglia con il telecomando del
televisore; un altro componente della famiglia con il telecomando
per le luci; un altro con il telecomando per l'aria condizionata;
un altro con il telecomando po fai smitti de istiddiai su
grifoni; un altro con il trelecomando po sullai su fogu;
un altro con il telecomando per telecomandare i telecomandi!
Insomma: po ponni totttu' cussus "talligumandusu"
toccada a tei degussa' geminerasa antigasa cun du cantoi longu
assumancu ua parigh'e metrusu!
Ma nel contesto della scuola, eita 'inchintrada custu
"talligumandu"? E quì devo ricordare che le
scuole medie dei miei tempi si svolgevano seguendo le lezioni
alla televisione. Certo allora ci avrebbe fatto comodo avere il
telecomando, non solo per poter saltare dal canale in cui si
trasmetteva la noiosa lezione di algebra a un concerto dei
Beatles, ma anche per "spegnere" a nostro piacimento la
sbraitante prof, oppure per trasformare il televisore in video
game! Certo che a quei tempi con un solo canale televisivo ddu
ia' pagu de si brigai, toccada ammarolla a castiai cussu o nudda!
Per noi studenti, poi, era proprio una fregatura in quanto
seguendo le lezioni televisive nell'unico programma esistente,
l'unico canale alternativo era chenall'e su sciu
(località in agro di Ruinas) dove ci recavamo spesso, quando non
si andava a scuola, per le solite sortite alle primizie della
frutta di stagione.
Tornando al discorso puramente didattico, ricordo che allora
avemmo tantissimi problemi per quanto riguarda le cose da
studiare che per noi erano una vera e propria novità. Mi
riferisco alla mitologia greca in generale, e ai poemi in
particolare: L'Eneide, l'Iliade, l'Odissea ecc. Qualcuno penserà
che i poemi che ho menzionato ci venissero presentati in
televisione magari sceneggiati, a puntate, con tanto di attori e
belle attrici. Nulla di più falso! Ci venivano illustrati a voce
dai professori sia quelli in video che in carne e ossa.
Seguivano, quindi, letture dei vari "canti" che gli
autori (Omero e soci) scrivevano in modo pressocché
incomprensibile, e che quindi necessitavano di un' esauriente
spiegazione po 'ndi poi ogai peisi! Comprensibile, di
conseguenza, che il ricordo di questi poemi sia talmente sfumato,
da farci ricordare esclusivamente i personaggi e i fatti più
importanti.
Forse, almeno per quanto mi riguarda, l'opera di Omero che
ricordo più volentieri è l'Odissea, anche se ancora oggi ho
moltissimi dubbi sull'affidabilità di Omero come uomo che
racconta le leggendarie vicende dei suoi eroi, nel rispetto della
verità. Secondo me era u' grandu fill'e cocca, che
imbastiva tutto quanto a misura di chi avrebbe poi dovuto
ascoltare i suoi canti. Per fare un esempio: in tutte le sue
storie, nonostante in quel periodo vi fosse su famini a segai
a fittasa, tutti i personaggi passavano gran parte del loro
tempo a banchettare, a consumare enormi maiali (sempre i più
grassi!); mandrie intere di buoi (ogni tanto ne sacrificavano
qualcuno agli dei per tenerseli buoni e po no ddu su fai
arrennegai!); quintali di pesci pregiati (tanti si
ettànta a sa grappa!); il tutto innaffiato continuamente
con il liquido di Bacco, cioé fiumi di vino rosso e bianco che
le Ancelle no accudianta ettendi, a broccasa! Quindi a
quanto dice Omero, non solo ne avevano in quantità per loro, ma
addirittura sacrificavano le migliori bestie agli dei. Che
fossero le migliori ho i miei dubbi. Io penso, invece che, agli
dei, sacrificassero quelle bestie malandate e piene di acciacchi
(mucche pazze, maiali con la peste suina achea, brebei'
zòppasa ecc.), per le quali i giorni erano ormai contati.
Quindi prima che inevitabilmente morissero da sole, considerato ca
no 'ni podianta pappai, prendendo due piccioni con una fava,
cun pagu spesa, si imbonivano il dio che in quel momento
gli faceva comodo: Poseidone (dio del mare) ed Eolo dio dei
venti, se dovevano andare per mare; Afrodite (dea dell'amore), se
dovevano mettere in essere qualche tresca amorosa, Zeus (su
babbu de tottu' i' deusu), se il problema era abbastanza
grave da non poter essere risolto dagli dei "normali"!
