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CONTUS DE FORREDDA

DAL PENNINO
AL COMPUTER

attraverso i ricordi

(DI RINGO)

I
E' difficile, oggi, scrivendo questo articolo al computer, ripercorrere con la memoria, ritornando indietro nel tempo, tutti gli anni trascorsi dalla nostra infanzia sino ad oggi.
Premendo sulla tastiera per scrivere, non posso fare a meno di ritornare indietro di circa trentacinque anni, quando timidamente in prima elementare ci avvicinammo al favoloso mondo della scrittura. Già, in prima elementare , perché allora si incominciava a scrivere a scuola e non alle scuole materne come succede oggi.
All'asilo, in quei tempi , ricordo che non si andava molto volentieri, e su questo penso che non sia cambiato molto neanche ai giorni nostri. Chi ha pressappoco la mia età, ricorderà quante lacrime siano state versate ogni qualvolta si era costretti ad indossare il grembiulino; al quale ci ribellavamo con tutte le nostre forze. Indossare quel grembiule era quasi come entrare in un'armatura, che ci faceva sentire pressoché in obbligo di limitare i nostri movimenti all'essenziale.
Quella "vestizione" era per noi una vera e propria limitazione di libertà! Altro aspetto negativo di quel capo di abbigliamento era il sentirsi vestiti come femminucce, sminuendo alquanto il nostro status di maschi dominanti!
La ciliegina sulla torta era costituita dal fioccone intorno al collo a mo' di uovo di pasqua; si l'uovo di pasqua esisteva anche in quei tempi , anzi allora pensavo che esistesse prima della gallina.
Finita la " vestizione " ci veniva consegnata la borsetta con i viveri ( era fatta in cartone e somigliava tanto a quella che oggi viene usata dalle signore come custodia dei materiali per i " restauri facciali ": il beauty-case). La borsetta in questione conteneva la razione " K " ovvero lo stretto necessario per la sopravvivenza giornaliera.
Allora, dentro la borsetta, era molto probabile trovare il pezzo di formaggio pecorino o un trancio de sammin'e proccu. Erano quasi totalmente assenti tutte le lecornie dolciarie di cui fanno uso e abuso i bambini di oggi.
I pochi ricordi-reperto-lecorniosi che ho dell'epoca, ma forse sono da riferirsi al periodo delle elementari, sono il mitico formaggino ed il famoso gianduiotto (cioccolato triangolare n.d.r.) Con le prime figurine di lupetto & C.
Ma nonostante l'alimentazione primordiale crescemmo abbastanza sani. Forse fu anche merito dei vaccini e delle più svariate punture che trafissero i nostri glutei , che penso siano nel ricordo di tutti; non tanto per gli effetti terapeutici ma per le urla disumane che la mano del Dottore, tutt'altro che leggera, premuta sulla siringa, riusciva a farci produrre.
La scrittura, in quel periodo, era per noi arabo, nel senso che tutti i geroglifici che riuscivamo a produrre con qualche pezzo di teullacciu avevano un significato cosi' misterioso che neanche noi riuscivamo a capire.
Era il periodo in cui facevano la prima apparizione le matite, e possederne una era già un lusso. Per risalire ai primi approcci con la scrittura bisogna far riferimento alla prima elementare.
Solita vestizione con grembiule e fiocco rosa. Beati quelli della seconda che avevano il fiocco celeste, non eravamo forse noi, maschietti come loro?
E che significato potevano avere i colori dei fiocchi delle altre classi?
Il giallo della terza , il rosso della quarta, il blu della quinta: mistero.
Comparve il primo quaderno, che non era come quelli di oggi, tutti colorati e con su disegnati i più famosi personaggi dei fumetti e dei cartoni animati. Il quaderno, allora, aveva la copertina nera che faceva venire tristezza solo a guardarlo.
Ma noi ben lungi dal farci scoraggiare da questo particolare lo aprimmo con entusiasmo pensando: finalmente incominciamo a scrivere anche noi. Ed in quel momento avemmo, forse, la nostra più grande delusione, perché la signorina Maestra, dalla sua altezzosità (Sopra la pedana della cattedra ci sembrava ancora più imponente), ci indicò quello che dovevamo scrivere sul quaderno, che non erano altro che dei trattini disposti verticalmente sulle righe, uno dietro l'altro, per tutta la pagina. Questi segni vennero chiamati aste. Ancora oggi ho il vivo ricordo delle quantità industriali di aste prodotte tra la prima e la seconda elementare: tanti di quei fogli che avrebbero sicuramente ricoperto la piazza rossa di Mosca. Nulla da stupirsi quindi se molto spesso venivano scaricate camionate di quaderni. Ogni quaderno completamente stipato di aste fatte a scuola e a casa, diventava cosi spesso, a causa delle orecchie, che sembrava un vocabolario. Nulla a che vedere con lo spessore culturale.
Finalmente cominciammo a fare conoscenza con la A di aratro, la B di bue, la I di imbuto e la Q di quadro: l'ABCD.
Impresa dura ricordare a memoria tutte quelle lettere in sequenza una dietro l'altra, ma riuscimmo a fare anche quello, probabilmente stimolati dai disegnini posti accanto alle grandi lettere.
Le novità più grosse comparvero in terza: il quaderno con le righe più strette e la penna!
La penna era costituita da un'impugnatura claviforme in plastica con inserito all'estremità il pennino. Fortemente appuntito, il pennino, era quasi un'arma bianca. Quella penna veniva normalmente usata per : 1- punzecchiare i compagni, 2- arma di battaglia tra su ighinau de susu e su ighinau de giossu ,(se bagnata nell'inchiostro diventava una freccia avvelenata), 3-tiro a segno su bersaglio costituito da quaderno, 4- per scrivere.
La penna come già accennato, per scrivere, bisognava bagnarla nell'inchiostro che era contenuto nel calamaio, incassato nel banco di scuola.
Ovviamente gran parte del succitato inchiostro finiva puntualmente nelle nostre facce, in quantità tale, che al nostro arrivo a casa era inevitabile essere scambiati per i primi vu' cumprà. Il pennino dal canto suo, aveva vita molto breve, in quanto usandolo per gli scopi sopra descritti, si apriva la punta, la scrittura veniva doppia, e provocava la foratura sul foglio del quaderno.
Altro esempio di scrittura nuovo per noi era quello con i gessetti sulla lavagna, con rispettivo strofinaccio per cancellare, che puntualmente ci tiravamo in faccia l'uno con l'altro.
A quelle azioni di guerriglia di interclasse, corrispondevano altrettante non meno dure bacchettate da parte della maestra, che usava bacchette in robustissimo olivastro stagionato e nodoso. Le bacchette in oggetto venivano fornite da sedicenti gruppi di bravi ragazzi che inesorabilmente, quasi come un castigo di Dio, erano poi i primi ad avere l'onore di inaugurare il sadico strumento punitivo.
Ovviamente in ogni classe esisteva un folto gruppo di guastatori, che aveva il compito di distruggere le attrezzature belliche del nemico: le bacchette. Ma l'approvvigionamento delle armi al nemico non tardava a riprendere, per cui era una lotta continua.
L'avvento della penna a sfera (Merito del signor Bic) fu un evento abbastanza importante poiché portò praticamente al disarmo; togliendo dalla circolazione le penne con il pennino.
Fu cosi' che passammo a sistemi di guerriglia più sofisticati quali su tirallasticu e altre diavolerie. Con l'uso della penna a sfera ci fu comunque facilitata la vita, rendendo più rapida la scrittura e di conseguenza abbreviando i tempi di svolgimento dei compiti, cosa molto importante per noi, poiché ci lasciva più tempo per poter scappare al fiume a nuotare o andare a giocare a tà ( battaglia tra squadre rivali nella quale si usava la mano a mò di pistola).
Un altro grosso grattacapo per noi poveri scolari era costituito dai calcoli, non renali o biliari, ma matematici o meglio, aritmetici.Inizialmente usammo le dita delle mani. Appurato che avevamo dieci dita a disposizione, ci furono di grande aiuto, ma se la somma da calcolare superava la prima decina, cominciavano i problemi. Fortunatamente la tecnologia ci venne in aiuto fornendoci il padre di tutti i calcolatori: il pallottoliere. Con questo strumento, costituito da palline forate che scorrevano su un'asta metallica, fu per noi molto più facile eseguire i calcoli, ma a renderci la vita difficile restavano comunque i decimali ( brutta bestia per noi scolari). Pensammo anche di tagliare in due le palline, ma non reputammo troppo conveniente la cosa in quanto, non solo la bacchetta era sempre li in bella mostra, ma cominciavano a volare anche i primi scappellotti (ciaffusu), talmente sonori e potenti da rischiare di farci perdere i denti e passare quindi, di conseguenza, il resto dei nostri giorni a brodino; salvo farsi applicare una protesi dentaria che a quell'età avrebbe stonato moltissimo.
Ovviamente in quel periodo il telefono azzurro non era stato ancora attivato, quindi fu cosi' che nacque il motto: prevenire è meglio che curare.
Dal canto loro i maestri applicavano già da allora lo slogan : paghi due prendi quattro, (sempre in riferimento agli scappellotti).
A questo punto dell'articolo, mi rendo conto di essermi dilungato un po' troppo, ma vista la complessità dell'argomento mi ripropongo di continuare sul prossimo numero, sperando che quanto ho scritto vi abbia almeno fatto sorridere un po' e sia servito agli scolari per affrontare con meno drammi la scuola. Spero anche di aver stimolato i lettori a cimentarsi nella stesura di qualche articoletto.


II
Per i lettori che hanno letto la prima parte, non sarà difficile riagganciarsi, e seguire il proseguo che mi accingo a scrivere. Per chi ha avuto la fortuna di non leggerlo, basti dire che si è trattato di una rievocazione degli episodi salienti che hanno visto tutte le peripezie degli scolari; prima alle prese con il famigerato pennino, dopo con l'uso della penna a sfera.
Siamo ancora nel periodo paleo-elementare, in cui l'avvento della penna a sfera, corrispose, più o meno al passaggio dall'età della pietra all'età del bronzo, e noi sardi questo passaggio l'abbiamo sentito in maniera particolare, diventando ancora più duri!
L' uso della penna a sfera, come già detto in precedenza, agevolò non poco il compito di noi scolari; velocizzando la scrittura e cominciando a farci uscire da quello che era lo stereotipo della scrittura elementare: se vogliamo un po' naif. Cominciammo infatti a concederci il lusso di una scrittura più personalizzata, che per noi poveri illusi, erano i primi sentori di maturità: "stiamo finalmente scrivendo come i grandi " ci dicemmo.
Cosa invece per noi molto strana, era che i maestri non sembravano gradire molto questo cambiamento così repentino, che creò loro parecchi problemi per capire i nostri scritti; i quali sembravano messaggi cifrati, degni del KGB nel periodo d'oro del controspionaggio!
Allora non immaginavamo certo, che prima o poi nella vita quel modo di scrivere ci sarebbe tornato utile; non certo per fare bella mostra di calligrafia, ma per poter capire il sistema di scrittura che usano ancora oggi Medici e Farmacisti!
Certo, allora, non sapevamo apprezzare appieno le qualità della penna a sfera, ne potevamo prevederne la sua longevità; talvolta il compito primario della penna, che era quello dello scrivere, passava in secondo piano, per trasformare il suo uso in arma di battaglia: diventava una cerbottana. Estraendo il contenitore dell'inchiostro, l'involucro della penna veniva caricato con palline di carta calibro 7,65 e soffiandoci dentro, produceva un effetto dirompente!
Come accennato nella prima parte tutti questi raid armati provocavano l'ira del nemico ( Il Maestro), che privo di fantasia e ostico nel recepire il progresso bellico, reagiva come semre a suon di ceffoni, facendoci ritirare nelle nostre linee trasportando i relativi feriti!
L'apprendimento della scrittura corretta, era correlata alla capacità di ricezione sotto dettatura. Il nostro problema più
grosso in questo senso, era costituito dalle doppie: esse non avevano per noi una valenza fissa, potevano esserci se a dettare era il maestro di Sestu, potevano non esserci se a dettare era la maestra di Nuoro. Dal canto nostro, quando avevamo dubbi, le doppie le mettevamo comunque, a conferma della nostra sardità.
Dal versante dei calcoli, le cose non andavano certo meglio; i grattacapi con le quattro operazioni erano pane quotidiano: abbordabili quando si trattava di addizioni o sottrazioni, da crisi quando si aveva a che fare con moltiplicazioni o peggio divisioni. Immancabilmente avevamo a che fare con l'oste talmente impegnato in su zilleri nella mescita di quartini di vino che, poveretto, non aveva mai il tempo di farsi i conti: fatto stà che la contabilità di questi signori era sempre demandata a noi! Finché il cliente si limitava a consumare pochi quartini e se li pagava di tasca, poco male; ma se ziu Franciscu, ne beveva cinque e ne pagava sette ( due di ziu Chiccu ); ziu Giuanni due normali e due bianchi con gazzosa, e pagava con i soldi interi sei quartini ( due di ieri ); ziu Peppi ne beveva due rossi e mezzo bianco (a ghepidu); Giannitteddu (figlio di ziu chiccu) beveva una gazzosa versando solo un acconto: allora erano guai! Alla fine la famigerata triplice domanda: Sapendo che un quartino di vino rosso costa 85 lire; il bianco il 20% in meno; la gazzosa 20 lire; quanto vino hanno consumato gli avventori? Quanto, e a chi, l'oste deve restituire di resto? E infine ( classica ), quanto guadagna l'oste?
Certo, allora, ci avrebbe fatto comodo la calcolatrice, ma in quel periodo le uniche calcolatrici in circolazione ( che pesavano svariate decine di chili, e sembravano macchine per fare i ravioli ), le usavano solo pochi commercianti ( il nostro oste escluso).
Dalle soluzioni dei nostri problemi, scaturiva: l'oste che dopo aver venduto pochi litri di vino, con l'incasso fatto, poteva benissimo farsi le ferie alle Hawai e quotare la sua azienda in borsa; oppure l'oste che avrebbe guadagnato di più se il vino l'avesse bevuto lui! Più avanti dopo le rimostranze della categoria dei mescitori fu steso un velo pietoso sul nostro lavoro di commercialisti, e passammo a rovinare altre categorie.
Ovviamente alla base di tutti i nostri calcoli, c'erano le famose tabelline che imparammo a memoria, dopo lunghe notti trascorse davanti al caminetto a leggerle e ripeterle. Ogni tanto tra la tabellina del sei e quella del sette ci scappava una pennichella con rispettivo sogno. Sovente si sognava il maestro con un bel paio di floride orecchie d'asino, che, alla richiesta di ripetere la tabellina dell'uno, puntualmente si inceppava, e allora riceveva tante di quelle legnate in mezzo alle orecchie, da fargli implorare pietà! (Voto dato al Maestro zero spaccato!) ma il sogno era troppo bello per durare a lungo. Una deflagrazione, che poteva far pensare a un attentato dei "M.A.C.U.S." ( Movimento Armato Chiusura Ufficiale Scuola); era invece, causata da una castagna malli pizzullada, che messa sotto la cenere ad arrostire (esplodendo come una mina anticarro), ti faceva trasalire; aprendo il sipario su una scena da "The day after": schegge di castagna miste a brace sparse dappertutto; il gatto con la coda mozzata in seguito all'esplosione; la tabellina del nove che bruciava allegramente sul fuoco di lentisco; una brace gigante che attraversava il quaderno a quadretti; la penna biro, che caduta sulla cenere, aveva assunto le sembianze di un ferro di cavallo (La penna piegata in quella maniera diventò uno strumento bellico molto innovativo).
La penna a sfera ci fu di grande utilità anche per quanto riguardava le chiamate alla lavagna. Sul palmo della mano, (cosa che non si poteva fare col pennino) potevamo scrivere informazioni utili per l'interrogazione, e al momento opportuno, fingendo di spremere le meningi, si poteva dare una sbirciatina e sfruttare i dati a disposizione. Il vile espediente non durò comunque a lungo perché qualche inetto, non accontentandosi di scrivere sul palmo della mano cominciò a scrivere anche sul dorso. Il maestro che non era completamente dormito, si accorse quasi subito ed emise le sue prime sentenze col rito abbreviato: se sulla mano scopriva l'addizione 2+2=4, la pena veniva espiata con due semplici bacchettate sul palmo della mano posata sopra la cattedra, che comunque ( vista la consistenza della bacchetta ), ti cancarava la mano. Ma si verificavano casi in cui qualcuno si azzardava a scrivere sulla mano la Rivoluzione Francese in versione integrale, ed allora erano bacchettate ad oltranza, e solo la pietà del campanello ( che informava della fine delle lezioni), poteva salvarlo dall'essere privato dell'uso delle mani ed essere condannato a fare l'autostop con i piedi.
Arrivammo finalmente a conquistare il fiocco azzurro: eravamo in quinta!
Il nostro più grande stupore fu suscitato dalla composizione della classe, che annoverava nel suo interno un gran numero de cuaddu' mannusu. Inizialmente, vedendo scolari che potevano essere in procinto di partire a fare il militare, pensammo di aver sbagliato classe, qualcuno azzardò addirittura l'ipotesi che potevano aver aperto a Ruinas una facoltà di studi universitari; invece no, l'appello fatto dal maestro confermava: era proprio la quinta elementare di Ruinas.
Allora si bocciava, purtroppo, anche nelle scuole elementari, ma questo non bastava a farci capire come mai quei ragazzi fossero ancora in quinta. Ricordo che c'era qualcuno che aveva passato più anni in quinta che nel resto delle elementari, accumulando quindi croccorigasa per lui e per i figli che in futuro sarebbero nati.
Questi scolari, che venivano spesso denominati dal maestro mannu' debbadasa, crearono non pochi problemi ai docenti. Le semplici marachelle alle quali eravamo abituati si trasformarono, con questi ragazzi, in scherzi piuttosto pesanti; il maestro dal canto suo mostrò subito di non gradire , reagendo con i soliti ciaffusu, e vista la mole degli interessati: con callàda'de pei. Ovviamente la controparte non apprezzava molto quelle reazioni, quindi cominciarono le ritorsioni: certuni reagirono applicando la famosa legge "occhio per occhio dente per dente", altri con sistemi di rappresaglia tecnologicamente più
avanzati, tipo: mettere una serpe nel cassetto della cattedra o sostituire la sedia ( buona ) del maestro, con una rotta: con le conseguenza che vi lascio immaginare.
Il momento più drammatico per noi scolari, era la consegna delle pagelle; che poteva scatenare la gioia più incontenibile se i voti riportati sancivano la promozione; la depressione più spaventosa se i voti indicavano un arrivederci nella stessa classe per il prossimo anno ( in altre parole: croccoriga occannu puru ). La drammatica notifica spingeva , talvolta, gli scolari a darsi alla macchia per qualche giorno, per paura della punizione che sicuramente li aspettava. Dal punto di vista storico, queste situazioni, assumono grande importanza perché aiutano a far luce sulle origini del "fenomeno" latitanza in Sardegna.
La promozione rivestiva importanza primaria perchè cancellava immediatamente l'obbligo ( in caso di bocciatura ) della dolorosa scelta di una delle tre soluzioni : A - Cadra riassuntiva di rito, che inglobava tutte le malefatte dell'anno scolastico, con incentivo per la bocciatura.
B - Condanna in contumacia ( in caso di latitanza ), che rinviava momentaneamente sa cadra a data da stabilirsi, con le aggravanti del caso.
C - Cercare asilo politico in casa di parenti stretti, e convincere qualche parente ad intercedere presso i genitori per trattare una riduzione della pena; o almeno una tregua, che doveva sortire l'effetto di far raffreddare gli animi. Questa soluzione risultava spesso molto rischiosa, in quanto i parenti ( qualche volta ), si innalzavano a loro volta a giudici, condannando senza appello il povero ripetente e conferendogli il primo assaggio della sussa definitiva.
La promozione, in quinta elementare, sanciva il passaggio alle scuole medie, che per noi significava: liberarci finalmente dell'odiato grembiule e quindi finirla con la "vestizione" mattutina tipo Compoidori; entrare nel periodo post-bellico, nel quale ( si diceva ) non venivano più dispensati ceffoni di sorta; progredire negli studi e nella scrittura; chiudere definitivamente con la mensa scolastica ( refezione ); messa al bando delle famigerate bacchette-randello che tante volte ci lasciarono i segni indelebili sulle mani.
Tutto questo sapeva di paese dei balocchi, per cui non ci facemmo troppe illusioni.


