Messaggi
nelle bottiglie
da
Bat Shalom riceviamo: Il sole sta tramontando dietro le colline all'incrocio
dell'autostrada che porta a Nazareth. Sono le auto dei pendolari israeliani
che tornano a casa. Alcuni rallentano suonando colpi di clacson, e si sporgono
gridando. Non è un ingorgo di traffico che li blocca, ma è
una lunga, serpeggiante fila di donne in piedi su un lato della strada.
In silenzio, le donne reggono striscioni sui quali sta scritto: "Stop all'occupazione",
"Rispetto degli accordi internazionali", "Fine della discriminazione contro
gli arabi israeliani". Vetture della polizia passano di frequente, come
per missioni di sorveglianza. Una si ferma, e una voce autoritaria tuona
dall'interno: "Arretrare di sei passi!". Le donne, già a distanza
di sicurezza dalla strada, obbediscono agli ordini della polizia. Le donne
che protestano silenziose, in piedi, rappresentano un'azione pacifica che
non può più a lungo essere ignorata da un'opinione pubblica
profondamente divisa, in attesa della guerra. La loro presenza silenziosa
è minacciosa, cos“ minacciosa che le notizie dei loro raduni hanno
causato anonime minacce di morte nei loro confronti. A differenza delle
analoghe proteste verificatesi a Tel Aviv e Gerusalemme, dove donne ebree
manifestano in nome dei diritti degli arabi palestinesi, qui ci sono donne
ebree e arabe che stanno insieme, l'una vicina all'altra, affrontando la
collera degli incolleriti israeliani. Non sono venute qui per reazione alle
due settimane di violenza e spargimento di sangue. Sono donne ebree e arabe
- Lily, Samira, Vered, Maryam, Yehudit, Fatchiya- che hanno lavorato insieme
attraversando i confini etnici e religiosi per molti anni. Sono le donne
di Bat Shalom nella valle di Jezreel. Donne ebree di Afula e dei kibbutz
dei dintorni; donne arabe di Nazareth e dei villaggi arabi circostanti.
Da lungo tempo consapevoli che i rispettivi destini sono inestricabilmente
intrecciati, queste donne hanno affrontato un duro lavoro lottando per la
giustizia e per porre fine all'oppressione, sia nei Territori Occupati sia
nello stato di Israele, poichˇ non può esservi pace nell'uno senza
che vi sia pace nell'altro. Qualsiasi sia la conseguenza politica delle
prossime settimane e mesi, queste donne sanno che la "separazione" (separazione
tra israeliani e palestinesi), che il primo ministro Barak indica come un
obiettivo nazionale, è una pericolosa semplificazione della realtà.
Come può esservi "separazione" quando gli insediamenti ebraici circondano
e soffocano città e villaggi sotto la giurisdizione dell'Autorità
Palestinese? Persino se lo stato palestinese venisse infine proclamato,
come potrebbero lavorare i palestinesi "separati" fra Nablus e Gerusalemme,
fra Tulkarem e Ramallah? Sebbene l'esplosione della violenza nei Territori
Occupati abbia prodotto rabbia e condanna da parte della maggioranza dell'opinione
pubblica di Israele, è stata la protesta degli arabi israeliani a
provocare choc e offesa. Le manifestazioni per chiedere la fine dell'eccesso
di violenza scatenata contro i palestinesi dei Territori Occupati, ai quali
sono legati dall'appartenenza etnica e religiosa, e contro la loro condizione
di cittadini israeliani di seconda classe, hanno sconvolto e fatto vacillare
lo status quo. Una donna ebrea, a cui un osservatore internazionale aveva
chiesto quali fossero i suoi sentimenti, ha risposto: "Lavoro ogni giorno
in un villaggio arabo. Ora c'è un problema. Ho finito di credere
nella coesistenza, nella pace. E gli arabi israeliani non ci credono allo
stesso modo." Alla domanda se lavorerà ancora per la pace, accenna
di s“ col capo, ma è un gesto assai poco convinto. Sono queste le
dure verità che passano nei pensieri e nei sentimenti delle donne
mentre depongono i loro striscioni di protesta - la programmata manifestazione
di un'ora si è conclusa - e passano nella "Succat Shalom" (la tenda
della pace) che hanno eretto poco distante. Questa è la seconda delle
tre serate di interventi e discussioni, un evento organizzato ogni anno
dalle donne di Bat Shalom nella Jezreel Valley. Sebbene sia sempre stato
denso di contenuto politico, Succat Shalom è per tradizione anche
un momento di festa. Capitando in una settimana in cui molti israeliani
sono in vacanza, Succat di solito trabocca di residenti della zona e di
israeliani in vacanza da Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme. Stasera c'è
solo gente del posto. A parte una piccola delegazione di attiviste di Bat
Shalom di Gerusalemme, nessun israeliano in vacanza le raggiunge. E stasera
non c'è aria di festa. Guardando le facce, osservando il linguaggio
dei corpi, si potrebbe parlare di un'atmosfera di calma tesa. Per quanto
sconvolte, le donne non esprimono la paura e l'angoscia con grida o litigi.