Ma lasciamo un attimo queste considerazioni per analizzare gli
episodi salienti dell'Odissea che più mi danno da pensare. Per
il nostro eroe, Ulisse, l'avventura comincia dal rientro dalla
guerra di Troia (già questo nome la dice lunga sul caos che
regnava in quella città). Sulle cause di questa guerra vale la
pena di fare alcune considerazioni. Secondo Omero a scatenare la
guerra fu il rapimento della bellissima Elena (moglie di Menelao
e figlia budra dello stesso Zeus) da parte del troiano
Paride. Quest'ultimo (sempre secondo Omero) fu costretto,
rientrando in patria, passando in Egitto, a "mollare"
la stessa Elena al re egiziano, ge no è po nudda chi ia'
fattu tottu cussu traballu! Gli achei, con a capo
Agamennone, convinti che Elena fosse in mano ai troiani
scatenarono l'offensiva. Ma no ddu podianta nai subitu ca cussa
piciocca no fudi (a) Troia? Mistero. Fatto stà che scoppiò la
lunghissima guerra che costò la morte anche al pelide Achille.
Non si capisce bene perchè questo eroe (sicuramente il più
grande), ben sapendo che il suo unico punto debole era il
tallone, non si premunì; magari ponendisia u' arrogh'e ferru
in su carroni! fatto stà che Paride, chi no inzretta'
mai nudda, con una freccia lo beccò proprio lì,
determinando il passaggio di Achille dalla vita terrena agli
inferi! va detto, per dovere di cronaca, che iI punto debole di
Achille non lo scoprì certo Paride, il quale non era perspicace
fino a quel punto, ma furono i soliti dei, che si divertivano a si
poi in mese 'e peisi, a svelarglielo! Resta da capire,
comunque, come si possa morire per una "freccettina"
nel calcagno!
Ovviamente per attirare Achille in una trappola di questo tipo no'
bastada certu a ddi promitti u procheddu arrostiu o ua schidonada
de ambidda! Omero pensò bene di studiare qualcosa degna di
un eroe del suo calibro: i troiani, con il consenso di Priamo,
gli dimostrarono la disponibilità a diventare sua donna e
amante, nientepopòdimeno che Polissena, la bellissima figlia
dello stesso Priamo Re di Troia, che stette al gioco mostrando ad
Achille, dalle mura di Troia, il suo florido petto in versione
integrale! Certu ca cuddu poburu no podiada arresisti a ua
cosa diasi!
La sanguinosa guerra vide la disfatta di troia con l'operazione
"cavallo". E quì Omero si sbizzarrisce con la sua
fantasia di stratega. Gli achei, una volta costruito il famoso
cavallo di legno infilarono dentro lo stesso i loro migliori
guerrieri e lo abbandonarono su una spiaggia di troia. Fu in
quell'occasione che venne coniata la frase "Siamo a
cavallo!".
Certo per i troiani sarebbe stato meglio che il cavallo fosse
stato della Giara, assumancu ddu iada stau prus pagu genti!
Nel pancione del cavallo trovarono "ospitalità" i
migliori guerrieri achei. Certo non fu facile per loro resistere
all'interno dell'equino di legno, soprattutto per quelli che
avevano su viziu de fumai. No smoking: questo era il
motto; pena la probabilità che il cavalllo prendesse fuoco, con
la conseguenza che tutti i valorosi diventassero carbone per
barbeque!
Non pago di questo, Omero, ci mette in mezzo i soliti Dei
tentatori che impersonando le voci delle mogli e delle amanti dei
guerrieri, con languide voci, voluttuose e invitanti promesse,
invitavano i valorosi a uscire fuori dalla pancia del cavallo.
Dal canto loro i troiani divisi in due fazioni (una che voleva
dare fuoco al cavallo e l'altra che, ritenendolo un dono degli
dei, voleva portarlo alll'interno delle mura di Troia) non
sapevano che pesci prendere; Omero, il furbone, optò per la
seconda fazione. Questo gesto, come tutti sappiamo, determinò la
sconfitta dei troiani. resta da capire come mai i troiani, ca
no fuanta dromiusu, si fecero fregare da questa carnevalata
che si dimostrò, più che altro, un pesce d'aprile fuori
periodo!
Gli achei, una volta dentro le mura di Troia, approffittando
delle tenebre, quatti quatti, fecero a fillicchittusu i
valorosi troiani, che nulla poterono contro gli achei favoriti
dal fattore sorpresa.
Anche quì sorge un piccolo sospetto: o i troiani erano troppo
impegnati a trastullarsi con le ancelle, oburu fuanta tottusu
imbriagusu de sa notti prima!
XII
Prima di riprendere il discorso sull'Odissea di Omero,
facciamo, come consuetudine, un breve riferimento al passato.
Quindi mettetevi distesi, rilassatevi, provate a tornare indietro
nel tempo (mi riferisco a chi, come me, ha il ricordo un po' vago
della scuola) cercate di rievocare episodi che hanno
caratterizzato quel particolare periodo della nostra vita:
l'adolescenza.