III
Siamo così giunti alla terza parte di questa storia. - Speriamo che sia l'ultima! (dirà qualcuno!) e non posso certo dargli torto, per due motivi, primo: perchè le cose belle durano poco ( Pitticca sa modestia!) Secondo: perchè si è parlato talmente tanto di bachettate, di randellate, de cadrasa (di botte da orbi insomma) che, a furia di leggere e rileggere di queste cose, sembra quasi che il nostro passato scolastico l'abbiamo trascorso a Yuma o a Sing-Sing: con la palla al piede, spaccando roccie sotto il sole cocente e bevendo (raramente), tra una frustata e l'altra, l'acqua a turra stampada!
- Quindi. (Dirà qualcun'altro) - Sarà meglio darci un taglio e parlare, magari, di cose più liete che ci facciano dimenticare le "sofferenze corporali", subite in tanti anni di scuola. Ma il pregio (o il difetto) di chi scrive, è quella piccola dose di sardo-masochismo che si annida in lui, difficile da reprimere. Quindi prosegue imperterrito (incurante delle suppliche della coscienza che grida: acabadda!!), senza curarsi troppo del male che procura a se stesso e agli altri.
Dopo questo sfogo, che è un atto dovuto (alla coscienza), affrontiamo serenamente il seguito di questa storia, come il condannato alla pena capitale, che fuma la sua ultima sigaretta, (e giù scongiuri: corn, ferri di cavallo, coa'de zillighetta e chi più ne ha più ne metta!). Ma forse è meglio pensare che questo pseudo-racconto sia, invece, come quella famosa telefonata che allunga la vita: sperando che non entrino in sciopero gli operatori Telecom, o che non ci stacchino il telefono per morosità!
Qualcuno potrebbe obiettare che questa storia somiglia a una telenovela (nel senso che puoi anche perderti cinquanta puntate che, comunque, riesci a seguirne la trama). Rispondo che questo racconto si differenzia da tali storie soprattutto perché, dai nostri drammi dell'infanzia, riusciamo a tirar fuori qualcosa di allegro: al contrario delle telenovelas. L'unica cosa che hanno in comune le telenovelas e le nostre storie è il pianto: (lagrima'che pungiusu) che hanno fatto versare alle nostre mamme.
Per quelli che sono usciti indenni, leggendo le prime due parti del racconto, mi sento in dovere di continuare il discorso. Qualcuno mi chiede: - ma al computer quando ci arrivi? Devo francamente dire, che non lo so neanch'io; anche perché
nell'epoca in cui siamo, a questo punto del racconto, il computer era ancora lungi dall'essere inventato. Esistevano, allora, soltanto dei "calcolatori" (usati a livello industriale) che sembravano "armadi quattro stagioni" e avevano una capacità
di memoria, che ai giorni nostri farebbe ridere. Quindi restiamo ancora nel periodo in cui tutto (o quasi) era ancora manuale.
Seguendo l'evoluzione dal pennino al computer ricorre spesso, in questo racconto, la scuola. Volutamente , devo dire, in quanto penso che essa abbia giocato un ruolo fondamentale in questo evolversi del modo di scrivere e di eseguire i calcoli; ma soprattutto nella vita di tutti noi.
Torniamo quindi al periodo scolastico, siamo esattamente alla fine delle scuole elementari: nel periodo delle vacanze estive.
Espiata la pena (i bocciati) e goduto il premio (i promossi), ci si ritrovava tutti insieme (a ore' solli, dopo essere scappati da casa uscendo dalla finestra), durante la pausa estiva, e si apriva ufficialmente la "campagna di razzìa" di tutti i frutti esistenti nel nostro territorio. Le spedizioni avvenivano con sistemi di locomozione poco ortodossi, ma erano per noi gli unici mezzi a disposizione (gratuiti), che ci davano la possibilità di effettuare le nostre scorribande: i mollentisi! (Mammiferi equini con lunghi orecchi e pelame per lo più grigiastro, da tiro e da soma; cita lo Zingarelli). Questi asini, che nel periodo estivo venivano lasciati liberi dai loro padroni, erano per noi la manna dal cielo. Si potevano trovare, a gruppi, in varie zone di Ruinas: Nurachi, is' Argiolla'de Cresia, sa Scalla Manna etc. Noi ragazzi provavamo per questi animali un senso di tenerezza particolare (forse perché essendo stati, sovente, noi scolari, definiti conca'de mollentisi); sentivamo di avere qualche vaga affinità con loro. Noi eravamo probabilmente più intelligenti, ma quei quadrupedi non ci sembravano poi così stupidi come venivano definiti. L'approccio con questi animali non era certo dei più semplici anzi, spesso, era piuttosto cruento.
Una volta individuato il gruppo che sembrava facesse al caso nostro, scattava l'operazione avvicinamento, che incominciava in questa maniera: con la massima indifferenza possibile ci si avvicinava alle bestie evitando assolutamente di passargli da dietro (questo, chiaramente, per evitare l'uso dell'arma più pericolosa dell'asino: le scalciate ovvero is' cracchidusu).
Ovviamente tutto questo lo capimmo a nostre spese, sperimentando sulla nostra pelle il doloroso effetto, che poteva persistere per parecchio tempo, dopo aver ricevuto su cracchidu da qualche asino poco "socievole". Quindi dopo esserci avvicinati con la massima cautela si cercava di far capire al nostro interlocutore, le nostre buone intenzioni: magari scraffendideddu in prossimità delle orecchie e verificando l'assenza, addosso alla bestia, di "mosche cavalline".
L'operazione successiva, che consisteva nel montare in groppa, avveniva solamente se ci sembrava che l'animale dimostrasse, con un mezzo sorriso, di aver gradito le nostre carezze. A questo punto, con la leggerezza ed il portamento degni di un nobile cavaliere, si saltava in groppa: guadagnando immediatamente la presa sulla criniera del nostro "amico-destriero".
Fu così che cominciammo a fare i primi esercizi di "volo libero", in quanto nella maggior parte dei casi, su mollenti (ritenendosi in "ferie", dopo aver trasportato per tutto l'anno dei carichi allucinanti), istantaneamente ci catapultava in un cespuglio di rovi o fimorisca, con conseguenze talvolta drammatiche: in seguito all'infissione, su ogni parte del nostro corpo, di una miriade di spine. Siccome, testardaggine ne avevamo quanto loro, i nostri tentativi proseguivano ad oltranza, finché il quadrupede; verosimilmente commosso (con produzione di lacrime), per la nostra sorte, non decideva di accoglierci a "bordo"!
A questo punto il commando di espropriazione frutta ed affini, era pronto a compiere le sue prodezze: requisizione di tutte le primizie della stagione ed incameramento dei frutti ancora acerbi, con messa in conservazione di questi ultimi sotto terra (sistema a carraggiu).
La frutta sottratta ai padroni (soprattutto nell'ora della "siesta") veniva consumata in parte da noi; l'altra parte (minima) veniva offerta ai nostri "destrieri" (che gradivano molto), per cercare di consolidare la nostra amicizia e farli diventare più tolleranti nei nostri confronti. Questa delicata operazione avveniva a debita distanza dalla bocca dell'asino; la precauzione era dettata dall'esperienza: un morso con quei "dentini da latte" era tuttaltro che piacevole! Si poteva addirittura rischiare la perdita dell'arto e finire, con un gancio al posto della mano, come Capitan Uncino! Con conseguenze piuttosto spiacevoli (a causa dell'uncino), in caso di "estrazione" di "corpi estranei" dal naso!
Ricordo che un nostro compagno, dopo aver subìto un morso su un ginocchio, da uno di questi animaletti, dovette rinunciare alle sue mansioni di chierichetto: non potendosi più inginocchiare!
Una cosa che scoprimmo per caso, e provocò immenso stupore in noi, fu che gli asini mangiavano la carta stampata (giornali, per intenderci); anzi ne erano ghiotti. Inizialmente non riuscivamo a capire che cosa ci trovassero di tanto saporito in questi fogli stampati, ma un nostro compagno (il solito perspicace), con un lampo di genio disse: - Non c'è altra spiegazione: è fame di cultura!!
-Ma che dici! Rispose un'altro.- Allora perchè mangia anche l'Unione Sarda?
(Ovviamente si trattava soltanto de fammini a segai a fittasa)
Questo episodio non fece che rafforzare la concezione che avevamo di queste bestie: non erano poi così ignoranti anzi; avevano voglia di imparare!
Il nostro "Commando" si ispirava ad Attila. Bisogna però dire che nel nostro caso, gli allievi superarono il maestro. Non solo dove passavamo noi non cresceva più l'erba: ma nemmeno la frutta!
Nella nostra euforia dimenticavamo, purtroppo, che la spada di Damocle pendeva costantemente sul nostro capo: non ci rendevamo conto, che queste ignobili azioni, sarebbero state sicuramente punite.
Capitava, durante queste "calate" da Unni, che il padrone degli alberi da frutta presi di mira (per cause inspiegabili), si destasse prima dell'ora dalla siesta; quindi, non di rado, venivamo sorpresi con le mani nel sacco. Chi era talmente veloce da saltare in groppa all'asino, poteva tentare la fuga (sempre che il somaro non reagisse a modo suo disarcionando il fuggiasco); per gli altri era assicurata una consistente razione di legnate a base di mazzocca, e nei casi limite; de toll'e' cavuna (firmata Franciscu Lai)!
Nella maggior parte dei casi, dopo la solenne lezione del padrone della frutta, ci aspettava (al nostro ritorno a casa) la seconda razione de cadra da parte dei nostri, che, tanto per gradire, consisteva in una bella passada de soghitta (laccio in pelle con un anello metallico all'estremità, che serviva per fasciare la legna n.d.r.). L'unica nostra preoccupazione, in quel momento, era che il nostro castigatore non impugnasse il micidiale scudiscio dalla parte opposta a s'anella!
Era consuetudine, soprattutto per noi ragazzi, stare scalzi durante il periodo estivo; questo doveva servire: sia a risparmiare scarpe, che po affottiai is peisi; e sul secondo punto non c'era nulla da ridire in quanto a fine estate, avevamo la "pianta" del piede talmente dura, che i pneumatici da neve, a confronto, facevano ridere!
I piedi, con quel duro strato sotto, che ci si poteva benissimo incidere il battistrada, ci tornavano spesso utili nelle ritirate strategiche (in caso di perdita dei nostri mezzi di locomozione). Anche in presenza di spia zruppa, pruischedda e callavrigu; riuscivamo spesso a seminare l'inseguitore che; agitando la roncola, ( di certo ) non ci correva dietro per offrirci il gelato!
Queste e tante altre disavventure caratterizzavano le nostre vacanze di allora, che trascorrevano tra momenti di allegria conditi spesso con lacrime: arrisu cun croggiollu!
Ma si, il tempo è tiranno: le vacanze finirono molto presto e inesorabilmente arrivò il giorno di riapertura delle scuole.
Quella volta rientrammo a scuola, non dico volentieri, perché sarebbe una grossa balla, ma sicuramente con un altro spirito: parecchia curiosità mista a voglia di qualcosa di diverso (nulla a che vedere con la signora in giallo); devo dire che le sorprese non mancarono.
La prima della sorprese consisteva nel numero di maschietti presenti in prima media: solo tre. Anche la presenza del gentil sesso era alquanto ridotta: sei ragazze. (Tra l'altro la classe mista era per noi una novità). La seconda sorpresa era costituita dalla presenza in aula di un televisore. La presenza di quest'ultimo, scatenò una curiosità irrefrenabile, pensammo: magari ci fanno vedere il "gatto Felix" o il telefilm "Rin-Tin-Tin". L'accensione del televisore fu un grande avvenimento: quando la professoressa pigiò il pulsante, uscirono dall'altoparlante un'infinità di rumori seguiti da un boato potentissimo simile all'esplosione di Hiroshima, che ci costrinse a rifugiarci sotto i banchi. In quel preciso istante, dall'interno del televisore, uscì, veloce come una saetta: un topo. Mezzo abbrustolito dalla scarica elettrica, con la coda accesa tipo miccia; cercò di guadagnare l'uscita passando tra i piedi della prof, che cadde gambe all'aria. La corsa del "ratto-torcia" finì in modo poco eroico sotto la scarpa n.44 di un nostro compagno!
La professoressa (bianca che sa nia e tremendi che sa canna) non spiccicava parola. - Spereusu chi di duridi! Disse il solito maligno. Dopo un lasso di tempo interminabile, la prof, ripresasi dallo spavento ed annunciando la momentanea "invalidità" del televisore; ci comunicò che avremmo fatto lezione senza immagini televisive, finché il guasto non fosse stato riparato: peccato la sorpresa era rinviata.
A questo punto devo (purtroppo per voi) annunciarvi, che ci sarà anche la quarta parte di questo racconto.

IV
Per chi non demorde, per chi ha deciso di farsi del male (e ridaje), per chi vuole buttar via il proprio tempo e per chi pensa che, tutto sommato, a volte bisogna bere la medicina nonostante sia amara; anche su questo numero (non senza aver promesso di smetterla di "usurpare" spazio prezioso sul giornalino); sono riuscito a infilarci un altro tassello di questo travagliato passaggio dal pennino al computer. La promessa mi è stata estorta con la minaccia (nel caso in cui mi ostini a procedere), da parte dei colleghi della redazione, di mandarmi come corrispondente di un quotidiano a scrivere di cronaca tipo:

Furto di maiali a Ruinas.
La notte scorsa, in località Pire' proccheddu, sono stati rubati, al signor Mondo Porcu, due maiali (acchisrogiusu) e due scrofe da due quintali cadauna, con venti maialetti al seguito. I ladri dopo aver legato i cani a satizzu, con la minaccia delle armi, hanno convinto i suini a seguirli, minacciandoli di trasformarli in insaccati nel caso in cui si fossero rifiutati. Sul posto non sono stati rinvenuti segni di collutazione: il che fa pensare che vi sia stata complicità o quantomeno tacito accordo tra i ladri e le bestie. Testimoni oculari: i cani che, troppo occupati a liberarsi delle salsiccie, non hanno avuto il tempo materiale per impedire la "sottrazione". I rapitori si sono fatti vivi subito dopo chiedendo il pagamento di un cospicuo riscatto da versare in pressi, pena la soppressione di un sempresveglio (mai-a-letto), ogni ora. Gli inquirenti brancolano nel buio, nonostante le indagini si svolgano di giorno. Gli investigatori (nonostante la complessità del caso) ricollegandosi al detto "tanto va il ladro al lardo che ti ruba il maialino", pensano di risolvere il caso quanto prima. Le indagini sono orientate su abitué di questi prelievi: genti chi non di di friga'nudda de su colesterolu. Le indagini sono circoscritte alla Sardegna, essendo vietata (a causa della "peste suina") l'esportazione di carne di maiale dall'isola. Dal ns.inviato Giorgio Brocca
Pensionato Raggirato ad Usellus.
Ieri mattina due (finte) Ispettrici dell'INPS, hanno sottratto al signor Franco Soddu di 75 anni, dieci milioni di lire in contanti e tre in bottusu (così li ha definiti il signor Soddu).
Due avvenenti, e piuttosto discinte, signorine si sono presentate nell'abitazione del signor Soddu, dichiarandosi Ispettrici dell'INPS in servizio per controlli sui falsi invalidi. Le due due donne hanno invitato il pensionato a esibire il libretto della pensione. Mentre una delle due lo esaminava, l'altra ha chiesto di poter utilizzare la toilette: avuto il consenso dal signor Soddu; usciva dalla cucina e furtivamente si introduceva in camera da letto, dove, sotto il materasso prelevava il malloppo.
Le due false funzionarie salutavano, con un sorriso ammaliante, il vegliardo, consegnandogli cinquantamila lire, quale rimborso per un errore sull'ultima mensilità da lui incassata.
Il Soddu (con gli occhi in bianco), contento come una pasqua, ricambiava il saluto invitandole a tornare quanto prima a bere un altro "Villacidro Murgia". Lo sfortunato pensionato si è accorto del furto solo a tarda sera, quando (come tutti i giorni) si accingeva ad effettuare il calcolo degli interessi maturati. L'anziano malcapitato ha fornito pochi indizi agli inquirenti, in quanto non ha avuto il tempo di vedere bene in faccia le due gentildonne: questo perchè troppo occupato a guardare le minigonne mozzafiato (appena più lunghe di un prammu, come ha detto ziu Soddu), che indossavano le due donne. L'unico indizio utile (fornito dal Soddu) che potrebbe aiutare gli inquirenti, è la "erre" un po' arraspiosa, che avevano le due donne quando parlavano.
Altro indizio scoperto dai tutori dell'ordine (dopo un sopralluogo): un persistente profumo di Chanel 5, percettibile, nonostante un po' confuso da un altro profumo tipicamente francese (Mer-de Bac), proveniente da sa lolla del signor Soddu.
Gli inquirenti (due baldi giovanotti dal naso fine), per battere sul tempo le due donne sono già in volo per Parigi: cominceranno le indagini dal Moulin Rouge.
Dal ns. inviato Enzo Briaggiu.
Prendendo atto di tali minacce, è chiaro che dovrò, prendere in considerazione la possibilità di porre fine a questo racconto. Con la speranza che dopo questa "puntata", la redazione cambi idea, seguiterò a portare alla luce episodi che forse sarebbe meglio tenere sepolti.
Nel precedente numero del giornalino siamo rimasti al periodo in cui si frequentava la prima media. Il primo giorno di scuola, nonostante l'inconveniente tecnico del televisore, passò abbastanza tranquillo in quanto passammo le ore di lezione a conoscere i nostri professori (due): uno per le materie scientifiche e l'altro per le materie letterarie.
Le lezioni si tenevano nei locali di proprietà della parrocchia, in quanto (allora) il Comune non disponeva di edifici scolastici per le scuole medie. Patron di tutta la situazione: Don Natale (in sa Groria siada). Il secondo giorno di scuola lo trovammo nella nostra aula, con una valvola (che sembrava un fiasco di vernaccia) in mano: "Il televisore è a posto, s'era bruciata questa valvola", disse con voce imperiosa. La Professoressa lo ringraziò vivamente e diede inizio alle lezioni.
Questa volta all'accensione del televisore (nonostante fossimo tutti con le mani sulle orecchie), non sucesse niente di anomalo: dopo un paio di minuti (necessari alle valvole per riscaldarsi); comparve sullo schermo il solito nevischio che lasciò
quasi subito il posto a un sornione professore che spiegava ad un classe di sei alunni. Il professore tottu allicchidiu (in giacca e cravatta, elegantissimo), pariada prontu po si coiai. Gli alunni (tre maschi e tre femmine) non erano da meno: sembravano usciti da una boutique di Giorgio Armandu.
Questa classe ce la portammo dietro fino alla terza media, gli alunni che ne facevano parte ci diventarono talmente familiari, da condividere con loro gioie e sofferenze. I loro nomi li ricordo ancora oggi, i ragazzi: Bruno (langiu che terra, fraizzu cumente'margiai); Gianni (grassu che u procu); Mauro (su seriu). Le ragazze: Roberta (leggia che su trummentu: ua cozzia); Emanuela (sa bonazza), il cui fascino non sfuggiva neanche ai professori; Gloria (la preferita, non eccessivamente bella ma intelligente e dotata di un fascino esotico-cabesusesu).
A questo punto comparvero due grosse novità:
1- Scoprimmo di avere a che fare con altre due lingue "straniere" (oltre all'Italiano): il Francese e il Latino.
2- Facemmo conoscenza con un nuovo vocabolo: Appunti.
La lingua francese ci creò non poche difficoltà, soprattutto per la cosidetta "erre moscia"che tra l'altro ci sembrava anche una brutta parola. Inoltre non riuscivamo a spiegarci in quale modo questa lingua ci sarebbe tornata utile, qualcuno azzardò:"Magari potrà servirci se per caso andiamo in Francia a lavorare in miniera!" Fortunatamente nessuno di noi ha poi avuto a che fare con quelle buie "gallerie" e tantomeno con la silicosi.
Il latino ci sembrava più familiare, vuoi perchè lo sentivamo in chiesa, vuoi perchè sembrava avere parecchie attinenze con la nostra madre lingua: il Sardo. A proposito del latino pensammo: se l'hanno appreso perfettamente a Paulilatino perché non dovremmo riuscirci noi?
Durante l'ora in cui si seguiva la lezione televisiva bisognava scrivere sui quaderni quello che si riusciva a capire dalle spiegazioni del "Tele-prof". Allora era sicuramente un sistema d'insegnamento molto antiquato (probabilmente dovuto alla carenza di professori), oggi l'avrebbero sicuramente definito: "Insegnamento Multimediale".
Tutte quelle pagine che riuscivamo a riempire li chiamarono appunti (appunto). Ma di questo parlerò (se mi sarà consentito), più diffusamente nel prossimo numero.
Inizialmente le lezioni si svolgevano nel locale ex Circolo ACLI. Questa "aula" aveva il pregio di mantenerci sempre freschi ed in forma, per la sua bassa temperatura. L'unico inconveniente era che quando si riusciva a fare silenzio, si sentiva un generale battere di denti che somigliava tanto alla corsa di un branco di cavalli selvaggi! In quel "salubre" ambiente si sarebbero sicuramente trovati a disagio anche i pinguini.
In quel locale si trovavano, ancora accatastate, casse di bibite ed una botte di vino: rimaste lì da chissà quanti anni dopo la chiusura del circolo. Naturalmente (appena potemmo) cominciammo a stappare bottiglie di aranciata, gazzosa e spuma ma, haimè, la nostra delusione fu troppo grande: dopo tanti anni tutte queste bibite erano avariate ed avevano un sapore che somigliava più al petrolio che a una bibita.
A questo punto il solito "sveglio" disse: "Ci resta sempre il vino!" (Una botte da duecento litri).
In men che non si dica lo scaltro "Somelier" riempì ua tassa de quatu di quello che (secondo noi), doveva essere Cannonau invecchiato in botte di rovere; lo assaggiò
immediatamente, e quasi istantaneamente lo risputò esclamando: " Qustu est'aghedu schettu, torra' su mottu a biu!". Increduli lo assaggiammo tutti ma dovemmo espellere immediatamente: "il giovine vinello" era diventato così forte che, anche un'insalata de indivia si sarebbe rifiutata di farsi condire da quel "liquido".
La sorpresa più grande l'avemmo il giorno dopo, quando entrando in "classe" la trovammo completamente allagata di "vino": il nostro compagno aveva dimenticato il rubinetto (sa scetta) della botte, aperto. Con i fazzoletti a mò di mascherina passamo tutta la matttinata a ripulire il locale: fu quello il primo caso di "sbronza involontaria".
Quando finimmo di ripulire ci trovammo completamente impregnati di un acre odore di aceto, al punto che, all'uscita di scuola riuscimmo a stento a liberarci di tutti i cani del circondario che ci vennero dietro, probabilmente scambiandoci po pruppa imbinada!
In attesa de scisciai dall'inebriamento, "salvo con nome" dandovi appuntamento al prossimo numero.

V
Scrivendo al computer sento, a volte, la nostalgia del pennino: non per spirito conservatore, ma perchè questo moderno marchingegno (che mette così velocemente sulla carta quello che scrivi), talvolta, ti concede poco tempo di pensare; capita quindi che in mezzo a tante cose dettate da ampia riflessione, trovino posto anche delle cose di cui si potrebbe benissimo fare a meno di menzionare.
Mi perdoni quindi il lettore per queste asperità, ma questo è il prezzo che dobbiamo pagare per aver accettato "la schiavitù tecnologica"!
Certo, il pennino ti dava tutto il tempo (bagnando lo stesso nel calamaio prima, e asciugando la scrittura con la carta assorbente, dopo), per ponderare le parole, evitando gratuiti aforismi e continui scivoloni nella più banale retorica.
Sono quindi costretto, per riuscire a farmi leggere, a camminare (in precario equilibrio) sul sottile filo teso tra i pali del serio e del faceto, affondando spesso il coltello dell'ironia e dell'autoironia, rischiando di aprire piaghe talvolta insanabili sull'opinione del lettore, già straziata dai martellanti assalti dei Mass-Media e de is penzamentusu.
Stacchiamo (per un attimo), quindi, la spina dalla vita normale e viviamo questi attimi di lettura come immersi in una sorta di momentanea "Trance" che ad effetto svanito ci riporterà, con la più possibile indifferenza, nella realtà della vita quotidiana.
Torniamo, perciò, al nostro "racconto" riallacciandoci al periodo delle tele-scuole-medie, con i professori che facevano del loro meglio per darci una decente formazione civile-morale-cultural-scolastica. A tal proposito era in uso, in quel periodo, una frase (coniata dai professori), che recitava: "Il profitto ottenuto dagli alunni è direttamente proporzionale al loro impegno".
Dal nostro canto, sintetizammo così la nostra divergenza d'opinione: "Lo scarso profitto ottenuto dagli alunni è direttamente proporzionale all'incapacità dei professori!"
Questi professori che parlavano così in fretta (bontà loro), ci costrinsero (nello scrivere) ad utilizzare le abbreviazioni che consentivano di tenere il passo. Ovviamente come ogni medaglia anche questa aveva il suo rovescio: le abbreviazioni ci facilitavano la scrittura ma ci complicavano la lettura. Per stipare i chilometrici appunti nel quaderno, ricorremmo anche alla tecnica di rimpicciolire i caratteri, finendo così per rendere quasi illeggibile il tutto e mettere a repentaglio parecchie diottrie. Quel tipo di scrittura veniva normalmente definita: scarraffiu'de pudda.
La materia che ci impegnava di più dal versante degli appunti era la storia: pagine intere zeppe di scoperte, di dichiarazioni di guerra, di armistizi e via discorrendo. Da quel cumulo di appunti stracolmi di date e avvenimenti poteva risultare un confuso ed alquanto improbabile scenario storico di questo tipo.
Nell'anno disgrazia 1486, un certo Cristoforo Columbu di Carloforte (Cristolu per gli amici), convinto che la terra non fosse piatta come il Campidano, ma che avesse una forma sferica tipo anguria, decise di tentare la navigazione ad oltranza, pensando di poter arrivare alle Indie, seguendo una rotta opposta a quella naturale.Columbu dovette scontrarsi subito con enormi difficoltà per reperire i fondi necessari a finanziare la sua impresa.
Allora, purtroppo, non esistevano gli sponsor per finanziare il suo viaggio. Il suo primo tentativo (e quì dimostrò subito la sua ingenuità), lo fece a Genova: figuriamoci se poteva esserci qualche facoltoso genovese disposto a rischiare le sue "palanche" per una follia di questo tipo.
Ovviamente (essendo convinzione comune che la terra fosse piatta) quando parlò dell'impresa che intendeva realizzare, fu subito bollato come pazzo e nessuno badò a lui più di tanto. Parlò della sua impresa anche a Marco Polu (che quei posti li conosceva abbastanza bene, in quanto vi si recava spesso a cavallo per importare le spezie da portare, appunto, a La Spezia).
"Voglio arrivare alle Indie circumnavigando la terra verso occidente"- gli disse Cristoforo.
"Tui se maccu che u cuaddu, questa folle spedizione non può andare in porto!"- Gli rispose Marco, (complimentandosi con se stesso per la risposta così "calzante").
Columbu (Che si autodefiniva così: seu Columbu e seu sardu, no istumbu ca seu testardu), non si fece certo scoraggiare dall'opinione negativa (anche se autorevole) di Marco Polu, quindi cercò conforto con altri personaggi dell'epoca.
Ponzio Pelato non volle nemmeno sentir parlare di dare il suo appoggio a Columbu e, lavandosene le mani, gli disse: "a mei de su machimini du' no mi'ndi' impotta' nudda, bai mancai andisti a is corru' de sa furca!"
In quegli anni si stava mettendo a punto la macchina del futuro. Columbu (che intendeva giocare tutte le sue carte), chiese, ed otenne di poter intraprendere un viaggio nel futuro: venne quindi proiettato in avanti di qualche secolo.....
Correva voce, in quel periodo, che a Milano vi fosse un facoltoso industriale sensibile alle nuove "imprese". Columbu raggiunse immediatamente la capitale della Padania e ottenne un colloquio con lui: si trattava del Cavalier Silvio Berluschino il quale era, allora, molto impegnato a fondare la "Giovine Forza Italia".
Dopo essere stato introdotto dall'usciere Emilio Fedu, espose al Cavaliere i suoi progetti. Alla richiesta di finanziamenti da parte di Cristoforo Columbu, Berluschino rispose: "Mi consenta signor Columbu, ma devo dirle che la Frodinvest non può
finanziare la sua spedizione in quanto sta impegnando gran parte del suo capitale per consentire la mia ridiscesa in campo, che averrà quanto prima!"
Deluso dal futuro e soprattutto dalle navi della Tirrenia, Columbu decise di ritornare immediatamente nel presente.
In Sardegna, sensibili al problema di Columbu, si offrirono per dare una mano i pescatori di Cabras, offrendo le loro tipiche imbarcazioni: Is Fassonis. Columbu visibilmente commosso per quello slancio di generosità dise loro: "piccioccusu non devo andare a pescare muggini nello stagno devo raggiungere le Indie!". Per ricompensarli della loro buona volontà, promise che al suo ritorno dalle Indie avrebbe portato i fichi d'India: tutti noi Sardi siamo testimoni della sua mantenuta promessa.
Columbu (che di pazienza ne aveva almeno quanto Giove) battè cassa un pò dappertutto, chiese dei contributi perfino a Eleonora d'Arborea, al C.I.S. (Credito Industriale Sardo) e un prestito al B.R.S. (Banco del Regno di Sardegna), ma da tutti ricevette la stessa laconica risposta: non siamo assolutamente disposti a buttare via mancu u'arrialli per uno che pensa che la terra abbia forma di palla!
Provando sulla propria pelle che nessuno è profeta in patria, Cristoforo Columbu giungette a malincuore alla dolorosa conclusione: per poter realizzare il suo sogno avrebbe dovuto varcare la frontiera. Così, un pò facendosi guidare dal proprio istinto, un pò perchè sentiva che quella terra aveva qualcosa in comune con la sua, ma soprattutto perchè più vicina all'Oceano Atlantico, fece la sua scelta: decise di tentare in Spagna.
A convalida della sua giusta scelta ci fu la calorosa accoglienza che ricevette in terra Iberica: molti accettarono di buon grado l'ipotesi che la terra potesse avere una forma sferica, e quindi caldeggiarono l'impresa che Columbu voleva affrontare. Unico neo in tutta la vicenda: degli spagnoli intervistati nessuno aveva una Peseta da poter dare all'intrepido navigatore.
Qualcuno, senza troppa convinzione, lo indirizzò alla Corte del Re Ferdinando. Vi si recò immediatamente.
"Buscar el levante Jendo por el ponente!".
Così esordì Cristoforo Columbu, esponendo i suoi progetti al "Rei". Alla richiesta di aiuti, Sua Maestà rispose: " Senor Columbu se husted pensa que la tierra tienga forma de pelota, me parece que la su cabeza sia piata como la tierra! No tenimos dinero de scavular in una impresa loca como esta!".
Triste e sconsolato Columbu si accinse a lasciare la Corte, ma il Giullare lo richiamò e lo indirizzò dalla Regina. In men che non si dica Columbu si ritrovò al cospetto della Sovrana: la Regina Isabella.
Ripresosi dallo stupore iniziale per la bellezza di sua Altezza, il nostro Cristoforo illustrò immediatamente il suo progetto. La Regina, famosa per le sue larghe vedute e per il suo spirito d'avventura (attratta, inoltre, dal fascino "macho" dell'italo-sardo), accolse immediatamente il progetto del navigatore e mise subito a disposizione dello stesso, una consistente quantità
di Pesetas per realizzare la spedizione e così chiuse il colloquio: "Senor Columbu jo creo que con la cabeza de sardo que tiene husted, puede seguramiente arribar a las Indias jendo por el ponente; tambiem puede spender bien el nuestro dinero, siendo husted medio Genoves, de manos non mucho abiertas".
Furono messe a disposizione di Columbu tre bellissime navi (caravelle): la "Mina", la "Finta" e l'Ammiraglia "Spanta Maria".
Il problema più grosso; fu a questo punto, trovare gli equipaggi per le navi: dopo tanti rifiuti da parte dei marinai più
accreditati, il nostro eroe fu costretto ad optare per una ciurma costituita da elementi piuttosto "guasti"; ma a questo punto non poteva certo andare troppo per il sottile.
Caricate tutte le provviste e completato gli equipaggi, Columbu potè finalmente dare il via al suo sogno: Il 3 agosto del 1492 salpò da Palau e con le prue delle caravelle rivolte a 270° puntò alla volta delle Indie.
Lasciamo (momentaneamente) il nostro Columbu per vedere cosa succedeva in quelli anni nella martoriata terra "Italica"...
In quel tempo Giuseppe Mazzinu (antenato di Bossi) si faceva in quattro per cercare di unificare l'italia. Giuseppe Gariboldi (che ricevette l'incarico di cominciare l'unificazione dal sud) partì da Quartu, diretto in Sicilia con mille gariboldini reclutati tra i minatori del Sulcis (tradizionalmente rossi). Questi, quando seppero che si sarebbe andati a Marsala, fecero una bella scorta di vernaccia di Baratili. L'adunata di quegli intrepidi mille si svolse al Poetto sotto la supervisione del Maresciallo Badogliu.
Fu in quel periodo che nacquero i "Molti Carbonari": Associazione di uomini coraggiosi, con smisurato sprezzo del pericolo, disposti a sacrificare la propria vita per l'unificazione dell'Italia.
Gli aderenti a questa Associazione Segreta (essendo sempre nascosti), avevano poche possibilità di uscire dai loro nascondigli per procurarsi i viveri, quindi dovettero arrangiarsi con la scarsa quantità di alimenti che avevano a disposizione. Fu allora che improvvisarano una pastasciutta con uova e pancetta, ancora oggi molto apprezzata: la pasta "alla carbonara".
A seguito di questi eventi, avenne a Meana il famoso incontro tra Vittorio Manuale e Giuseppe Gariboldi. Il primo disse al secondo: "L'Italia è fatta, adesso bisogna fare la Padania!".
[Questa frase non è sfuggita a Bossi il quale, facendo tesoro di ciò, si sta dando (oggi) da fare, aproffittando del celodurismo perenne (simbolo di virilità e prosperità), e dei recenti progressi della scienza sulla Clonazione, per creare tanti "padanini" tutti uguali: celodurati (esenti da eiaculatio precocis), verdi e suD-normali!]
Sperando che i personaggi storici (quì citati) non si rivoltino troppo nelle loro tombe, e confidando in un improbabile perdono da parte dei "puristi" della Storia, per (eventuali) errate collocazioni storiche di fatti e persone, vi do appuntamento al prossimo numero.