L'adolescenza. Che bel periodo, diranno in molti, se non ci fosse
stata la scuola sarebbe stato ancora meglio! chissà, forse
sarebbe stato anche monotono, piatto; saremmo, come disse un
cantautore sardo, Diventau' mannusu chenze passai
pipiusu. Pensate, che tristezza diventare grandi senza
essere stati bambini! Provate a immaginare all'età di
quattordici, quindici anni, ragionare e conversare come uomini e
donne grandi. Sarebbe stato quantomeno fuori luogo
sentire ragazzini di quell'età pronunciare discorsi del tipo:
- Eita parid'oppai? Ecumenti s'intendid'oi?
Hoi scitassia, ca no'beid'a bei, potu qusta tiaullu de artrosi
chi no mi lassada asselliai! e fostei?
'Stitzia sin'chi dda furidi! e deu ca non c'arrenesciu a pigai
sonnu adenotti e mi toccada a mi 'ndi pesai e a mi ponni a
trabballai, po 'nchi passai s'ora?
Arrazz'e malladìa bella e'cussa pura, ma cun fostei gei
s'arràngiada! ma no mi 'ndi chistionidi; deu puru aintr'e notti
seu tottu a furriusu in su lettu, pargiu croccau me i' foggia' de
fimorisca!
Lampu ddi callidi! e chi nou ca seu postu bei de istogumu;
a'mengiau seu accanta accanta de no murzai prusu: bastada a mi
pappai u'arrestu de fai cu grogiollusu, quattr'ou' frittusu, duas
chibudda' cruasa e a mi buffai u' litru de biu nieddu, ca paridi
ca 'ncappu callau ua cantonada! no beid'a bei!
Oppure:
- A logu e' andendi ommai?
Sissada e fostei?
Citassia ca no 'ndi pozz'a prusu. Seu andendi a su stangu a pigai
gigarrusu a pobiddu meu, no ddu potz'accudi; est'a tottu di'
fumiendi paridi u' muntronagiulu chi d'ant'appena postu fogu! e
chi nou ca gei faid'arrazz'e fragu bellu, no ddu assellia' pru
nisciunusu in domu!
Oiammomia! no mi ddu contidi; e deu seu andendi a buttega a pigai
binu nieddu po cussu digraziau de pobiddu meu, tanti ge si 'ndi
buffa' quattru stiddiusu po brulla! aigussu no ddiad'a bastai
mancu sa pishina de barralla prena de cannonau! e chi nou ca gei
fai' binu bellu, ddi piga' tottu a cantai a zerriusu parid' u
lupu arullendi, 'ncaziada apizzu' de sa mesa; s'appicada a su
lampadariu pari' Tarzan!
Decisamente è molto meglio che i bambini crescano, passando,
come è naturale, per l'adolescenza; anche se dovremo abituarci,
ad ascoltare, con non meno stupore, discorsi di questo tipo:
-- Ciao Deborah! Perché stai vascheggiando, non vieni oggi a
scuola?
Ciao Samanta! no oggi non vengo a scuola. Faccio vela perché
c'è quella zonca della prof di matematica che mi stressa! e poi
figurati, proprio oggi che c'è compito in classe con quelle
equazioni che mi mandano in paranoia! oltretutto non ho studiato
niente perché ieri ho passato il pomeriggio ad ascoltare i
Backstreet boys, quanto sono boni!
Non dirmelo, una figata! sono proprio toghi; da sballo! sai
pensandoci bene mi sa che faccio vela anch'io, oggi c'è quel
biddaio del prof di storia che deve spiegare quelle pallosissime
guerre d'indipendenza, puoi capire che palle! si ho deciso: oggi
zero scuola! magari ce n'andiamo in paninoteca e ci facciamo due
burghy, che ne dici?
Eia la cosa mi attizza un casino, magari oggi si cucca anche!
Quindi, a conti fatti, è sicuramente più logico, anche se
talvolta implica una certa dose di sofferenza, passare per tutti
i vari stadi della crescita: dalle fasce alla terza età.
Dopo questa breve parentesi, ritorniamo alla nostra
Odissea, che tanto c'incuriosiva quanto, come già detto ci
rendeva la vita difficile a scuola.
Nell'ultimo numero abbiamo lasciato Ulisse (Nessuno, per gli
amici e soprattutto per i nemici, nel caso specifico Polifemo)
che con i suoi amici se la batte a velatura tutta spiegata e
fortunatamente con vento in poppa, lasciandosi dietro Polifemo
agonizzante e i suoi compaesani: i simpatici Ciclopi.