VI
Sullo scorso numero ho fatto una panoramica di avvenimenti storici, come potevano essere da noi studenti riassunti a seguito delle lezioni di storia eseguite con il metodo "Data-System", che non era (come si può pensare) un sistema d'insegnamento informatizzato, ma semplicemente studiare la storia ricordando tutti gli avvenimenti (anche i più futili) e le date precise: anno, mese, giorno e ora (con approssimazione massima tollerata di qualche decimo di secondo), in cui si svolsero.
Questo metodo, tanto caro ai nostri Professori, sarebbe stato meglio definirlo ( per il risultato talmente miscelato di date e avvenimenti, che non avevano nessuna sequenza logica tra di loro), metodo "Shaker". Naturalmente, alle interrogazioni emergeva la triste realtà: tutta la Storia, da noi rievocata, si presentava completamente ingarbugliata (pillissàda!).
Dopo l'ultima "puntata" avrei voluto stendere un velo pietoso su questa materia, al che qualcuno si è (per così
dire) teneramente affezionato alle vicende di Cristoforo Columbu, quindi ha espresso il desiderio di poter conoscere almeno il seguito della sua impresa. E' quindi per "dovere di cronaca" e per una personale ammirazione verso l'ex "Collega" (Navigatore), che cercherò di fare mente locale, rievocando gli episodi come li vedevamo noi studenti in quel periodo (seriamente preoccupati per la guerra nel Vietnam).
....Salpato da Palau a bordo della Spanta Maria, Columbu guidava la "flotta" verso le Indie portandosi sulla scia (a qualche migliaio di piedi) le altre due Caravelle: la Mina, affidata al fratello e la Finta al cugino ("Tutto in famiglia"- notarono subito i maligni).
Fin dai primi giorni di navigazione il destino non si mostrò molto favorevole a Columbu. Tutta la superfice velica venne issata per poter essere gonfiata dal vento ed imprimere velocità alle imbarcazioni, ma come al solito soffiava il Maestrale, che provenendo da nord-ovest non era certo il vento favorevole per spingere le Caravelle verso ponente.
"Ma candu arriba' su ent' e solli!" (vento di levante n.d.r.) - gridavano i marinai.
Trascorrevano intanto i giorni e gli scafi solcavano molto lentamente, troppo lentamente, l'Oceano Atlantico; fu a quel punto che cominciarono i mugugni della ciurma. Il mugugno, ovvero la lamentela, era un diritto sacrosanto per i marinai, che rinunciavano a parecchie Pesetas in meno di paga per poter avere il diritto di esercitarlo. " La testardaggine di Columbu supera ogni limite!"- esordì un marinaio, " gli avevo consigliato di ascoltare il signor Diesel, che gli aveva proposto di far navigare le caravelle sfruttando la sua invenzione: il motore Diesel appunto. Ma lui come al solito non mi ha dato retta, anzi così
mi ha apostrofato": "Gli inventori sono tutti un po bacati, come può pensare di poter spingere le imbarcazioni con quei frullauovo!" "Mi sa che il bacato è lui!"- aggiunse un altro della ciurma, "Come ha fatto a rifiutare un' offerta così allettante, che ci avrebbe permesso di arrivare a destinazione in pochi giorni di navigazione!"
Ma per Columbu i guai più grossi dovevano ancora arrivare. I giorni ed i mesi passavano tra mille peripezie. La sfida con l'oceano e le sue frequenti tempeste stremava, giorno dopo giorno, i componenti degli equipaggi, le provviste si assotigliavano sempre di più e la speranza di rivedere un lembo di terra diventava sempre più
labile e lontana. Il morale della ciurma era ormai a pezzi.
I primi focolai di protesta non tardarono ad accendersi, le teste più calde incitavano gli altri: "Invertiamo la rotta, torniamo indietro, stiamo andando incontro alla morte certa!"; Columbu dovette ricorrere a tutto il suo "savoir faire" per sedare i tentativi di ammutinamento. "Capisco benissimo il vostro malumore,"- disse Columbu "ma dovete avere fede, sono sicuro che tra qualche giorno avvisteremo la terra; questo evento ci farà diventare parte integrante della storia e saremo ricordati per sempre da tutta l'umanità (esclusi gli scolari naturalmente) e come se non bastasse ritorneremo in patria (?) con le nostre navi cariche d'oro!".
Ai gaglioffi della ciurma, non fu certo la prospettiva di passare alla storia, che li convinse a tenere ancora duro, ma accarezzare la possibilità di tornare indietro con le caravelle cariche d'oro fu determinante per la loro scelta.
La tregua durò comunque poco: la mancanza di viveri, d'acqua e la stanchezza ripresero il soppravvento ed i marinai cominciarono a dare i primi segni di squilibrio creando seri problemi a Columbu, che per non rischiare di finire nella pancia di quei simpaticoni di pescicani non dormiva quasi più. Stremato dalla stanchezza e da notti insonni, Columbu cedette e chiudendo gli occhi si sdraiò su una gomena arrotolata sopra il cassero; fu in quel momento che due "ammutinandi" lo immobilizzarono e lo legarono all'albero maestro intimando al timoniere: "Inverti immediatamente la rotta se non vuoi ritrovarti con la testa rotta!"; questi non capì bene la frase ma si accinse ad effettuare la manovra, ed in quel preciso istante successe (sicuramente per volontà degli Dei) quello che ormai nessuno sperava più, Dalla cesta in cima all'albero si sentì la vedetta gridare come un forsennato: "Tierra!! tierra!! las Indias! las Indias!!!!"
Ma il capo degli ammutinati ordinò al suo subalterno: "Callaindeddu, sest'ammacchiau custu puru!"
Un marinaio si arrampicò sull'albero per tirare giù il povero marinaio fuori di testa, ma giunto in cima si mise a gridare anche lui: "Tierra!! tierra!! se mira la tierra!!! "
In men che non si dica tutti i membri degli equipaggi furono sopra gli alberi e come stregati osservavano un lembo di terra in lontananza. Columbu urlò: "slegatemi, gente di poca fede!"; un vecchio marinaio che non potè salire sull'albero perchè
aveva una gamba di legno, liberò l'intrepido navigatore tagliando, con una pattadesa ben affilata, le cime che gli stringevano i polsi.
In un attimo Columbu riprese la situazione in mano e riprese il comando della flotta. Ai responsabili dell'ammutinamento inflisse una delle più dure punizioni che la legge del mare prevedeva: furono condannati a mangiare esclusivamente arengada per cinque giorni senza bere un goccio d'acqua!
All'alba del trentesimo giorno, dell'ottavo mese di navigazione, le caravelle al comando di Cristoforo Columbu toccarono finalmenete terra, approdando su una splendida spiaggia delimitata da una lussureggiante vegetazione!
Ovviamente il primo a calcare la terra fu il nostro Columbu che piantò subito sul terreno la bandiere del Regno di Spagna e quella dei Quattro Mori, quindi baciò solennemente il terreno, ma sollevando la testa ebbe la sorpresa più
grande della sua vita; a poca distanza dal punto di approdo faceva bella mostra di se un grande cartello sul quale stava scritto: Wellcome to U.S.A. Bevete Loca Cola!
Restarono tutti allibiti, mentre si chiedevano tra loro e loro: "Ma que diablo de tierra es esta? Aqui no semos certamiente in India!"
Ripresosi dallo stupore, Columbu disse: "No beid'a bei, qustu' fraizzu' de Inglesusu s'anti frigau qust'otta puru, funt'arribau' prime' nosu! A patt'e coa nc'adai marocchinu' puru, bendendi tappettusu!" Un rumore assordante di cavalli in corsa interruppe le riflessioni dei marinai. in mezzo al polverone sollevato dagli animali si poteva notare una moltitudine di pellerossa con la faccia dipinta in variopinti colori e la testa ornata da coloratissime piume che, cavalcando "a pelo", correvano come forsennati cercando di sfuggire all'inseguimento di un reparto di cavalleria.
"Los indianos! los indianos! Ma allora semos in India!"- Esclamò un marinaio.
"Ma que dices piezo de imbecil, non sabes che los abitantes de la India no tiengono la cara rubia como estos? Aqui no semos in India!"- Rispose Columbu.
"No sin'di cumprendi' prù nudda, 'nchi funti is'indianusu e no seusu in India, vai e cerca donde semos!"- Esordì un mozzo. Fu allora che per non confondere anche noi decisero (all'unanimità) di chiamare gli abitanti di questi posti con un altro nome: Indigeni.
Nel frattempo i pellerossa riuscirono a sottrarsi alla furia dei bianchi, i quali rinunciarono momentaneamente all'iseguimento. Alla testa dei soldati, stava fiero ed imponente sul suo cavallo un generale con un'infinità di gradi sulla divisa, il quale notando le tre caravelle e i marinai sulla spiaggia, si avvicinò (con un plotone di militari e un operatore della C.N.N.) immediatemente sul posto. La sorpresa fu talmente grande (per entrambe le parti) che per un lasso di tempo per tutti interminabile, nessuno riuscì a pronunciare una parola. Ruppe il ghiaccio l'alto Ufficiale, che ripresosi dallo sbigottimento disse: " Ecchini tiaullu seisi? Where You come from?" (Da dove venite?)"I am Cristoforo Columbu e questi sono i miei marinai sardignoli e tui chini sesi?"- Rispose Columbu.
"I am General Custer e sto dando la caccia a Crazy Horse (Cavallo pazzo) e ai suoi scagnozzi, ma che vuol dire sardignoli?- Ribattè il Generale.
"Sardignoli vuol dire metà sardi e metà spagnoli"- Rispose Columbu.
" Appu cumprendiu, Congratulation mister Columbu you have scoprito America!"- Disse Custer.
"Cummenti s'America? deu penzau ca custa fu' s'India". - Disse il navigatore.
" No qui non essere India anche se ci sono indiani, comunque la vostra essere grande scoperta!"- Rispose l'Ufficiale.
Seguirono giorni di festa e ospitalità per gli europei che si rifecero della fame patita durante il lungo periodo di navigazione. Gustando le prelibatezze di Mc Donald's, per Columbu & Company, l'aragosta alla Catalana non fu che un vago ricordo!.
Giunse il giorno della partenza per Columbu e la sua ciurma, che non andarono via certo a mani vuote: le caravelle vennero stipate all'inverosimile con casse di Loca Cola; un'infinità di sacchi di noccioline americane e quintali di Chewing-Gum.
Columbu ricambiò tanta generosità con tanta tela (prodotta a Genova) per confezionare Blue Jeans e ua pischedda de casu furriau, inoltre invitò gli americani a venire in Sardegna con la promessa che sarebbero stati accolti a braccia aperte.
Gli americani non hanno certo dimenticato la promessa. Oggi ce li ritroviamo piuttosto numerosi a Decimomannu, Teulada e La Maddalena, ma si sa in Sardegna non neghiamo ospitalità a nessuno! ...Mi sorge un interrogativo: noi sardi siamo indigeni o indiani?
Dopo questo doveroso omaggio al nostro intrepido navigatore vi rimando al prossimo numero.
Asta la vista. Good bye. A si Biri!

VII
"Verba volant, scripta manent". Con questa inflazionata e supersfruttata frase latina, i nostri professori delle scuole medie motivavano quella che era per noi studenti un'altra novità
: la nota. Nulla a che vedere con la musica, se non quella dei probabili ceffoni che ci aspettavano a casa quando se ne prendeva qualcuna. In effetti la nota non era altro che una delega data dai professori ai genitori; cioè
, ai nostri, abbastanza frequenti, comportamenti scorretti in classe seguiva l'ammonimento scritto che veniva portato a conoscenza dei familiari, i quali garantivano l' esecuzione della punizione materiale.
L'ammonizione verbale, per il motivo che ci entrava in un orecchio e ci usciva dall'altro, cadde quasi in disuso, per essere sostituita dalla nota scritta (cartellino giallo) che diventava automaticamente rosso dopo la terza, con conseguente sospensione dalle lezioni (espulsione dal terreno di gioco). Sovente, però, i professori non paghi dei cartellini gialli e rossi, si lasciavano andare ad azioni punitive "volanti" (volant), che non erano certo parole (verba), ma dei veri e propri U.F.O. rientranti in una gamma di oggetti che andava dallo strofinaccio per cancellare (punizione più leggera), al megavocabolario italiano-francese francese-italiano (punizione più pesante), quest'ultimo paragonabile a u brochettu de pedra de cussu' chi fadia' su spacciau de ziu Crobu de Biddobrana: brochetusu chi in cussu tempusu ianta scògliau tottu' i mavovallisi de sa provincia.
Questi oggetti venivano scagliati, soprattutto dalle professoresse, a velocità vertiginose, dalla cattedra verso il banco occupato dal rompiscatole di turno. I segni (scripta) tangibili del centrato obiettivo, restavano (manent) spesso sulle nostre capocce sotto forma di mumungiollusu.
Non di rado l'impatto tra gli oggetti scagliati e le nostre sarde teste provocava l'immediata disintegrazione dell'oggetto stesso.
L'azionamento automatico della "catapulta" avveniva istantaneamente all'insorgere di avvenimenti tipo:
1 - Copiatura spudorata del compito in classe dal compagno di banco;
2 - Svolgimento di gare di velocità tra lumache e conseguente tifo di quelli dell'ultimo banco;

3 - Espulsione rapida e chiassosa di noccioli di pesche sottratte dalle piante di Don Natale;
4 - Sguardi poco velati, da parte dei maschietti, rivolti alle gambe della prof seduta alla scrivania;
5 - Appisolamento momentaneo causato da "overdose" di lezioni seguite alla televisione;
6 - Suggerimenti durante le interrogazioni, che sovente venivano captati dai sensori auditivi dei prof;
7- Deflagrazione (a 1000 db) causata da scoppio bolla di chewing-gum sapientemente gonfiata a dismisura da una delle ragazze;
8 - Uso della lingua sarda in classe che risultava incomprensibile (?) ai prof (tutti sardi!);
9 - Esecuzione di opere "gaffitare" sulle pareti dell'aula inneggiagianti alla libertà (Freedom) o ai gruppi rock del momento: Beach Boys, Beatles, Equipe 84 o i ruinesi Newsboys;
10 - Attuazione dell'effetto "zanzara", ovvero azione continua di disturbo verbale o fisico durante le lezioni (segament'econca). I reduci da punizione di questo tipo venivano generalmente espulsi fuori dall'aula per tutta la durata della materia in questione. Ovviamente questa condizione di "esiliati" non ci pesava molto, anzi, ci permetteva di svolgere attività
"gastro vandalistiche" come saccheggiare la giara in terracotta di Don Natale straripante di ottima ollia de corroga cunfetàda; oppure, sotrarre pessiu e piricoccu dalle piante dell'orto, o al limite giocare a bruciu campana nel cortile.
Naturalmente tutto questo era possibile solo ed esclusivamente in assenza del prete, poichè essere sorpresi da lui ad eseguire una delle "operazioni" di "furtofrutta" significava rischiare d'incorrere in una abbondante dose di ceffoni o altrettanto cospicua passada de puntada'de pei. Penso che tutti quelli della mia generazione siano testimoni di quanto sarebbe stato meglio evitare queste punizioni che lasciavano, haimè, segni a lunga scadenza dovuti al fatto che il "simpatico" parroco aveva la mano tutt'altro che leggera e is iscarpinusu puntudusu chi no' beniad' a beni.
Essere sorpresi da Don Natale in condizione di castigo durante l'ora di lezione, era comunque una situazione sempre poco piacevole anche quando non si era sopresi a furai frutta. Nella migliore delle ipotesi ci poteva capitare di dover fungere da "motorino di avviamento" per la sua Fiat 600 Multipla, la quale aveva la batteria perennemente scarica. Questa sua "dimenticanza" giustificava pienamente il fatto che quando andava fuori paese si portava dietro un ragguardevole numero de chirichettusu (i più robusti), prontusu a ponni in mutu a istrappu il glorioso ferrovecchio. La speranza dei chierichetti addetti alla messa in moto era che il parroco non si recasse ad Oristano (tottu logu parisi), ma ad Aritzo paese ricco, oltre che di noci, castagne e torroni, de callàdasa.
Inevitabilmente mi trovo a parlare di questo parroco che è stato, volenti o nolenti, un punto di riferimento per tutti noi. Egli riusciva a portarci in chiesa usando, talvolta, mezzi poco ortodossi (ma si sa, il fine giustifica i mezzi) tipo assistere alla Messa per poter enrare al cinema (naturalmente pagando). I film venivano abbondantemente decurtati delle scene da lui giudicate "hard": per esempio quando il protagonista maschile, s'attori, osava posare le sue labbra su quelle della protagonista femminile. Le forbici della censura intervenivano puntualmente martoriando la pellicola, già malconcia di per sè. Eventuali commenti, da parte degli spettatori, riguardanti il taglio della "celluloide", venivano puniti dal solerte operatore, che, dalla cabina di proiezione, si portava in un battibaleno in sala e prendendo il malcapitato spettatore a is origasa, lo trascinava fuori. Ovviamente la punizione non si limitava a questo, ma, scattava automaticamente l'inibizione agli spettacoli cinematografici fino all'accertato pentimento del colpevole e al suo avvenuto reintegro previo u' meriu de marringiu in s'otu.
Parlare di questo parroco vuol dire, in ogni caso, rischiare di fare un discorso non propriamente compiuto, in quanto per rendere l'idea di quello che era realmente questo particolarissimo prete bisognerebbe cimentarsi nella stesura di un "trattato" biografico che conterebbe sicuramente migliaia di pagine. Detto questo, mi limiterò a ricordare solo qulche aneddoto, affinché chi non ha avuto "il piacere" di averci direttamente a che fare, possa farsi un'idea della possente personalità di questo parroco.
Punto di forza del parroco in questione erano i chierichetti: uno stuolo di ragazzi che ufficialmente assistevano il prete durante la messa assicurando la loro presenza a tutte le funzioni religiose de sa missa bascia a s'arrosariu. la presenza costante dei ragazzi non era certamente dettata esclusivamente dalla fede, ma subentravano altri fattori che avevano ben poco a che fare con la spiritualità. Uno dei motivi che spingeva i ragazzi a svolgere questo compito era che ad ogni presenza sull'altare in veste di "assistenti" corrispondeva un punto (bonus) che sommato agli altri acquisiti dava diritto a: su suspi suspi (lecca lecca prenuragico chi pariada su stoccu de su Cumpoidori) per 2 punti; due partite a biliardino, gratis, per 3 punti; cinema gratis per 5 punti; gita in 600 Multipla ad Aritzo (con l'opzione de oddì castangia a percentualli de s'ottu po milla, tottu su mengiau) per 50 punti.
Tutto ciò poteva anche andar bene se si osservavano le ferree regole da lui imposte, ma nel nostro caso, che non eravamo certo dei precisini nei regolamenti, scattava spesso la classifica "avulsa" con conseguente scivolone dai primi posti in classifica (zona UEFA) alla zona bassa (retrocessione) a livellu de suspi suspi. Questo significava rincominciare a guadagnare qualche punto che ci tirasse almeno fuori dalla zona critica per poter usufruire di qualche "beneficio".
A far scattare le penalità potevano essere episodi di questo genere:
furai ostiasa e a ndi bufai sa malvasia de sregrestia; imbruconai in s'altari po crupa de u' cirichettu chi di fadia' sa trobea, a rischiu de ispistorai su mramuru de s'altari cu' i murrusu; a si punghi pari pari cun sa lancia de Santu Giorgi;
giogai a cua cua aintru de su cunfessionalli; a si callai a sonnu in s'Arrosariu; cantai a trallallera acumpangendisia cu' i matràcullasa.
La tacita annotazione di penalità veniva confermata immediatamente da uno sguardo fulminante del prete, se lo sgarro avveniva durante le funzioni; serie de puntada' de pei a due a due finché non diventavano dispari, se la malefatta si svolgeva in altri frangenti.
La nostra giornata di studenti, in pratica , si svolgeva quasi per intero in domm'e su predi. Sia perché al mattino ci andavamo per seguire le lezioni, sia perché di pomeriggio passavamo ore attaccati ai giochi nel salone parrocchiale. Era presente anche il televisore; uno dei pochi a Ruinas, no e' chi du tengiausu a disigiu meda, visto che anche tutte le lezioni erano televisive, ma ci permetteva di vedere qualche cartone animato o i telefilm di quel periodo. Naturalmente anche la visione del piccolo schermo era riservata a chi teneva un comportamento esemplare (quindi per pochissimi) mentre gli "abusivi" venivano gentilmente accompagnati fuori dal locale: a tira tira.
Con questo ringrazio coloro che hanno la pazienza di seguire tottu custusu scimproriusu e vi do appuntamento al prossimo numero. Ciao.

VIII
Nello scorso numero mi sono un po? dilungato a parlare di un parroco che per molti di noi è stato, come ho già detto, un punto di riferimento per molti anni. Come ho già precisato, non sarà mai detto abbastanza su di lui; perciò ogni tanto salterà
sicuramente fuori qualcosa che lo ha riguardato, relativamente agli episodi o aneddoti, che assieme a parecchie "frescacce", contribuiscono a farmi riempire pagine di questo giornalino, in questo pseudo-racconto paragonabile al famoso tappeto di Penelope (Di quest'ultima, probabilmente, riparleremo più avanti).
Per parecchi questo parroco è stato colui che lo ha accompagnato dal battesimo fino al matrimonio; questi hanno quindi dovuto condividere con lui una buona fetta della propria esistenza, assimilando giocoforza gli influssi di vario genere.
Don Natale, nato e vissuto nell'era del pennino, era comunque un computer vivente. Il paragone potrebbe far sorridere, ma chi ha avuto modo di conoscerlo a fondo non potrà che convalidare quanto asserisco. La sua capacità di memoria, se fosse stato possibile quantificarla, avrebbe sicuramente superato i 2 Gigabyte. Riusciva a memorizzare una miriade di informazioni e dati, che nel momento in cui gli erano utili, rielaborava alla velocità dei migliori processori Pentium con una frequenza di almeno 400 Megahertz. Per chi non mastica neanche un pò di calcolatori, si può dire che il paragone con i migliori personal computer in circolazione, non è, tutto sommato, azzardato. A convalida di quanto sto affermando andrò a ripescare qualche prova concreta di quel periodo che consenta, a chi non lo ha conosciuto, di capire le doti di quell'uomo.
Come ho già fatto notare in precedenza, chi non si recava a messa la domenica non poteva accampare nessun diritto per poter assistere agli spettacoli cinematografici domenicali. Considerato che in quel periodo, per svariati motivi, la chiesa era sempre strapiena; preso atto che, allora, il Celebrante officiava le funzioni rivolgendo le spalle al pubblico per quasi tutta la durata delle stesse, a eccezione de sa predica; appurato che molti fedeli solevano sistemarsi nelle cappelle laterali (mesu cuàusu); la domanda, per dirla alla Lubrano, sorge spontanea: cumenti tiàmmana fadiada a s'arregodai tottu is chi fuant' a cresia?
Dalle nostre teste, con pochi Byte di memoria, scaturì un piano strategico per aggirare l'ostacolo, la strategia era molto semplice: intrai a cresia scètti a s'ora de sa predica; farsi inquadrare dal suo "sguardo panoramico" a 360°, quindi, finita l'Omelia, sgattaiolare nuovamente fuori!
La domenica pomeriggio, tottu togusu, ci presentavamo all'ingresso della "sala cinematografica" con le nostre cinquantalire, sudate fendi cummescioisi, per il biglietto d'ingresso. Alla scontata domanda: << Ma voi c'eravate a messa?>>; seguiva l'altrettanto scontata risposta: << Ge ddu creu, dall'inizio alla fine!>>. Quasi istantaneamente scattava il suo dito indice rivolto verso il cancelletto, accompagnato da un'alzata di testa, che senza bisogno di chiarimenti verbali, lasciava intendere che dovevamo guadagnare immediatamente l'uscita pena l'azionamento immediato della macchina distributrice de iscafìtasa.
Chiaramente, pensando che qualcuno avesse fatto la spia, la domenica seguente ritentavamo lo scherzetto. Dunque ci ripresentavamo con fare sicuro alla soglia del "salone", dove si proiettava per la ventesima volta "sette pistole sparano": film dove la parte della protagonista femminile, a causa delle forbici, s'era ridotta a qualche minuto in tutta la pellicola. Per i recidivi, quali noi eravamo, non era prevista nemmeno la domanda di rito. Appurato, in una frazione di secondo, che nel "File" presentiamessa non risultavano i nostri nomi, il parroco si accingeva a darci il suo "benvenuti pargoli", ma noi velocissimi archetipi del Concorde avevamo già preso il volo.
Il dubbio su come facesse a notare che si entrava in chiesa soltanto all'ora della "predica", ce lo siamo portato dietro per tutti questi anni senza peraltro trovare una risposta. Oggi nell'era del computer viene lecito pensare che nel costruire i primi chip per i processori si siano ispirati al prete in questione!
Ma ritorniamo alla sfera scolastica, fermo restando che con molta probabilità avremo di nuovo a che fare con col nostro ex parroco.
Da che mondo è mondo, chiedere agli studenti se vanno a scuola volentieri, è quantomeno superfluo per l'implicita risposta già scontata. Risposta sicuramente condivisa da almeno il novanta per cento degli interessati, lasciando ai "secchioni" il restante dieci per cento.
Uno dei pochi stimoli che inducevano noi (maschietti) ad andare, non dico volentieri, ma con una consistente dose di paranoia in meno, era la presenza della nostra professoressa delle materie scientifiche. Il fisico slanciato; una serie di curve tipo "Scala di Giocca", tutte collocate nei punti giusti; un caschetto di capelli nero corvino da tipica bellezza mediterranea; uno sguardo accattivante e un sorriso (molto raro) da favola, facevano si che questa adorabile creatura turbasse i nostri sogni di adolescenti occupando parecchio spazio nella nostra fascia onirica a maggior traffico, tipico delle ore di punta. Chiaramente una donna di quel calibro non sfuggiva alle attenzioni dei soliti "vitelloni" del paese che le orbitavano intorno a tipu crobusu.
La nostra venerazione per questo capolavoro della natura si manifestava con metodi poco ortodossi che, nella maggior parte dei casi, non facevano altro che produrre risultati negativi o comunque contrari alle nostre aspettative.
Un giorno, sperando che non si spaventasse troppo, collocammo ua zillighetta (cassada a lobu) chi pariada u' cocodrillu, nel cassetto della sua scrivania. Il nostro inconsueto silenzio, al suo ingresso, non presagiva niente di buono e ciò non era certamente sfuggito alla nostra prof, che con fare guardingo si accinse ad aprire il cassetto. Tutti eravamo preparati al peggio. Non successe niente di quello che ci aspettavamo: prese in mano con dolcezza e delicatezza il povero zillihettosauro tottu strodoinau de su friusu, lasciandoci di stucco per il mancato spavento. Dalla presenza di quel simpatico animaletto trasse due ore di lezione di osservazioni scientifiche con rispettivo compito a casa!
La stessa professoressa, che insegnava educazione artistica, soleva farci svolgere temi dal vero e quando ci disse che dovevamo ritrarre lei stessa partimmo a razzo con l'entusiasmo degno di Picasso nei momenti di maggiore ispirazione.
Fu così che lei si sedette sulla seggiola accavallando le gambe affusolate, lasciate pittosto scoperte da quell'invenzione che in seguito sarebbe stata ufficialmente attribuita a Mary Quant: la minigonna.
I nostri colori pastello viaggiavano a ritmi vertiginosi (il pennello era allora ad appannaggio di pochi), tutti ci sentivamo dei piccoli Michelangelo indaffarati a realizzare la nostra "Pietà", ma l'unica pietà in gioco era quella che i nostri disegni avrebbero suscitato in chiunque li avesse poi (per sua sfortuna) dovuti esaminare.
Bisogna precisare che in quei tempi (non so se succede ancora adesso) coloro che non potevano aspirare a fare il "pivot" nella nazionale di pallacanestro cioè i basciusu, venivano sistemati nei primi banchi. Solitamente questo fatto sminuiva un pò gli interessati, me compreso, ma in quel caso fummo ben felici di non essere dei "vatussi".
Giunse il momento di consegnare le "opere" e tutti restammo con il fiato sospeso aspettando il voto. I fogli scorrevano pittosto veloci nelle mani della prof, per soffermarsi un po' di più sui disegni di quelli del primo banco. I dipinti in questione erano una sorta di "ibrido" che ricordava in parte la Gioconda e in parte una coniglietta di Play Boy, con le parti discinte piuttosto in evidenza, vista la nostra posizione ravvicinata al soggetto e l'angolo di osservazione dal basso verso l'alto.
Il nostro stile di pittura tendente al (troppo) "realismo" giocò un ruolo fondamentale nell'assegnazione del voto sicuramente inferiore alle nostre aspettative: dusu!
Quel voto, secondo noi poco obiettivo, ci fece comunque capire che nessuno di noi avrebbe mai avuto l'onore di esporre qualcosa al Louvre di Parigi o negli Uffizi di Firenze!
Con questo vi do appuntamento al prossimo numero, a si bi' cun salludi!

IX

Mentre il fumo della sigaretta, che tengo accesa in mano, sale lentamente formando tanti cerchi (ovviamente color fumo di Londra), che salendo verso il soffitto ingiallito (ormai), dall'enorme quantità di Philipu Marras fumate, diventano, sfumando, sempre più grandi; il monitor del computer mi osserva mentre ogni tanto mi gratto la testa. Talvolta sembra quasi che sogghigni, e al posto della solita finestra (windows), vedo prendere forma una bocca mostruosa con un'infinità di denti altrettanto mostruosi, che minacciosamente mi dice: <<Hai finito di propinare le tue baggianate agli incolpevoli lettori, che tra una puntata a is Aruttas, crichendi de cuccai; un vermentino o una birra "agricola" asutta de is peraculusu de Andrea e Gennaro o in su bar de Valter o pappendi casu furriau in domu, sfogliano svogliatamente s'Oghi Nosta. Il tuo repertorio demenzial-sardopatico si è, con gaudio generale, esaurito!!>>. In quel preciso istante, la bestiaccia a 12" (il monitor) apre le sue immense fauci e mentre si accinge a mi mossiai a conca, vengo inaspettatamente salvato dalla brace della sigaretta, che consumatasi completamente tra l' indice e il medio, con un dolore indescrivibile, mi sveglia dal torpore e mi riporta alla realtà
dello schermo bianco e della ventola di raffreddamento del computer, che gira pigramente e se potesse, sicuramente, si sarebbe già rivolta al sindacato reclamando le proprie sacrosante ferie!
Mi ritrovo quindi di fronte al video con l'amletico dilemma: questa "puntata" s'ha o non s'ha da fare? Riuscirà questo Wilbur Smith (?) della Marmilla a trovare argomenti per continuare a intasare l'hard disk e distrarre gli affezionati lettori dalla loro ginnastica napoletana (cura del sonno) e dalla immancabile e piacevole caccia al flirt estivo? L'impresa si presenta ardua, probabilmente più complessa del rimettere il dentifricio dentro il tubetto (così diceva un mio amico quando si parlava di realizzare cose impossibili).
Ma lo scrittore in erba non può demordere, non può certo farsi "stoppare" dalla calura estiva; non può sottrarsi al proprio dovere di sollevare il morale al concittadino, stressato da undici mesi di duro lavoro, trascorsi a stringere bulloni alle "Bravo" e "Brava", nelle catene di montaggio della Fiat; mesisi aporrendi paiollu' de cimentu ai muradorisi chi funti sempri aboghinendi; mesi passati tra vagonate di pratiche da sbrigare e snervanti battaglie, con rispettivi calci agli stinchi, per respingere le pesanti avances di quell'avvoltoio del capufficio lasciato a secco dalla moglie; mesi passati dietro alle pecore, studiando tutti gli stratagemmi più possibili e immaginabili per fargli aumentare la produzione del latte anche di pochi litri!
No....non posso, sento che dovrò rinunciare a qualche giorno delle mie ferie alle Virgin Islands, ma almeno mi sentirò a posto con la coscienza, e non è poco!
A tutte queste motivazioni, peraltro molto valide, si aggiunga il fatto che sono stato spronato (inaspettatamente devo dire) a proseguire, da amici che stanno fuori dalla Sardegna. Per contro sono stato precettato dagli studenti a esimermi dal parlare di scuola, almeno in questo periodo di vacanze. Sono quindi nella classica e scomoda posizione tra l'incudine e il martello, e allora che fare? In questi casi vige il compromesso: restare sul "soft", senza irritare ne gli uni ne gli altri. Accantoniamo, quindi, per questa "puntata" il discorso scuola e parliamo di vacanze!
Torniamo indietro al periodo dell'adolescenza e cerchiamo di vedere quali siano le differenze fondamentali tra le estati di allora e quelle di oggi. Prima differenza: sa basca; oggi la temperatura sembra mantenersi su standard abbastanza tranquilli, allora l'estate durava da maggio a ottobre con temperature da tropico del cancro!
Oggi c'è la corsa esasperata al mare per farsi un'abbronzatura decente. Allora bastava mettere il naso fuori di casa e fusti nieddu che su trumentu. Qualche maligno, oggi, dice che a giocare un ruolo fondamentale nella formazione dell'abbronzatura era (allora) su sodri.
Per i più giovani si rende necessaria una spiegazione. Su sodri non era altro che una spessa corteccia che rivestiva la pelle ed era essenzialmente costituita da: su pruini pinnicau imbuscinendi me i' bìasa; la resina dei tronchi degli alberi che scalavamo continuamente po callai nìusu o pira; il pigmento lasciato dal dorso degli asini, cavalcati a "pelo", sulle gambe nude; il tutto reso omogeneo dal sudore che scendeva copioso dalla testa ai piedi e che fungeva esattamente da catalizzatore, dando uniformità e resistenza alla spessa pellicola, al punto che per eliminarla non bastava neanche una superconcentrata lissìa.
Questa pigmentazione conferiva alla pelle (già scura) un colore ebano e la rendeva talmente liscia che il sughero al confronto sembrava seta orientale (quasi come la pelle di Naomi Campbell!).
Ovviamente la sera, prima di andare a letto, aveva luogo l'operazione "disincrostazione" che consisteva nel portare l'acqua, contenuta in 'du creddaggiu, alla temperatura di ebollizione (tipu po spinniai procheddusu) l'interessato vi si immergeva dentro e con considerevole dose di olio di gomito e spazzola si asportava a mo' di estrazione de otìgu "la seconda pelle".
Il liquido ottenuto a fine operazione veniva utilizzato per la produzione di un conglomerato bitumoso che ancora oggi si usa per asfaltare le strade!
A prescindere da queste boiate, allora faceva caldo veramente. Noi ragazzi non perdevamo certo il nostro tempo a dormire dopo pranzo (cosa che tutti i normali esseri umani facevano). Anzi per noi quella era l'ora migliore per fare di tutto e di più , in quanto sfuggivamo a qualsiasi genere di controllo. Non ci fermavano neanche le minacce che un essere misterioso avrebbe sicuramente punito che si fosse permesso di starsene in giru a or' e solli. Si trattava di Maria Solliàna che osservava dall'alto e avrebbe punito i recidivi lanciando la sua scure sulla loro testa con il risultato de d'aberri sa conca in dusu cumente ua pilladra de tamàtasa. Nessuno di noi si è (per fortuna) ritrovato con la testa aperta in due nè tantomeno con il sale in zucca!
Altra differenza fondamentale tra oggi e allora erano le spiagge frequentate: oggi Is Aruttas; Baia Sardinia; Baia Chia ecc. Ieri: is aruttas (de Sollimandara); Baecanna; Baelliu. Ma una delle "spiagge" più battute (candu no ettànta brebeisi) era sicuramente Barralla Beach che permetteva anche i tuffi da due livelli: de sa conchitedda e de s'arradellu, quest'ultimo per i più temerari che si lanciavano a pei in abba.
Immancabilmente anche allora esisteva la spiaggia dei VIP: su ponti. Vi si recava chi amava fare sa zilighetta tottu sa di' sdraiati al sole e fendi is cocodrillusu in sa pischinedda andendi e torrendi de su corongeddu a sa spiagedda.
Questi "VIPS" ( Very Important Poburusu Spiantausu) erano tali soprattutto perchè avevano appresso almeno qualche birra fresca; per noi "infiltrati" il drink più elaborato era s'abba de sa minza. Era così leggera che un giorno Messner, passando da quelle parti per scalare is Conca' de s'Arughi, morend' e sidi, ne bevve u' opìa ( sorta di bicchiere in sughero n.d.r.), la conseguenza fu che non ce la fece a scalare il muretto che dava sulla strada: fu toccau a 'ndi d'aziai a carriadroggiu!
Si sa, per i VIP la vita non è mai semplice in quanto il plebeo sembra che abbia come missione in Terra, quella di creargli fastidi e rendergli la vita difficile, proprio come su sinzùlu.
La "spiaggia" - che di giorno era sempre occupata da loro - noi potevamo utilizzarla solo la sera e questo ci infastidiva alquanto. Ovvio quindi che ci sentissimo spinti a rendere la vita un po' complicata a questi "vipisi".
Uno scherzo abbastanza frequente consisteva nell'occultare, immediatamente sotto la superfice sabbiosa, la "sorpresina". Quindi si riportava perfettamente la sabbia alle condizioni naturali e si andava via facendo ovviamente bene attenzione a non passarci sopra. L'indomani mattina, prima che arrivassero i "bagnanti" più mattutini ci appostavamo a debita distanza (fuori tiro de pedra), in postazione ottimale per osservare la scena.
I VIPS ancora insonnoliti non facevano altro che buttarsi immediatamente sulla sabbia, e quì cominciavano veramente i dolori (nel vero senso della parola). Sotto la sabbia stavano perfettamente celate le foglie di fico d'india con annesse le micidiali spine che non vedevano l'ora di conficcarsi nei glutei dei "pseudo-bagnanti". Alle loro grida di dolore miste a rabbia si miscelavano le nostre risate, ed era a quel punto che si svolgeva la scena madre. Individuata immediatamente la nostra posizione partiva una fitta sassaiola nella nostra direzione, talmente fitta che sembrava una pioggia di meteoriti nella notte di S. Lorenzo!
A quel punto era doverosa, da parte nostra, una solenne ritirata, con gli "aspiranti fachiri" che tentavano un inseguimento in stile Custer. Chiaramente noi, avendo un buon margine, riuscivamo, in genere, a seminarli; anche se talvolta qualcuno veniva agguantato e in quel caso per il malcapitato si prospettava un'allegra mattinata all'insegna de is corpusu dosati in proporzione alla numerosità del "commando".
Sempre a proposito di abbronzatura è curioso ricordare come a quei tempi si diventasse così neri in breve tempo, nonostante l'acqua dolce del fiume abbia potere di agevolare l'abbronzatura meno di quella di mare. Al contrario, oggi si vedono numerosi gruppi di ragazzi, attrezzati di enormi asciugamani che sembrano tendoni da circo (che se dovessero veramente stenderli tutti, in spiaggia no ddu iadai pru logu po nisciunusu); candu torrant' a bidda funti pru biancusu de candu funt' andausu. I commenti dei soliti perdigiorno che sono sempre in strada de candu obreschidi a candu scuricada (ai quali non sfugge assolutamente nulla) non riuscivano a dare una spiegazione a questo fenomeno. C'era chi diceva che ormai stiamo andando verso l'era glaciale e quindi il sole ha perso parecchi gradi di temperatura; c'era chi diceva che anche il sardo non è più quello di prima (piccolo e nero) ma sta diventando come i "polentoni" biancusu che sa labrast' e sa nia; oppure chi diceva <<Funti tottu sa di' aintr' e s'abba, ammarolla no s' innièddiganta!>>. Nulla di tutto questo. La vera spiegazione è molto semplice: de candu arribanta a innia, finzasa a ora de 'ndi torrai, abàrranta tottu sa di' buffendi birra asutta de is cannizzadasa me i barracasa de is Aruttas!
Altra differenza: le "merende" (nulla a che vedere con Pacciani). Oggi i ragazzi si portano al mare le loro brave merendine costituite generalmente da panini enormi (mustazzusu intreusu) imbottiti con quantità industriali di mortadella, oppure bottusu de nutella chi parinti cracìdasa, o làdasa intreasa cun bistecca' de cuaddu.
Quando si scendeva al fiume, allora, lo si faceva purtroppo a stomaco vuoto e senza zaini o bètullasa appresso. Ovviamente dopo la discesa (a piedi) e le lunghe nuotate ci veniva un certo appettito, quindi al ritorno, non avendo niente di meglio ci facevamo delle solenni sazzadasa de pira mianesa e tonificante acqua de minza, che ci appesantivano a tal punto che salire dal fiume diventava un' impresa eccezionale!
Oggi, come allora, c'è comunque chi non gli può fregar di meno dell'abbronzatura e si dedica alla pesca. Allora ci si recava al fiume e attrezzati esclusivamente di buona volontà, si passavano le giornate a forrogai in mesu de sa stoia o me is tanasa per tirare fuori qualche carpa o tinca che non si faceva in tempo a prenderle (a mano) che già stavano arrostendo in un allegro focherello di lentisco. Oggi si va al mare per orate e spigole. Attrezzati di muta subacquea da 20 mm (mod. polo nord), maschera autofocus, pinne che ti imprimono una velocità da Off Shore, fucili da sub a fiocina intelligente che fanno arrossire i Patriot americani usati contro Saddam, canne da pesca in fibra di carbonio con mulinelli costosimmi e lenze invisibili che tengono un cetaceo, esche vive con tanto di "pedigree", talmente care che costano più delle aragoste! Il tutto per portare a case delle prede "mostruose" talvolta più piccole delle esche stesse!