Omero narra che dopo un certo periodo di navigazione la
flottiglia giunge nell'isola Eolia, cioè di Eolo (il dio dei
venti). L'accoglienza fu abbastanza buona. Dopo aver mangiato e
bevuto come solo gli achei sapevano fare, cioè cun'd ua
pasterenzia chi no beid'a bei, ripresero il viaggio. Eolo
per dimostrare la sua simpatia a Ulisse gli diede in dono un otre
con dentro tutti i venti che eventualmente avrebbero potuto
infastidirlo durante il viaggio. I compagni di Ulisse pensavano
che fosse la solita storiella da lui inventata per non svelare
loro il vero contenuto dell'otre che, secondo loro, doveva essere
un vero e proprio tesoro. Nottetempo, durante la navigazione, i
più arditi compagni di Ulisse, pizzullausu dal vino di
Eolo e approfittando del fatto che il nostro eroe dormiva,
slegarono la catena d'argento che teneva chiuso l'otre. Cosa
successe è
facile immaginarlo: tutti i venti (dai quadranti meridionali a
quelli settentrionali) imprigionati all'interno dell'otre (da
su ent'e soli a su entu estu a su lussurgesu) si scatenarono
alla massima potenza investendo in pieno le fragili imbarcazioni.
Fu un'immane tragedia: pochi scamparono al potere distruttivo di
tutti quei venti (20) messi insieme!
Naturalmente Omero fa si che nella sua storia Ulisse
e altri compagni si salvino, altrimenti come diavolo avrebbe
fatto a proseguire il racconto con tutte le altre avventure?
Fatto sta che dopo avere lottato tenacemente con la terribile
tempesta il resto della flotta giunse (finalmente) nell'isola
della maga Circe. Questo canto era sicuramente uno di quelli che
ci incuriosiva di più per gli avvenimenti che si susseguirono
nella misteriosa isola. Omero racconta che il primo gruppo di
marinai sbarcati nell'isola, furono ritrovati trasformati in
maiali e chiusi in un recinto (acorru) e pappendi
làndiri a muntoisi, e sicuramente sarebbero diventati salsicce,
prosciutti e teste in cassetta, se non fosse per Ulisse, che come
sempre risolse il problema.
Fu la maga Circe, che dopo aver fatto loro bere un suo
particolarissimo cocktail, con un colpo di bacchetta
magica gli trasformò appunto in suini destinati all'ingrasso. La
stessa sorte doveva toccare a Ulisse, se non fosse per il dio
messaggero che lo mise in guardia e gli evitò quel piccolo
inconveniente. Ma a dire il vero, Ulisse diventò, comunque,
anche lui un maiale come i compagni, nel senso che passò insieme
a loro, un anno nell'isola di Circe pappendi e buffendi
cument'e procusu, spupazzandosi la stessa Circe (peraltro
bellissima e molto sensuale) e tutte le sue ancelle che non erano
certo da buttare via! Si trovarono così bene in quell'isola, che
tutti i marinai volevano stabilirsi per sempre li; al che Ulisse,
che bene o male ogni tanto si ricordava che aveva moglie e
figlio, alla proposta dei suoi compagni, i quali gli
prospettarono l'idea di restare per sempre in quel paradiso,
rispose: ddei' pigau po procu!
Certo che Ulisse e suoi uomini se ne andarono dall'isola a
malincuore, e non si capisce bene come abbia fatto a convincere i
compagni ad abbandonare quell'isola con tutto quel ben di dio.
Secondo il nostro modo di vedere aveva raccontato loro qualcuna
delle sue solite balle, peraltro sempre convincenti, del tipo:
Ragazzi, lo so che lasciare queste bellissime donne,
questi ricchi banchetti per riprendere il mare senza sapere a
cosa andiamo incontro, può non sembrare una cosa ragionevole, ma
ci sono grossissimi guai in vista se continueremo a stare
qui!
Quali sarebbero questi guai o Ulisse! Non è che ne stai
inventando un'altra delle tue?- Chiese un compagno.
Mi spiego, dovete sapere che da quest'isola non è mai
potuto andare via nessuno, proprio perché tutti coloro che sono
stati qui prima di noi sono stati trasformati in maiali e finiti
sulla griglia, fattusu a satizzu e is peisi fattu' cun fai!
Ma c'è di più . Avete forse visto, qui nell'isola piante che
producano ghiande?- disse Ulisse.
E beru, no ca' mancu ua matta de arrolli de illighi o
de srueggiu! fece notare un altro compagno di Ulisse
Ma questo cosa c'entra?
E Ulisse: ma allora non avete ancora capito! finché si
viene trasformati in maiali c'è sempre la speranza che Circe
all'occorrenza vi ritrasformi i uomini pieni di vigore per
soddisfare le turpi voglie, sue e delle ancelle; ma in seguito
giungerà inesorabilmente il momento in cui i maiali si
ritroveranno senza cibo, ed ecco che allora la maga Circe non
esiterà un solo momento a si furriai a tottusu a landiri po
ddu giai a is proccusu! E vi assicuro che non dev'essere una
cosa troppo piacevole a si fai mazzullai de cussus'
animallisi, tanti gei potanta dentigheddu' de latti!