X

La fine delle vacanze è, certamente, uno degli eventi più tristi che si possano verificare nel corso della nostra vita. Forse, con lo stesso quoziente di tristezza (ex equo), possono trovarsi in classifica: la fine di un grande amore e l'ufficiale giudiziario che, imperterrito, bussa alla nostra porta per pignorarci i mobili.
La tristezza viene, se è possibile, ulteriormente amplificata a dismisura se alla fine delle vacanze segue il rientro a scuola. Fortunatamente questa tristezza si attenua dopo i primi giorni di scuola per lasciare posto a un sentimento meno cupo, ma non per questo meno preoccupante: la rassegnazione. Ci si rassegna, ci si abitua all'idea che se non si studia si deve lavorare, il che potrebbe essere anche peggio. Conseguentemente la rassegnazione si trasforma in abitudine. Si va a scuola quasi per inerzia e già dal secondo mese incomincia il count-down, ovvero il conto alla rovescia dei giorni che mancano alle prossime vacanze.
Ovviamente anche la tristezza si manifesta a vari gradi di intensità (come la scala dei grigi): i più tristi in assoluto sono i cosidetti "primini", ossia le matricole (quelli che frequentano la prima classe di ogni ciclo scolastico). Si riconoscono fra mille. Normalmente appaiono a disagio, si guardano intorno con aria circospetta, quasi come se da ogni angolo possa spuntare un potenziale scuartatore di studenti novelli, pronto a infierire su di loro con orribili coltellacci. Si riconoscono subito per lo zaino enorme rigorosamente "griffato" onde escludere qualsiasi possibilità di essere scambiati po peddizoisi. Gli zaini in questione, roba che neanche chi va a scalare l'Himalaya ce l'ha così grandi, potrebbero contenere sicuramente duasa o tres' quarra' de pira. Contengono invece decine di chili di libri che insieme al portatore passano alla "pesatura" prima delll'ingresso a scuola; chi sta sotto il quintale viene penalizzato con l'obbligo di tenere lo zaino in spalla per tutta l'ora delle lezioni.
Inspiegabilmente il carico diminuisce gradatamente con il passaggio dello studente alle classi superiori; in seconda il peso viene quasi dimezzato, per ritrovarsi poi alla fine del ciclo scolastico con un bagaglio apresso "peso piuma": un quaderno ultrapiatto molto "casual" (possibilmente finito in lavatrice insieme ai jeans per un trattamento stone-wash) e una biro del tipo "in via di estinzione". Per i benpensanti questo potrebbe significare che più si avanza con gli studi meno si studia; invece la realtà è completamente diversa: lo studente munito di regolare certificato medico (rilasciato dalle autorità sanitarie competenti), attestante un grado di invalidità superiore all'ottanta per cento, a seguito di deformazione irreversibile della spina dorsale, dovuto a "sovraccarico culturale" continuato; viene automaticamente esonerato dall'obbligo della "pesatura" e di conseguenza dall'essere costretto a portarsi dietro muntoisi de lìburusu. In questo senso devo dire che non è cambiato molto da quando andavamo a scuola noialtri. La differenza fondamentale sta sicuramente nel tipo di zaino: come già detto, oggi rigorosamente di marca e che non costi meno di mezzo salario mensile, calcolato sulla base dell'ultimo contratto nazionale dei metalmeccanici, portata utile (esclusa la tara) minima di un quintale; ieri, zero zaino, unico lusso una fascia elastica che permetteva di tenere insieme i volumi; i meno abbienti usavano, in sostituzione della fascia elastica, codreddasa o materiali similari. I quaderni che portavamo allora diventavano vecchi fin dal primo giorno di scuola e quando erano pieni zeppi di appunti sembravano pergamene egizie, talmente erano invecchiati. Oggi sarebbero dei cimeli storici se non fossero finiti nei forni a legna, parisi a i fascìnasa de mudregu, po allui su fogu po coi i ladigheddasa e i mustazzusu.
Non bisogna comunque drammatizzare più di tanto il rientro a scuola, perchè in fondo presenta anche i suoi lati positivi. -Magalli!, diranno in molti, non riferendosi al presentatore della televisione. A prescindere dal discorso puramente istruttivo, c'è da far notare il discorso sociale, ovvero il ritrovare i propri compagni di "sventura" ( a pati is chi si funti scoigiasu po motivu' de crocoriga) per dividere con loro i momenti tristi e quelli felici, (sicuramente un pò più rari) o appurare se almeno qualcuno dei prof sia stato sostituito con un altro più tollerante e più propenso alla chiacchera, in modo da poter assotigliare sensibilmente le lunghe ore di lezione.
Un altro aspetto positivo dell'andare a scuola era, almeno ai miei tempi, che essendo appunto a scuola no si podianta "stressai" mandendisi' a fai cumesciosi. Già per noi era veramente stressante: no accudiast' a torrai de fai ua cumescioi ca fuanta giai mandendidi' a u'antru logu. talvolta capitava che durante il tragitto si venisse mandati a su stangu per comprare gigarrusu o a sa starìa per un fiasco di vino. Naturalmente era impossibile rifiutarsi perchè si andava incontro alle solite sanzioni punitive del tipo callada' de pei. Questo servizio di corrieri "veloci" viene egregiamente svolto, oggi (per la fortuna dei ragazzi) da Sidoru, che sta rendendo un servizio chi no ddu paga' dinai, non solo ai beneficiari de is cumesciosi, ma soprattutto alle nuove generazioni che sono, appunto, completamente esonerate da questo servizio. Inutile dire che lo svolgimento de is cumescioisi non produceva per noi esecutori (tranne in qualche caso eccezionale) alcun reddito, ma soltanto, a conclusione del servizio, un breve ringraziamento tipo: "bravu la'!" pronunciato con un tono molto particolare che lasciava intendere quanto fosse stato conveniente per noi non esserci rifiutati di svolgere tale servizio!
Is pagu' cumesciosi chi cumbenianta fuanta i mandàdasa: ovvero portare l'uva (nel periodo della vendemmia), o la carne del maiale (sa di' dopu chi si occhia' su procu), ai parenti e ai vicini di casa. Con un piatto avvolto in un candido tovagliolo si portavano molto volentieri queste mandadasa, che venivano sempre generosamente ricompensate, dal ricevente, con sonanti monete! Per molti di noi la ricchezza era comunque destinata a durare poco: alla fine della campagna de i' mandadasa, su 'inai, andaiausu a si ddu giogai tottu a tiradasa o a pesadasa. I perdenti torrànta pru poburu' de primu; i fortunati vincitori (is coffàusu) si ritiravano, momentaneamente, a casa con le tasche piene, salvo rimettere in gioco il malloppo (decurtato dalle spese folli in castange' Napuli o gazzosa), il giorno dopo.
Ritorniamo alla scuola, che nel contesto del discorso "dal pennino al computer", come già detto, occupa un ruolo di primaria importanza.
Una grossa pecca dei locali adibiti ad aule è sempre stato il riscaldamento. Oggi bene o male esistono gli impianti di riscaldamento che, anche se funzionano a singhiozzo, consentono perlomeno di non morire assiderati. Ai nostri tempi l'unica forma di riscaldamento, che se vogliamo si poteva anche definire a energia "pulita", consisteva nel calore prodotto da coloro che andavano a scuola per scaldare le sedie, e vi assicuro che non erano pochi! Grazie a loro, e a is casiddeddu' de brascia, siamo sopravvissuti ai rigidi inverni di allora! questo non vuol dire che oggi non ci siano quelli che vanno a scuola per "produrre calore", anzi, a tanti gli fuma talmente tanto la testa che i pompieri hanno un bel daffare corrrendo quotidianamente da una scuola all'altra per raffredddare questi crani in ebollizione, manco fossero dei reattori nucleari! A far fumare queste nobili teste non sono tanto la trigonometria o i concetti filosofici ma is penzamentu' de is picciocheddusu chi no binti s'ora de 'ndi essi' de iscolla.
Uno dei motivi che spinge gli studenti di oggi a "fare vela" (marinare la scuola) è appunto il bisogno fisiologico di far raffreddare la "testata", onde evitarne, appunto, la fusione.
Ai nostri tempi a no intrai a iscola si correvano dei grossi rischi e se ci andava bene, il minimo che poteva capitarci era: cadra segura. Questo perchè, o si andava a furai frutta, quindi se ti beccava su meri erano guai; oppure si andava a giocare a pallone a Su Legau senza l'indispensabile autorizzazione di Don Natale. In quest'ultimo caso le possibilità de buscai sa cadra diventavano doppie.
Primo caso. Essendo allora il campo di calcio del tipo erboso (a foraggiu) era adibito anche a pascolo po bestiamin' e ullu (bovini), poteva sorprenderti l'affituario che gridando: su tiaull' e su baticorru chi s'inda' betiu, eita stocada 'nchi fadeis' innoi! Con la patadesa riduceva il pallone a spicchi tipu arangiu e, armau de càvuna, iniziava un inseguimento che era sicuramente molto salutare evitare.
Secondo caso. Poteva sorprenderci direttamente Don Natale che (più silenzioso di una pantera) arrivava sul posto senza che nessuno se ne accorgesse; compariva improvvisamente in un punto indefinito del campo; in quel momento si sollevava la sottana e quello era il segnale che si dovevano sfruttare tutte le energie per intraprendere una velocissima fuga! Conoscendo le sue doti atletiche, copriva i cento metri in 8 secondi netti (senza anabolizzanti) altro che Ben Jhonson! Non ci restava altro da fare che cercare di "bruciarlo" sulla partenza; in quel preciso istante partivamo cument'e tiru' de balla conc'a Bevenosu, paria' ca etaiau' fogu! certo non potevano darci fastidio i tacchetti delle scarpette, che non sapevamo nemmeno com'erano fatti! Per i meno veloci erano cavoli amari: durante l'inseguimento, senza perdere il ritmo della corsa, riusciva ad assestare dei micidiali calci nel fondoschiena dei malcapitati, finchè non ne agguantava qualcuno al quale d'agabàda de scutullai su pruini! Chi riusciva a scappare non poteva certo dire di averla fatta franca. Infatti sa cadra era soltanto rinviata a nuovo ordine, questo perchè, come già detto in precedenza, il nostro parroco (dalla memoria computerizzata) ricordava perfettamente i nomi di tutti i presenti, che prima o poi sarebbero passati obbligatoriamente da lui nel salone parrocchiale. A nulla serviva, quindi, astenersi dal passare da quelle parti per un paio di giorni. Quando ci riavvicinavamo da lui lo facevamo con fare indifferente, ma molto guardingo e preparati al peggio, nel momento in cui notavamo che ci "puntava", si cercava di guadagnare velocemente l'uscita, e, nel migliore dei casi ua puntad' e pei no si 'ndi dda lea' nisciunusu!
Certo in quel periodo la vita per gli aspiranti calciatori era molto dura. Infatti fino a ché (parecchi anni dopo) l'accesso al "campo sportivo" non fu quasi del tutto liberalizzato (quasi, perché l'utilizzo era sempre condizionato dalla presenza a messa la domenica) trovare un posto che permettesse, non dico di giocare, ma almeno di fare quattro tiri al pallone, era piuttosto complicato. Siccome la testa no dda potaiausu sceti po estetica (come disse qualcuno), dovevamo ingegnarci a "inventare" degli spazi che, anche se non erano il Maracana', potessero permetterci di giocare. Fu così che provammo prima in località Chistingioisi: u cungiau chi si paia' pàrisi ma sicuramente aveva il 20% di pendenza! (poburusu a chi' ddi tocàd' a giogai contra' susu!). Dopo aver trascorso un paio di giorni a ddu spedriai cominciammo a svolgervi la nostra attività calcistica, che non durò molto poita tottusu ollianta giogai conc'a giossu!
Provammo allora nella cava di trachite di ziu Crobu in località Is Pirasa, che se non altro era in piano, sempre che non ci fosse qualche gradino in mezzo che poteva comprometterne l'agibilità. Certo che lì il tappeto erboso lasciava un po' a desiderare, infatti al posto della soffice erbetta c'era il piano di trachite totalmente coperto da un consistente manto di polvere prodotto dalle seghe circolari usate da ziu Crobu per tagliare i blocchi. Potete quindi immaginare in quali condizioni si rientrava a casa dopo le "partite"; si finiva tottu pistausu e talmente ricoperti di polvere che, al rientro in paese, potevamo essere scambiati benissimo per sculture di Pinuccio Sciola!

XI
Talvolta il progresso può essere controproducente. Può sembrare una delle tantissime frasi fatte che solitamente, non sapendo come cominciare uno scritto, vengono sfruttate per dare una certa risonanza a ciò che seguirà.
Perché ho aperto con questa frase; la motivazione mi viene offerta pensando alla televisione, che sicuramente è importante in questo, ormai solito, discorso "Dal pennino al computer".
Non troppo tempo addietro, stiamo parlando di circa trent'anni fa o giù di li, non esisteva il telecomando. E già, certo che non esisteva, perché non sarebbe servito a niente. Questo per dire che allora la televisione era limitata a un solo canale: il primo della RAI. Oggi esistono un'infinità di canali pubblici e privati, a pagamento, satellitari analogici, digitali e via discorrendo. Le cose si sono talmente complicate che un solo telecomando, ormai, non basta più. Aveva quindi ragione Arbore, quando in una sua canzone cantava che in effetti a comandare in casa è colui che ha in mano il telecomando, appunto. Ovviamente chi ha in mano questo preziosissimo strumento deve guardarsi le spalle dai predatori, che non aspettano altro che il detentore si distragga o si callidi a sonnu, un attimo, per poterglielo sottrarre. Naturale, quindi, che colui che ha in mano "lo strumento di piacere", abbia sempre con se sa lipedda per respingere i continui assalti dei maniaci dello "zapping". Non si contano più, ormai, le vittime causate dalla sindrome da telecomando; non siamo lontani, come numero, dalle vittime causate dall' Aids, dall'eroina o dagli incidenti stradali! Può quindi capitare che visitando il cimitero si possa vedere una lapide, a forma di piccolo schermo, con una scritta tipo:
Ovideo Manca 1950 - 1997 Caduto da valoroso mentre con assoluto sprezzo del pericolo tentava, mettendo in essere un'azione eroica, di sottrarre il telecomando al nemico. Nonostante le quindici coltellate infertegli riusciva a strappare la terribile arma al nemico, e prima di spirare faceva in tempo a cambiare su tutti i canali Mediaset, Rai e pay TV. Che il suo eroico gesto sia di monito per le nuove generazioni, affinchè si adoperino per salvare l'intera umanità dai despoti in possesso della micidiale arma.
I videodipendenti, Posero.
Le nuove generazioni, come auspicato, stanno cercando di risolvere il problema evitando, nei limiti del possibile che altro sangue, anche se per una giusta causa, venga versato.
Un primo tentativo, purtroppo non andato a buon fine, è stato fatto con l'assegnazione di un telecomando a ogni membro della famiglia. Ciò sembrava poter risolvere il problema, aggiungendo, se possibile, un po' di sana competizione giocata sulla velocità di cambio da un canale all'altro! Bisogna dire che questo sistema ha portato a un notevole calo delle vittime causate da videotelecomandomania, ma non ha risolto definitivamente il problema. Un'altra soluzione prospettata è quella di dotare le famiglie di tanti televisori quanti sono i componenti de nucleo familiare. Per le famiglie numerose dovrebbe farsi carico delle spese, la Comunità Europea. La soluzione, ha ulteriormente migliorato la situazione, ma ha creato un altro problema: toccada a 'nhi ogai i mobillisi a forasa po dd'u istai tottu cussas televisioisi!
Le case produttrici si stanno adoperando per risolvere il problema: l'ultima soluzione proposta è una sorta di mostro a forma poligonale (intorno al quale siede la famiglia), che ha, incastonato, in ciascun lato, un video. Vasta la gamma proposta: si va dal modello Renato Zero (triangolare) per le famiglie moderne o per la coppia + l'amante; al modello Bossi (dodecagonale) per le coppie del sud con dieci figli! Sovente il problema non è tanto il televisore quanto il telecomando in se stesso. Mi spiego (disse la tovaglia): alla fine ciò che conta veramente è avere un telecomando in mano; cosicchè può succedere di vedere Il capofamiglia con il telecomando del televisore; un altro componente della famiglia con il telecomando per le luci; un altro con il telecomando per l'aria condizionata; un altro con il telecomando po fai smitti de istiddiai su grifoni; un altro con il trelecomando po sullai su fogu; un altro con il telecomando per telecomandare i telecomandi!
Insomma: po ponni totttu' cussus "talligumandusu" toccada a tei degussa' geminerasa antigasa cun du cantoi longu assumancu ua parigh'e metrusu!
Ma nel contesto della scuola, eita 'inchintrada custu "talligumandu"? E quì devo ricordare che le scuole medie dei miei tempi si svolgevano seguendo le lezioni alla televisione. Certo allora ci avrebbe fatto comodo avere il telecomando, non solo per poter saltare dal canale in cui si trasmetteva la noiosa lezione di algebra a un concerto dei Beatles, ma anche per "spegnere" a nostro piacimento la sbraitante prof, oppure per trasformare il televisore in video game! Certo che a quei tempi con un solo canale televisivo ddu ia' pagu de si brigai, toccada ammarolla a castiai cussu o nudda! Per noi studenti, poi, era proprio una fregatura in quanto seguendo le lezioni televisive nell'unico programma esistente, l'unico canale alternativo era chenall'e su sciu (località in agro di Ruinas) dove ci recavamo spesso, quando non si andava a scuola, per le solite sortite alle primizie della frutta di stagione.
Tornando al discorso puramente didattico, ricordo che allora avemmo tantissimi problemi per quanto riguarda le cose da studiare che per noi erano una vera e propria novità. Mi riferisco alla mitologia greca in generale, e ai poemi in particolare: L'Eneide, l'Iliade, l'Odissea ecc. Qualcuno penserà che i poemi che ho menzionato ci venissero presentati in televisione magari sceneggiati, a puntate, con tanto di attori e belle attrici. Nulla di più falso! Ci venivano illustrati a voce dai professori sia quelli in video che in carne e ossa. Seguivano, quindi, letture dei vari "canti" che gli autori (Omero e soci) scrivevano in modo pressocché incomprensibile, e che quindi necessitavano di un' esauriente spiegazione po 'ndi poi ogai peisi! Comprensibile, di conseguenza, che il ricordo di questi poemi sia talmente sfumato, da farci ricordare esclusivamente i personaggi e i fatti più importanti.
Forse, almeno per quanto mi riguarda, l'opera di Omero che ricordo più volentieri è l'Odissea, anche se ancora oggi ho moltissimi dubbi sull'affidabilità di Omero come uomo che racconta le leggendarie vicende dei suoi eroi, nel rispetto della verità. Secondo me era u' grandu fill'e cocca, che imbastiva tutto quanto a misura di chi avrebbe poi dovuto ascoltare i suoi canti. Per fare un esempio: in tutte le sue storie, nonostante in quel periodo vi fosse su famini a segai a fittasa, tutti i personaggi passavano gran parte del loro tempo a banchettare, a consumare enormi maiali (sempre i più grassi!); mandrie intere di buoi (ogni tanto ne sacrificavano qualcuno agli dei per tenerseli buoni e po no ddu su fai arrennegai!); quintali di pesci pregiati (tanti si ettànta a sa grappa!); il tutto innaffiato continuamente con il liquido di Bacco, cioé fiumi di vino rosso e bianco che le Ancelle no accudianta ettendi, a broccasa! Quindi a quanto dice Omero, non solo ne avevano in quantità per loro, ma addirittura sacrificavano le migliori bestie agli dei. Che fossero le migliori ho i miei dubbi. Io penso, invece che, agli dei, sacrificassero quelle bestie malandate e piene di acciacchi (mucche pazze, maiali con la peste suina achea, brebei' zòppasa ecc.), per le quali i giorni erano ormai contati. Quindi prima che inevitabilmente morissero da sole, considerato ca no 'ni podianta pappai, prendendo due piccioni con una fava, cun pagu spesa, si imbonivano il dio che in quel momento gli faceva comodo: Poseidone (dio del mare) ed Eolo dio dei venti, se dovevano andare per mare; Afrodite (dea dell'amore), se dovevano mettere in essere qualche tresca amorosa, Zeus (su babbu de tottu' i' deusu), se il problema era abbastanza grave da non poter essere risolto dagli dei "normali"!
Ma lasciamo un attimo queste considerazioni per analizzare gli episodi salienti dell'Odissea che più mi danno da pensare. Per il nostro eroe, Ulisse, l'avventura comincia dal rientro dalla guerra di Troia (già questo nome la dice lunga sul caos che regnava in quella città). Sulle cause di questa guerra vale la pena di fare alcune considerazioni. Secondo Omero a scatenare la guerra fu il rapimento della bellissima Elena (moglie di Menelao e figlia budra dello stesso Zeus) da parte del troiano Paride. Quest'ultimo (sempre secondo Omero) fu costretto, rientrando in patria, passando in Egitto, a "mollare" la stessa Elena al re egiziano, ge no è po nudda chi ia' fattu tottu cussu traballu! Gli achei, con a capo Agamennone, convinti che Elena fosse in mano ai troiani scatenarono l'offensiva. Ma no ddu podianta nai subitu ca cussa piciocca no fudi (a) Troia? Mistero. Fatto stà che scoppiò la lunghissima guerra che costò la morte anche al pelide Achille. Non si capisce bene perchè questo eroe (sicuramente il più grande), ben sapendo che il suo unico punto debole era il tallone, non si premunì; magari ponendisia u' arrogh'e ferru in su carroni! fatto stà che Paride, chi no inzretta' mai nudda, con una freccia lo beccò proprio lì, determinando il passaggio di Achille dalla vita terrena agli inferi! va detto, per dovere di cronaca, che iI punto debole di Achille non lo scoprì certo Paride, il quale non era perspicace fino a quel punto, ma furono i soliti dei, che si divertivano a si poi in mese 'e peisi, a svelarglielo! Resta da capire, comunque, come si possa morire per una "freccettina" nel calcagno!
Ovviamente per attirare Achille in una trappola di questo tipo no' bastada certu a ddi promitti u procheddu arrostiu o ua schidonada de ambidda! Omero pensò bene di studiare qualcosa degna di un eroe del suo calibro: i troiani, con il consenso di Priamo, gli dimostrarono la disponibilità a diventare sua donna e amante, nientepopòdimeno che Polissena, la bellissima figlia dello stesso Priamo Re di Troia, che stette al gioco mostrando ad Achille, dalle mura di Troia, il suo florido petto in versione integrale! Certu ca cuddu poburu no podiada arresisti a ua cosa diasi!
La sanguinosa guerra vide la disfatta di troia con l'operazione "cavallo". E quì Omero si sbizzarrisce con la sua fantasia di stratega. Gli achei, una volta costruito il famoso cavallo di legno infilarono dentro lo stesso i loro migliori guerrieri e lo abbandonarono su una spiaggia di troia. Fu in quell'occasione che venne coniata la frase "Siamo a cavallo!".
Certo per i troiani sarebbe stato meglio che il cavallo fosse stato della Giara, assumancu ddu iada stau prus pagu genti!
Nel pancione del cavallo trovarono "ospitalità" i migliori guerrieri achei. Certo non fu facile per loro resistere all'interno dell'equino di legno, soprattutto per quelli che avevano su viziu de fumai. No smoking: questo era il motto; pena la probabilità che il cavalllo prendesse fuoco, con la conseguenza che tutti i valorosi diventassero carbone per barbeque!
Non pago di questo, Omero, ci mette in mezzo i soliti Dei tentatori che impersonando le voci delle mogli e delle amanti dei guerrieri, con languide voci, voluttuose e invitanti promesse, invitavano i valorosi a uscire fuori dalla pancia del cavallo.
Dal canto loro i troiani divisi in due fazioni (una che voleva dare fuoco al cavallo e l'altra che, ritenendolo un dono degli dei, voleva portarlo alll'interno delle mura di Troia) non sapevano che pesci prendere; Omero, il furbone, optò per la seconda fazione. Questo gesto, come tutti sappiamo, determinò la sconfitta dei troiani. resta da capire come mai i troiani, ca no fuanta dromiusu, si fecero fregare da questa carnevalata che si dimostrò, più che altro, un pesce d'aprile fuori periodo!
Gli achei, una volta dentro le mura di Troia, approffittando delle tenebre, quatti quatti, fecero a fillicchittusu i valorosi troiani, che nulla poterono contro gli achei favoriti dal fattore sorpresa.
Anche quì sorge un piccolo sospetto: o i troiani erano troppo impegnati a trastullarsi con le ancelle, oburu fuanta tottusu imbriagusu de sa notti prima!

 

XII

Prima di riprendere il discorso sull'Odissea di Omero, facciamo, come consuetudine, un breve riferimento al passato. Quindi mettetevi distesi, rilassatevi, provate a tornare indietro nel tempo (mi riferisco a chi, come me, ha il ricordo un po' vago della scuola) cercate di rievocare episodi che hanno caratterizzato quel particolare periodo della nostra vita: l'adolescenza.
L'adolescenza. Che bel periodo, diranno in molti, se non ci fosse stata la scuola sarebbe stato ancora meglio! chissà, forse sarebbe stato anche monotono, piatto; saremmo, come disse un cantautore sardo, “Diventau' mannusu chenze passai pipiusu”. Pensate, che tristezza diventare grandi senza essere stati bambini! Provate a immaginare all'età di quattordici, quindici anni, ragionare e conversare come uomini e donne “grandi”. Sarebbe stato quantomeno fuori luogo sentire ragazzini di quell'età pronunciare discorsi del tipo:
- Eita parid'oppai? Ecumenti s'intendid'oi?
Hoi scitassia, ca no'beid'a bei, potu qusta tiaullu de artrosi chi no mi lassada asselliai! e fostei?
'Stitzia sin'chi dda furidi! e deu ca non c'arrenesciu a pigai sonnu adenotti e mi toccada a mi 'ndi pesai e a mi ponni a trabballai, po 'nchi passai s'ora?
Arrazz'e malladìa bella e'cussa pura, ma cun fostei gei s'arràngiada! ma no mi 'ndi chistionidi; deu puru aintr'e notti seu tottu a furriusu in su lettu, pargiu croccau me i' foggia' de fimorisca!
Lampu ddi callidi! e chi nou ca seu postu bei de istogumu; a'mengiau seu accanta accanta de no murzai prusu: bastada a mi pappai u'arrestu de fai cu grogiollusu, quattr'ou' frittusu, duas chibudda' cruasa e a mi buffai u' litru de biu nieddu, ca paridi ca 'ncappu callau ua cantonada! no beid'a bei!
Oppure:
- A logu e' andendi ommai?
Sissada e fostei?
Citassia ca no 'ndi pozz'a prusu. Seu andendi a su stangu a pigai gigarrusu a pobiddu meu, no ddu potz'accudi; est'a tottu di' fumiendi paridi u' muntronagiulu chi d'ant'appena postu fogu! e chi nou ca gei faid'arrazz'e fragu bellu, no ddu assellia' pru nisciunusu in domu!
Oiammomia! no mi ddu contidi; e deu seu andendi a buttega a pigai binu nieddu po cussu digraziau de pobiddu meu, tanti ge si 'ndi buffa' quattru stiddiusu po brulla! aigussu no ddiad'a bastai mancu sa pishina de barralla prena de cannonau! e chi nou ca gei fai' binu bellu, ddi piga' tottu a cantai a zerriusu parid' u lupu arullendi, 'ncaziada apizzu' de sa mesa; s'appicada a su lampadariu pari' Tarzan!

Decisamente è molto meglio che i bambini crescano, passando, come è naturale, per l'adolescenza; anche se dovremo abituarci, ad ascoltare, con non meno stupore, discorsi di questo tipo:
-- Ciao Deborah! Perché stai vascheggiando, non vieni oggi a scuola?
Ciao Samanta! no oggi non vengo a scuola. Faccio vela perché c'è quella zonca della prof di matematica che mi stressa! e poi figurati, proprio oggi che c'è compito in classe con quelle equazioni che mi mandano in paranoia! oltretutto non ho studiato niente perché ieri ho passato il pomeriggio ad ascoltare i Backstreet boys, quanto sono boni!
Non dirmelo, una figata! sono proprio toghi; da sballo! sai pensandoci bene mi sa che faccio vela anch'io, oggi c'è quel biddaio del prof di storia che deve spiegare quelle pallosissime guerre d'indipendenza, puoi capire che palle! si ho deciso: oggi zero scuola! magari ce n'andiamo in paninoteca e ci facciamo due burghy, che ne dici?
Eia la cosa mi attizza un casino, magari oggi si cucca anche!