. Ribatte' un altro marinaio: Ma tu questo come l'hai
intuito?
E' semplice, secondo voi perché Circe ripete continuamente
: chi is proccu' no morinti su landiri gei
torrada! Rispose Ulisse. Quest'ultima frase finì per
convincere gli uomini di Ulisse, che anche stavolta aveva ragione
Lui.
Dopo questa, in fondo piacevole, tappa di un anno, i
valorosi achei ripresero il viaggio di ritorno verso Itaca. Non
starò a descrivere tutti i viaggi e le soste di Ulisse e io
suoi, ma citerò solo quegli episodi che destavano maggiore
curiosità in noi studenti di allora.
Precedentemente Ulisse espresse a Circe la sua intenzione di
scendere nell'Ade (il regno dei trapassati) allo scopo di
incontrare l'indovino Tiresia, deceduto tempo addietro, per farsi
predire il futuro. Circe dal canto suo diede tutte le istruzioni
in merito a Ulisse per poter accedere in quell'allegro posticino,
con la possibilità, naturalmente di ritornare vivo e vegeto alla
vita terrena. Si dice che prima di Ulisse, ben pochi ebbero
questo privilegio, appannaggio dei soliti accozzati,
tipo Dante Alighieri, che probabilmente si recò in quel triste
posto onde trovare ispirazione per scrivere i suoi famosi canti
sull'inferno!
Ovviamente un posto del genere doveva, per forza riservare
qualche spiacevole sorpresa, e per Ulisse fu quella di trovare la
madre, deceduta durante la sua permanenza a Troia. Questo
episodio è senz'altro uno dei più tristi dell'odissea. La madre
lo tranquillizzò, rivelandogli che la moglie Penelope (sempre
fedele a lui), insieme al figlio Telemaco e al padre Laerte,
attendevano ancora il suo ritorno.
Ulisse incontrò finalmente l'indovino Tiresia che gli predisse
il futuro rivelandogli che sarebbe riuscito a tornare in patria
dopo tante peripezie. Gli disse testualmente :arregodadia
ca no è tottu su logu pàrisi! Al tuo arrivo in patria
troverai u' muntoi de genti crichendi contusu a pobidda tua,
ma ti vendicherai fendideddusu a fillichitusu!.
Ulisse incontrò
anche il pelide Achille, Patroclo e il valoroso Agamennone, il
quale, mischineddu, morì pugnalato alle spalle de
cussa carrogna de sa pobidda. Da qui' il consiglio, suo, a
Ulisse di diffidare sempre delle donne, portatrici, secondo lui,
soltanto di guai. Ulisse, ovviamente non fu d'accordo con le
affermazioni di Agamennone, non foss'altro po tottu cuss'annu
chi si dd'iada spassiada cun Circe!
Omero racconta che Ulisse e compagni dovettero ritornare
all'isola di Circe per mantenere la promessa di seppellirvi la
salma del loro compagno Elpenore. Ai compagni di Ulisse no dd'is
paria' mancu beru ca depianta torrai a s'ispassiai cu
is'ancellasa! Ma Ulisse placò subito loro i bollenti spiriti,
ricordandogli la storia de is procusu, che servì a far cambiare
loro immediatamente idea. Infatti al loro arrivo nell'isola,
nonostante Circe e le sue ancelle gli accolsero, a detta di
Omero, con vesti trasparenti e grande disponibilità, non osarono
nemmeno sfiorarle! Pare, come sempre, che anche in
quell'occasione, Ulisse abbia fatto il furbo; no si
cumprendidi ecumenti mai, Ulisse e Circe fuanta
mancàusu ua bella scutta e de chi fuanta torrausu, ianta nau ca
fuanta a giai a pappai a is procusu!
XIII
Nell'ultimo numero, rievocando l'Odissea di Omero, mi sono
fermato al punto in cui Ulisse e suoi, si congedarono da Circe e
dalle sue ancelle, dopo il solito banchetto a base di carne di
maiale (chissai e achini s'iantai pappau!), per
riprendere il viaggio di ritorno verso Itaca. Bisogna dire che
anche stavolta non fu facile per Ulisse, convincere i suoi
compagni a lasciare quella bellissima isola e soprattutto le
splendide donne che la abitavano; ma come sempre il nostro eroe
vi riuscì, e così
ripresero il mare. Prima che lasciassero l'isola, Circe informò
Ulisse sui pericoli che avrebbero incontrato durante il viaggio;
il che fu determinante per salvargli la pellaccia in più di
un'occasione. Naturalmente Ulisse non fece parola di tutto ciò
che gli fu rivelato, questo perché se i compagni avessero saputo
a quali guai sarebbero andati incontro, avrebbero sicuramente
preferito restare nell'isola a sighiri a fai is procusu cu is
ancellasa, a costo di correre il rischio di essere
trasformati in suini veri e propri!
Soltanto quando le navi furono ben lontane dall'isola, Ulisse
informò i compagni sul primo pericolo che avrebbero incontrato.
Quindi disse loro: Ragazzi, tra poco arriveremo in
prossimità dell'isola delle sirene; queste donne bellissime
canteranno con voci incantevoli e ci inviteranno a fermarci
nell'isola, ma noi non dovremo abboccare, perché questo sarebbe
fatale per noi, va detto che è impossibile resistere a questo
canto!
- E allora come sapremo resistere? Chiese un
compagno.
-Vi tapperò le orecchie con la cera, solo io potrò
sentirle rispose Ulisse.
A questo punto della storia, Omero dice che Ulisse ordinò a suoi
di essere legato all'albero maestro in modo che non potesse dare
retta all'irresistibile richiamo delle bellissime sirene (chi
fuanta mesu femminasa e mesu pischi de iscatta), e che
ordinò di stringere sempre di più le cime se avesse tentato di
liberarsi.
Secondo me le cose andarono invece così: uno de soliti compagni
sospettosi di Ulisse, prese in disparte alcuni degli altri e
disse loro: Per me questo sta facendo il furbo come sempre!
tappa le orecchie a noi, così le sirene le sente solo lui e se
la cosa gli aggrada, magari va anche a spassarsela con loro
nell'isola. Gli altri compagni si trovarono perfettamente
d'accordo con lui, quindi si comportarono in questo modo: si
fecero otturare le orecchie con la cera, dopodiché, cogliendolo
di sorpresa, ianta crabusau Ulisse e lo legarono tipu fasch'e
linna all'albero maestro, badando bene di stringerlo come si deve
e ignorando completamente le bestemmie che riversava su di loro,
a parte che non avrebbero potuto, anche volendo, sentirle, in
quanto avevano già le orecchie tappate! Fu così che quando
furono in prossimità dell'isola, Ulisse udì lo splendido canto
di quelle meravigliose fanciulle, che lo invitavano ad approdare
nell'isola e a spassarsela con loro. Ovviamente il poveretto fece
di tutto per liberarsi dalle corde e correre dalle belle
fanciulle che lo chiamavano a loro estasiate, ma ottenne il solo
risultato di vedere le sue legature che venivano rinforzate con
altre corde, ed esaurite queste, dd'ianta giau ua passada de
filuferru puru! A nulla servirono quindi tutti i tentativi
di Ulisse per farsi liberare, compreso il suo fingersi morto, che
non ottenne altro risultato, che una secchiata di acqua di mare
in faccia, che lo convinse a interrompere la finzione! Venne
slegato quando tutti ebbero la certezza di essere ben lontani
dall'isola.
Ovviamente questo episodio era una bazzeccola in confronto a
tutti i guai che ancora dovevano loro capitare. Infatti , in
seguito si imbatterono in terribili mostri marini, tipo polipi
giganti con multiple teste mostruose, bocche enormi e svariate
file di denti, che a confronto i pescicani erano grappa de
frumini nostu! In questa circostanza Ulisse dovette subire la
perdita di molti compagni (i migliori) nonché di alcune
imbarcazioni. Ma anche in questa situazione riuscì a salvare la
propria pellaccia.