Quindi, a conti fatti, è sicuramente più logico, anche se talvolta implica una certa dose di sofferenza, passare per tutti i vari stadi della crescita: dalle fasce alla terza età.
Dopo questa breve parentesi, ritorniamo alla “nostra” Odissea, che tanto c'incuriosiva quanto, come già detto ci rendeva la vita difficile a scuola.
Nell'ultimo numero abbiamo lasciato Ulisse (Nessuno, per gli amici e soprattutto per i nemici, nel caso specifico Polifemo) che con i suoi amici se la batte a velatura tutta spiegata e fortunatamente con vento in poppa, lasciandosi dietro Polifemo agonizzante e i suoi “compaesani”: i simpatici Ciclopi.
Omero narra che dopo un certo periodo di navigazione la flottiglia giunge nell'isola Eolia, cioè di Eolo (il dio dei venti). L'accoglienza fu abbastanza buona. Dopo aver mangiato e bevuto come solo gli achei sapevano fare, cioè cun'd ua pasterenzia chi no beid'a bei, ripresero il viaggio. Eolo per dimostrare la sua simpatia a Ulisse gli diede in dono un otre con dentro tutti i venti che eventualmente avrebbero potuto infastidirlo durante il viaggio. I compagni di Ulisse pensavano che fosse la solita storiella da lui inventata per non svelare loro il vero contenuto dell'otre che, secondo loro, doveva essere un vero e proprio tesoro. Nottetempo, durante la navigazione, i più arditi compagni di Ulisse, pizzullausu dal vino di Eolo e approfittando del fatto che il nostro eroe dormiva, slegarono la catena d'argento che teneva chiuso l'otre. Cosa successe è
facile immaginarlo: tutti i venti (dai quadranti meridionali a quelli settentrionali) imprigionati all'interno dell'otre (da su ent'e soli a su entu estu a su lussurgesu) si scatenarono alla massima potenza investendo in pieno le fragili imbarcazioni.
Fu un'immane tragedia: pochi scamparono al potere distruttivo di tutti quei venti (20) messi insieme!
Naturalmente Omero fa si che nella sua “storia” Ulisse e altri compagni si salvino, altrimenti come diavolo avrebbe fatto a proseguire il racconto con tutte le altre avventure? Fatto sta che dopo avere lottato tenacemente con la terribile tempesta il resto della flotta giunse (finalmente) nell'isola della maga Circe. Questo canto era sicuramente uno di quelli che ci incuriosiva di più per gli avvenimenti che si susseguirono nella misteriosa isola. Omero racconta che il primo gruppo di marinai sbarcati nell'isola, furono ritrovati trasformati in maiali e chiusi in un recinto (acorru) e pappendi làndiri a muntoisi, e sicuramente sarebbero diventati salsicce, prosciutti e teste in cassetta, se non fosse per Ulisse, che come sempre risolse il problema.
Fu la maga Circe, che dopo aver fatto loro bere un suo particolarissimo “cocktail”, con un colpo di bacchetta magica gli trasformò appunto in suini destinati all'ingrasso. La stessa sorte doveva toccare a Ulisse, se non fosse per il dio messaggero che lo mise in guardia e gli evitò quel piccolo inconveniente. Ma a dire il vero, Ulisse diventò, comunque, anche lui un maiale come i compagni, nel senso che passò insieme a loro, un anno nell'isola di Circe pappendi e buffendi cument'e procusu, spupazzandosi la stessa Circe (peraltro bellissima e molto sensuale) e tutte le sue ancelle che non erano certo da buttare via! Si trovarono così bene in quell'isola, che tutti i marinai volevano stabilirsi per sempre li; al che Ulisse, che bene o male ogni tanto si ricordava che aveva moglie e figlio, alla proposta dei suoi compagni, i quali gli prospettarono l'idea di restare per sempre in quel paradiso, rispose: “ddei' pigau po procu!”
Certo che Ulisse e suoi uomini se ne andarono dall'isola a malincuore, e non si capisce bene come abbia fatto a convincere i compagni ad abbandonare quell'isola con tutto quel ben di dio. Secondo il nostro modo di vedere aveva raccontato loro qualcuna delle sue solite balle, peraltro sempre convincenti, del tipo: “ Ragazzi, lo so che lasciare queste bellissime donne, questi ricchi banchetti per riprendere il mare senza sapere a cosa andiamo incontro, può non sembrare una cosa ragionevole, ma ci sono grossissimi guai in vista se continueremo a stare qui!”
“Quali sarebbero questi guai o Ulisse! Non è che ne stai inventando un'altra delle tue?”- Chiese un compagno.
“Mi spiego, dovete sapere che da quest'isola non è mai potuto andare via nessuno, proprio perché tutti coloro che sono stati qui prima di noi sono stati trasformati in maiali e finiti sulla griglia, fattusu a satizzu e is peisi fattu' cun fai! Ma c'è di più . Avete forse visto, qui nell'isola piante che producano ghiande?”- disse Ulisse.
E beru, no ca' mancu ua matta de arrolli de illighi o de srueggiu!” fece notare un altro compagno di Ulisse “ Ma questo cosa c'entra?”
E Ulisse: “ ma allora non avete ancora capito! finché si viene trasformati in maiali c'è sempre la speranza che Circe all'occorrenza vi ritrasformi i uomini pieni di vigore per soddisfare le turpi voglie, sue e delle ancelle; ma in seguito giungerà inesorabilmente il momento in cui i maiali si ritroveranno senza cibo, ed ecco che allora la maga Circe non esiterà un solo momento a si furriai a tottusu a landiri po ddu giai a is proccusu! E vi assicuro che non dev'essere una cosa troppo piacevole a si fai mazzullai de cussus' animallisi, tanti gei potanta dentigheddu' de latti!”
. Ribatte' un altro marinaio: “Ma tu questo come l'hai intuito?”
“E' semplice, secondo voi perché Circe ripete continuamente : “chi is proccu' no morinti su landiri gei torrada!” Rispose Ulisse. Quest'ultima frase finì per convincere gli uomini di Ulisse, che anche stavolta aveva ragione Lui.
Dopo questa, in fondo piacevole, “tappa” di un anno, i valorosi achei ripresero il viaggio di ritorno verso Itaca. Non starò a descrivere tutti i viaggi e le soste di Ulisse e io suoi, ma citerò solo quegli episodi che destavano maggiore curiosità in noi studenti di allora.
Precedentemente Ulisse espresse a Circe la sua intenzione di scendere nell'Ade (il regno dei trapassati) allo scopo di incontrare l'indovino Tiresia, deceduto tempo addietro, per farsi predire il futuro. Circe dal canto suo diede tutte le istruzioni in merito a Ulisse per poter accedere in quell'allegro posticino, con la possibilità, naturalmente di ritornare vivo e vegeto alla vita terrena. Si dice che prima di Ulisse, ben pochi ebbero questo privilegio, appannaggio dei soliti “accozzati”, tipo Dante Alighieri, che probabilmente si recò in quel triste posto onde trovare ispirazione per scrivere i suoi famosi canti sull'inferno!
Ovviamente un posto del genere doveva, per forza riservare qualche spiacevole sorpresa, e per Ulisse fu quella di trovare la madre, deceduta durante la sua permanenza a Troia. Questo episodio è senz'altro uno dei più tristi dell'odissea. La madre lo tranquillizzò, rivelandogli che la moglie Penelope (sempre fedele a lui), insieme al figlio Telemaco e al padre Laerte, attendevano ancora il suo ritorno.
Ulisse incontrò finalmente l'indovino Tiresia che gli predisse il futuro rivelandogli che sarebbe riuscito a tornare in patria dopo tante peripezie. Gli disse testualmente :”arregodadia ca no è tottu su logu pàrisi! Al tuo arrivo in patria troverai u' muntoi de genti crichendi contusu a pobidda tua, ma ti vendicherai fendideddusu a fillichitusu!”. Ulisse incontrò
anche il pelide Achille, Patroclo e il valoroso Agamennone, il quale, mischineddu, morì pugnalato alle spalle de cussa carrogna de sa pobidda. Da qui' il consiglio, suo, a Ulisse di diffidare sempre delle donne, portatrici, secondo lui, soltanto di guai. Ulisse, ovviamente non fu d'accordo con le affermazioni di Agamennone, non foss'altro po tottu cuss'annu chi si dd'iada spassiada cun Circe!
Omero racconta che Ulisse e compagni dovettero ritornare all'isola di Circe per mantenere la promessa di seppellirvi la salma del loro compagno Elpenore. Ai compagni di Ulisse no dd'is paria' mancu beru ca depianta torrai a s'ispassiai cu is'ancellasa! Ma Ulisse placò subito loro i bollenti spiriti, ricordandogli la storia de is procusu, che servì a far cambiare loro immediatamente idea. Infatti al loro arrivo nell'isola, nonostante Circe e le sue ancelle gli accolsero, a detta di Omero, con vesti trasparenti e grande disponibilità, non osarono nemmeno sfiorarle! Pare, come sempre, che anche in quell'occasione, Ulisse abbia fatto il furbo; no si cumprendidi ecumenti mai, Ulisse e Circe fuanta mancàusu ua bella scutta e de chi fuanta torrausu, ianta nau ca fuanta a giai a pappai a is procusu!

 

XIII

Nell'ultimo numero, rievocando l'Odissea di Omero, mi sono fermato al punto in cui Ulisse e suoi, si congedarono da Circe e dalle sue ancelle, dopo il solito banchetto a base di carne di maiale (chissai e achini s'iantai pappau!), per riprendere il viaggio di ritorno verso Itaca. Bisogna dire che anche stavolta non fu facile per Ulisse, convincere i suoi compagni a lasciare quella bellissima isola e soprattutto le splendide donne che la abitavano; ma come sempre il nostro eroe vi riuscì, e così
ripresero il mare. Prima che lasciassero l'isola, Circe informò Ulisse sui pericoli che avrebbero incontrato durante il viaggio; il che fu determinante per salvargli la pellaccia in più di un'occasione. Naturalmente Ulisse non fece parola di tutto ciò che gli fu rivelato, questo perché se i compagni avessero saputo a quali guai sarebbero andati incontro, avrebbero sicuramente preferito restare nell'isola a sighiri a fai is procusu cu is ancellasa, a costo di correre il rischio di essere trasformati in suini veri e propri!
Soltanto quando le navi furono ben lontane dall'isola, Ulisse informò i compagni sul primo pericolo che avrebbero incontrato. Quindi disse loro: “Ragazzi, tra poco arriveremo in prossimità dell'isola delle sirene; queste donne bellissime canteranno con voci incantevoli e ci inviteranno a fermarci nell'isola, ma noi non dovremo abboccare, perché questo sarebbe fatale per noi, va detto che è impossibile resistere a questo canto!”
- “E allora come sapremo resistere?” Chiese un compagno.
-“Vi tapperò le orecchie con la cera, solo io potrò sentirle” rispose Ulisse.
A questo punto della storia, Omero dice che Ulisse ordinò a suoi di essere legato all'albero maestro in modo che non potesse dare retta all'irresistibile richiamo delle bellissime sirene (chi fuanta mesu femminasa e mesu pischi de iscatta), e che ordinò di stringere sempre di più le cime se avesse tentato di liberarsi.
Secondo me le cose andarono invece così: uno de soliti compagni sospettosi di Ulisse, prese in disparte alcuni degli altri e disse loro: “Per me questo sta facendo il furbo come sempre! tappa le orecchie a noi, così le sirene le sente solo lui e se la cosa gli aggrada, magari va anche a spassarsela con loro nell'isola”. Gli altri compagni si trovarono perfettamente d'accordo con lui, quindi si comportarono in questo modo: si fecero otturare le orecchie con la cera, dopodiché, cogliendolo di sorpresa, ianta crabusau Ulisse e lo legarono tipu fasch'e linna all'albero maestro, badando bene di stringerlo come si deve e ignorando completamente le bestemmie che riversava su di loro, a parte che non avrebbero potuto, anche volendo, sentirle, in quanto avevano già le orecchie tappate! Fu così che quando furono in prossimità dell'isola, Ulisse udì lo splendido canto di quelle meravigliose fanciulle, che lo invitavano ad approdare nell'isola e a spassarsela con loro. Ovviamente il poveretto fece di tutto per liberarsi dalle corde e correre dalle belle fanciulle che lo chiamavano a loro estasiate, ma ottenne il solo risultato di vedere le sue legature che venivano rinforzate con altre corde, ed esaurite queste, dd'ianta giau ua passada de filuferru puru! A nulla servirono quindi tutti i tentativi di Ulisse per farsi liberare, compreso il suo fingersi morto, che non ottenne altro risultato, che una secchiata di acqua di mare in faccia, che lo convinse a interrompere la finzione! Venne slegato quando tutti ebbero la certezza di essere ben lontani dall'isola.
Ovviamente questo episodio era una bazzeccola in confronto a tutti i guai che ancora dovevano loro capitare. Infatti , in seguito si imbatterono in terribili mostri marini, tipo polipi giganti con multiple teste mostruose, bocche enormi e svariate file di denti, che a confronto i pescicani erano grappa de frumini nostu! In questa circostanza Ulisse dovette subire la perdita di molti compagni (i migliori) nonché di alcune imbarcazioni. Ma anche in questa situazione riuscì a salvare la propria pellaccia.
Omero narra che dopo questa tremenda avventura, Ulisse e i suoi, stremati e affamati giunsero in prossimità dell'isola del Sole; un bellissimo e accogliente lembo di terra dove vi pascolavano dei bellissimi e grassi animali (mucche pecore ecc.). Ovviamente Ulisse (avendo avuto raccomandazioni dall'indovino Tiresia, prima e da Circe, dopo) mise subito in guardia i compagni implorandoli a non sbarcare nell'isola e tantomeno a mangiare la carne di quegli animali, pena una marea di guai, che il Sole avrebbe loro, sicuramente, procurato. Ma i compagni, che non vedevano l'ora di mangiare a sazietà per poi sdraiarsi su qui verdi e rigogliosi prati, quella volta fecero esattamente il contrario di ciò che disse Ulisse: sbarcarono nell'isola e cumencianta a iscrogiai brebeisi e baccasa, a dd'a s'arrostiri, e a pappai cumenti no ianta fattu mai! E dopu chi si fuanta bei sazzausu cument'e procusu, si fuanta croccausu ua parigh'e disi in s'ebra frisca, e poi fuanta torrausu a partiri. Ciò, provocò, inevitabilmente le ire del Sole che si recò da Zeus per chiedere la giusta punizione per gli achei; minacciando, in caso contrario, di smettere di splendere nell'Olimpo e sulla terra, per traslocare nell'Ade. A seguito di questa minaccia, Zeus non potè fare a meno di accontentarlo. Scatenò (con la collaborazione del dio Nettuno, tanti gei fuanta ua coppia bella!), sulle imbarcazioni tutto il repertorio: lampusu, tronusu e tempu mallu de ognia manera, onde alte come montagne investirono le navi, già irrimediabilmente lesionate dalle folgori mandate loro in regalo dal buon Zeus, riducendole a un ammasso di pezzi di legno, talmente piccoli chi no fadianta mancu po ddu's ponni a su fogu! Tutti i compagni di Ulisse perirono in quella terribile tempesta, e fu solo per il solito zampino che ci mise la dea Atena, che Ulisse riuscì a individuare l'unico pezzo di legno in grado di poterlo sostenere e tenerlo a galla, in mezzo a quell'inferno. Come lui stesso raccontò in seguito ai Feaci, che lo accolsero nella loro isola, vagò in mezzo ai marosi per nove notti e nove giorni, per poi, allo stremo delle forze, sbarcare nell'isola della ninfa Calipso.
A questo punto Omero, che era un gran furbone, per non annoiare troppo chi ascoltava i suoi canti, con storie eccessivamente tristi, condisce il suo poema, con ingredienti un po' più piccanti e narra una nuova avventura di Ulisse con un'altra donna: Calipso, appunto. Naturalmente la bellissima Ninfa si innamora di Ulisse, e, dopo averlo accolto, rifocillato, ripulito e profumato come solo una dea del suo calibro sapeva fare, lo tenne con se e lo amò insaziabilmente per sette lunghi anni. E qui' bisogna aprire una piccola parentesi sulla di lui moglie Penelope, che mischinedda, ignara di quanto il “fedele”
e valoroso maritino stava combinando con la ninfa-ninfomane, e soprattutto insofferente a is corrrusu chi su pobiddu fu ponendideddi in tottu cussus'annusu, chi ormai fuanta diasi longusu e afrucaggiausu chi fadianta a ispraghi pannusu, e lei con tanto ardore e fedeltà continuava a respingere le sempre più pressanti avances dei Proci (is procusu) che non vedevano l'ora di poterle mettere le mani addosso. Omero, scrivendo il suo poema, inizialmente pensò di far si che anche Penelope si facesse qualche avventuretta con qualcuno di questi Proci che tra l'altro non erano niente male essendo quasi tutti dei belli e prestanti giovanotti. Ma accantonò l'idea, pensando che ciò potesse sminuire il valore, la potenza e la virilità di Ulisse, rendendo così meno interessante il suo poema.
Una cosa che noi, allora studenti delle scuole medie, non riuscivamo a capire bene era, quanti anni poteva avere questa benedetta donna che con tanto amore e pazienza, aspettava il ritorno della sua dolce metà. Cosi provavamo a fare un po' di conti. Dùncasa: Ulisse partì per la guerra di Troia che doveva avere almeno diciotto-vent'anni anni; la guerra di Troia durò circa vent'anni; ua pariga de annusu dd'u sia' passausu cun cussa dimonia de Circe; sett'annusu cun cuss'atra pudredda de Calipso, u'antra trinch'e tempusu cun Nausicaa (tantu po cambiai); us'cant'annusu girendi in logu e in ladu per' i'marisi e per is isulasa pappendi e buffendi! A sa fini de is contusu Ulisse depia tei (segundu nosu) assumancu sessantascinqui o settant'annusu. Penelope che non doveva essere molto più giovane, era comunque (sempre secondo noi) una donna di una certa età. E se tanto ci dava tanto, cosa cercavano in lei i pretendenti, ovvero i Proci? Anda bei ca fuanta sempri imbriagusu ma e' possibili chi no s'ind'accatanta ca ormai fudi ua femmina anziana? O puri no'ndi ddi si friga' nudda e seguramenti andant'a innia po pappai e buffai a iscrocca e s'ispassiai cu is ancellasa, ca fuanta veramenti piciocca' bellasa e giovuneddasa?
Ritorniamo comunque al nostro eroe che, a quanto dice Omero, a questo punto della storia viene assalito dalla nostalgia per la sua terra e per i familiari, quindi prega continuamente Calipso, affinché lo lasci andare. Si racconta che la solita dea Atena, che teneva tanto a Ulisse, convinse Zeus a mandare il messaggero Hermes per ordinare la ninfa a lasciar partire il valoroso acheo; e così pare che siano andate le cose, anche se probabilmente Calipso non di podiada'prusu de ddu potai sempri in mes'e peisi, e fu così che lo aiutò a costruire una zattera e lo spedì, con tanto di carta nautica, verso Itaca.
Ma il nostro bravo Ulisse doveva girovagare ancora, prima di ritornare in patria. Approdò infatti nell'isola dei Feaci, i quali, gente ospitale, tipu is cabesusesusu, trattavano gli ospiti con i guanti, e così fecero anche con lui. Quando finì di rifocillarsi, raccontò tutte le sue peripezie a una platea attenta e curiosa, dopodiché lo accompagnarono direttamente a Itaca.
Naturalmente Ulisse non poteva rischiare di farsi riconoscere, in quanto voleva entrare in città senza destare sospetti, onde poter cogliere i Proci di sorpresa e mettere in atto la vendetta che aveva covato per anni. A ciò pensò la solita dea Atena che gli diede le sembianze di un vecchio mendicante. Omero dice che solo il suo cane Argo riconobbe il padrone Ulisse nonostante la trasformazione abilmente realizzata dalla dea. Certo che anche questo cane che visse tanti anni per poter rivedere il proprio padrone, depia tei assumancu quarant'annusu! Mancu chi fessidi u tostoiu po campai meda diasi! Fatto sta che il cane, una volta rivisto il suo padrone morì, felice e contento, di morte naturale, ovvero: de beccesa.
Tralasciando tutti gli episodi che accaddero dopo la trasformazione di Ulisse in pedidori, si arriva al mai più tanto bramato incontro tra Penelope, chi s'ia passau sa vida sua, mischia, tessendi su tappetu adediri e sconcendideddu adenotti (depiadessi de origini samughesa!), e Ulisse. La povera Penelope, vuoi perché Ulisse era stato ulteriormente invecchiato da Atena, vuoi perché si aspettava un baldo giovanotto, non riconobbe il suo adorato maritino, nonostante le prove che lui riuscì a produrre (compresa quella di amatore). Fu così che Penelope volle metterlo ulteriormente alla prova: il tiro con l'arco (che solo Ulisse sapeva tendere). Le cose si svolsero più o meno così: durante uno degli ormai soliti banchetti, compare la stessa Penelope, e tra l'immenso stupore dei Proci disse: “Adesso basta, mi sono stufata di aspettare il ritorno di Ulisse. Quindi penso che sia il caso di trovarmi un altro marito, che sarà uno di voi; sarà colui che riuscirà a tendere l'arco e far passare la freccia nell'occhio di dodici scuri messe in fila una dietro l'altra!”. I Proci fuanta abarrausu spantausu; no dd'is paria' mancu beru ca podianta tei sa possibilidadi de poi i mausu in pizzusu a Penelope. Volle essere della partita anche Telemaco (figlio di Ulisse) il quale era già a conoscenza che il vecchio mendicante, altri non era, che suo padre Ulisse. Propose che se fosse riuscito a tendere l'arma, nessuno potesse avere il diritto di prendere come moglie, sua madre. I Proci accettarono ed ebbe inizio la gara. Telemaco non riuscì a tendere l'arco, come non vi riuscirono tutti i pretendenti che ci provarono. Tra l'indignazione dei Proci, chiese, e ottenne di poter provare, anche il mendicante. Con una forza e una precisione incredibili, Ulisse scagliò la freccia che attraversò le dodici scuri! Grande fu la delusione dei pretendenti, che Telemaco, a stento riuscì a tenere a bada. Quindi diede ordine affinché venisse servita la cena. Fu quello il segnale convenuto tra Ulisse, Telemaco e i loro amici. Mentre i Proci erano intenti a si sazzai (come sempre), Ulisse e i suoi li colsero di sorpresa e fu la strage! Fu una terribile carneficina nessuno dei Proci (secondo Omero) scampò alla giusta punizione. Più di uno invece riuscì a farla franca e a scappare lontano e addirittura a mettere su un'altra città: Procida!
Ma neanche questo fu sufficiente a convincere Penelope che quell'uomo era Ulisse; infatti lo sottopose alla prova del letto (che non era quella che si può pensare) ma era il fatto che solo Ulisse (e “Nessuno”
altro) sapeva che il talamo era costruito sopra un grosso albero tipu niu de corroga! Chiaramente Ulisse superò anche questa prova e finalmente fu accettato dalla sospettosa moglie!
Ringo
Grazie per essere arrivati fino in fondo!