Omero narra che dopo questa tremenda avventura, Ulisse e i suoi,
stremati e affamati giunsero in prossimità dell'isola del Sole;
un bellissimo e accogliente lembo di terra dove vi pascolavano
dei bellissimi e grassi animali (mucche pecore ecc.). Ovviamente
Ulisse (avendo avuto raccomandazioni dall'indovino Tiresia, prima
e da Circe, dopo) mise subito in guardia i compagni implorandoli
a non sbarcare nell'isola e tantomeno a mangiare la carne di
quegli animali, pena una marea di guai, che il Sole avrebbe loro,
sicuramente, procurato. Ma i compagni, che non vedevano l'ora di
mangiare a sazietà per poi sdraiarsi su qui verdi e rigogliosi
prati, quella volta fecero esattamente il contrario di ciò che
disse Ulisse: sbarcarono nell'isola e cumencianta a iscrogiai
brebeisi e baccasa, a dd'a s'arrostiri, e a pappai cumenti no
ianta fattu mai! E dopu chi si fuanta bei sazzausu cument'e
procusu, si fuanta croccausu ua parigh'e disi in s'ebra frisca, e
poi fuanta torrausu a partiri. Ciò, provocò,
inevitabilmente le ire del Sole che si recò da Zeus per chiedere
la giusta punizione per gli achei; minacciando, in caso
contrario, di smettere di splendere nell'Olimpo e sulla terra,
per traslocare nell'Ade. A seguito di questa minaccia, Zeus non
potè fare a meno di accontentarlo. Scatenò (con la
collaborazione del dio Nettuno, tanti gei fuanta ua coppia
bella!), sulle imbarcazioni tutto il repertorio: lampusu,
tronusu e tempu mallu de ognia manera, onde alte come
montagne investirono le navi, già irrimediabilmente lesionate
dalle folgori mandate loro in regalo dal buon Zeus, riducendole a
un ammasso di pezzi di legno, talmente piccoli chi no
fadianta mancu po ddu's ponni a su fogu! Tutti i compagni di
Ulisse perirono in quella terribile tempesta, e fu solo per il
solito zampino che ci mise la dea Atena, che Ulisse riuscì a
individuare l'unico pezzo di legno in grado di poterlo sostenere
e tenerlo a galla, in mezzo a quell'inferno. Come lui stesso
raccontò in seguito ai Feaci, che lo accolsero nella loro isola,
vagò in mezzo ai marosi per nove notti e nove giorni, per poi,
allo stremo delle forze, sbarcare nell'isola della ninfa Calipso.
A questo punto Omero, che era un gran furbone, per non annoiare
troppo chi ascoltava i suoi canti, con storie eccessivamente
tristi, condisce il suo poema, con ingredienti un po' più
piccanti e narra una nuova avventura di Ulisse con un'altra
donna: Calipso, appunto. Naturalmente la bellissima Ninfa si
innamora di Ulisse, e, dopo averlo accolto, rifocillato, ripulito
e profumato come solo una dea del suo calibro sapeva fare, lo
tenne con se e lo amò insaziabilmente per sette lunghi anni. E
qui' bisogna aprire una piccola parentesi sulla di lui moglie
Penelope, che mischinedda, ignara di quanto il
fedele
e valoroso maritino stava combinando con la ninfa-ninfomane, e
soprattutto insofferente a is corrrusu chi su pobiddu fu
ponendideddi in tottu cussus'annusu, chi ormai fuanta diasi
longusu e afrucaggiausu chi fadianta a ispraghi pannusu, e
lei con tanto ardore e fedeltà continuava a respingere le sempre
più pressanti avances dei Proci (is procusu) che non
vedevano l'ora di poterle mettere le mani addosso. Omero,
scrivendo il suo poema, inizialmente pensò di far si che anche
Penelope si facesse qualche avventuretta con qualcuno di questi
Proci che tra l'altro non erano niente male essendo quasi tutti
dei belli e prestanti giovanotti. Ma accantonò l'idea, pensando
che ciò potesse sminuire il valore, la potenza e la virilità di
Ulisse, rendendo così meno interessante il suo poema.
Una cosa che noi, allora studenti delle scuole medie, non
riuscivamo a capire bene era, quanti anni poteva avere questa
benedetta donna che con tanto amore e pazienza, aspettava il
ritorno della sua dolce metà. Cosi provavamo a fare un po' di
conti. Dùncasa: Ulisse partì per la guerra di Troia
che doveva avere almeno diciotto-vent'anni anni; la guerra di
Troia durò circa vent'anni; ua pariga de annusu dd'u sia'
passausu cun cussa dimonia de Circe; sett'annusu cun cuss'atra
pudredda de Calipso, u'antra trinch'e tempusu cun Nausicaa (tantu
po cambiai); us'cant'annusu girendi in logu e in ladu per'
i'marisi e per is isulasa pappendi e buffendi! A sa fini de is
contusu Ulisse depia tei (segundu nosu) assumancu sessantascinqui
o settant'annusu. Penelope che non doveva essere molto più
giovane, era comunque (sempre secondo noi) una donna di una certa
età. E se tanto ci dava tanto, cosa cercavano in lei i
pretendenti, ovvero i Proci? Anda bei ca fuanta sempri
imbriagusu ma e' possibili chi no s'ind'accatanta ca ormai fudi
ua femmina anziana? O puri no'ndi ddi si friga' nudda e
seguramenti andant'a innia po pappai e buffai a iscrocca e
s'ispassiai cu is ancellasa, ca fuanta veramenti piciocca'
bellasa e giovuneddasa?
Ritorniamo comunque al nostro eroe che, a quanto dice Omero, a
questo punto della storia viene assalito dalla nostalgia per la
sua terra e per i familiari, quindi prega continuamente Calipso,
affinché lo lasci andare. Si racconta che la solita dea Atena,
che teneva tanto a Ulisse, convinse Zeus a mandare il messaggero
Hermes per ordinare la ninfa a lasciar partire il valoroso acheo;
e così pare che siano andate le cose, anche se probabilmente
Calipso non di podiada'prusu de ddu potai sempri in mes'e
peisi, e fu così che lo aiutò a costruire una zattera e lo
spedì, con tanto di carta nautica, verso Itaca.
Ma il nostro bravo Ulisse doveva girovagare ancora, prima di
ritornare in patria. Approdò infatti nell'isola dei Feaci, i
quali, gente ospitale, tipu is cabesusesusu, trattavano
gli ospiti con i guanti, e così fecero anche con lui. Quando
finì di rifocillarsi, raccontò tutte le sue peripezie a una
platea attenta e curiosa, dopodiché lo accompagnarono
direttamente a Itaca.
Naturalmente Ulisse non poteva rischiare di farsi riconoscere, in
quanto voleva entrare in città senza destare sospetti, onde
poter cogliere i Proci di sorpresa e mettere in atto la vendetta
che aveva covato per anni. A ciò pensò la solita dea Atena che
gli diede le sembianze di un vecchio mendicante. Omero dice che
solo il suo cane Argo riconobbe il padrone Ulisse nonostante la
trasformazione abilmente realizzata dalla dea. Certo che anche
questo cane che visse tanti anni per poter rivedere il proprio
padrone, depia tei assumancu quarant'annusu! Mancu
chi fessidi u tostoiu po campai meda diasi! Fatto sta che il
cane, una volta rivisto il suo padrone morì, felice e contento,
di morte naturale, ovvero: de beccesa.
Tralasciando tutti gli episodi che accaddero dopo la
trasformazione di Ulisse in pedidori, si arriva al mai
più tanto bramato incontro tra Penelope, chi s'ia passau sa
vida sua, mischia, tessendi su tappetu adediri e sconcendideddu
adenotti (depiadessi de origini samughesa!), e Ulisse. La
povera Penelope, vuoi perché Ulisse era stato ulteriormente
invecchiato da Atena, vuoi perché si aspettava un baldo
giovanotto, non riconobbe il suo adorato maritino, nonostante le
prove che lui riuscì a produrre (compresa quella di amatore). Fu
così che Penelope volle metterlo ulteriormente alla prova: il
tiro con l'arco (che solo Ulisse sapeva tendere). Le cose si
svolsero più o meno così: durante uno degli ormai soliti
banchetti, compare la stessa Penelope, e tra l'immenso stupore
dei Proci disse: Adesso basta, mi sono stufata di aspettare
il ritorno di Ulisse. Quindi penso che sia il caso di trovarmi un
altro marito, che sarà uno di voi; sarà colui che riuscirà a
tendere l'arco e far passare la freccia nell'occhio di dodici
scuri messe in fila una dietro l'altra!. I Proci fuanta
abarrausu spantausu; no dd'is paria' mancu beru ca
podianta tei sa possibilidadi de poi i mausu in pizzusu a
Penelope. Volle essere della partita anche Telemaco (figlio
di Ulisse) il quale era già a conoscenza che il vecchio
mendicante, altri non era, che suo padre Ulisse. Propose che se
fosse riuscito a tendere l'arma, nessuno potesse avere il diritto
di prendere come moglie, sua madre. I Proci accettarono ed ebbe
inizio la gara. Telemaco non riuscì a tendere l'arco, come non
vi riuscirono tutti i pretendenti che ci provarono. Tra
l'indignazione dei Proci, chiese, e ottenne di poter provare,
anche il mendicante. Con una forza e una precisione incredibili,
Ulisse scagliò la freccia che attraversò le dodici scuri!
Grande fu la delusione dei pretendenti, che Telemaco, a stento
riuscì a tenere a bada. Quindi diede ordine affinché venisse
servita la cena. Fu quello il segnale convenuto tra Ulisse,
Telemaco e i loro amici. Mentre i Proci erano intenti a si
sazzai (come sempre), Ulisse e i suoi li colsero di sorpresa
e fu la strage! Fu una terribile carneficina nessuno dei Proci
(secondo Omero) scampò alla giusta punizione. Più di uno invece
riuscì a farla franca e a scappare lontano e addirittura a
mettere su un'altra città: Procida!
Ma neanche questo fu sufficiente a convincere Penelope che
quell'uomo era Ulisse; infatti lo sottopose alla prova del letto
(che non era quella che si può pensare) ma era il fatto che solo
Ulisse (e Nessuno
altro) sapeva che il talamo era costruito sopra un grosso albero tipu
niu de corroga! Chiaramente Ulisse superò anche questa
prova e finalmente fu accettato dalla sospettosa moglie!
Ringo
Grazie per essere arrivati fino in fondo!