Invece si raccolgono - una donna araba velata vicino a un vecchio ebreo
- in attesa di ascoltare il primo intervento. Il suo nome è Arrabia.
Residente a Nazareth e cittadina di Israele, le sue parole sono un misto
di tristezza e angoscia. Mentre Arrabia parla, tutti guardano i grandi poster
appesi all'interno della tenda. Sono pieni delle foto e degli articoli sui
quattordici arabi israeliani uccisi nelle ultime due settimane. Diversamente
da quel che accade nei reportage della tv israeliana, qui i morti arabi
hanno un nome: Inazaret Inesrink Jourmalfa Alannasser Jaber. Ci si potrebbe
chiedere: dove sono le fotografie e le storie degli ebrei uccisi? Sono certamente
note, ripetute continuamente dalla tv e dai giornali. Ma non è la
saturazione dei loro nomi nei media che ha provocato la decisione di non
includerli in questa tenda di pace. Le donne di Bat Shalom nella Jezreel
Valley hanno scelto gli arabi esclusivamente perchˇ sono accomunati da una
particolare condizione: solo loro sono stati uccisi dalla polizia e dalle
forze di sicurezza. Cittadini di Israele, come gli ebrei caduti, ma diversamente
dagli ebrei solo loro sono stati selezionati per l'aggressione da parte
di uno stato che esiste per proteggerli. Un tale crimine sembra impensabile
in una democrazia di tipo occidentale. Si verificano violente proteste anche
nel Nord America e in Europa, ma le forze di sicurezza mandate a contenere
la violenza riescono a farlo senza uccidere i propri concittadini. Bisogna
tornare indietro più di 30 anni (gli ultimi anni 60 e i primi 70)
per trovare democrazie occidentali cos“ minacciate dai propri cittadini.
Ma, con questa digressione, stiamo dimenticando le appassionate parole di
Arrabia: "Quando i bambini di questa Intifada lanciano pietre, le pietre
sono come messaggi infilati nelle bottiglie e inviati a persone lontane.
Apri la bottiglia e leggi il messaggio. Leggi il messaggio adesso. Per il
tuo stesso bene. Ho soltanto otto o dieci o quindici anni. Se mi uccidi
con le tue pallottole, l'immagine di me che cado, ferito, che muoio all'ospedale
o al checkpoint resterà con te, tormentandoti ogni giorno della tua
vita Siamo donne. Noi diamo la vita a questi bambini. Dobbiamo porre fine
a questa follia. Tocca a noi dire basta. Gli uomini non lo faranno mai."
I discorsi di altre donne seguono quello di Arrabia. Ebree israeliane, arabe
israeliane. Sono voci di attiviste, di parlamentari, di madri. Sono tutte
colme di angoscia e confusione, e sorprendentemente di speranza. Speranza
perchˇ, a dispetto della guerra non ufficiale e asimmetrica scatenata fra
i loro due popoli, ogni donna ha preso la decisione di venire stasera, a
questa celebrazione annuale di coesistenza e di pace. A volte il semplice
gesto di prendere l'auto o il bus è un potente gesto di sfida. Noi,
le donne, non lasceremo distruggere il nostro futuro e il futuro dei nostri
figli. Non lasceremo trionfare il razzismo. Mentre la sera finisce, le donne
che si conoscono da cinque, dieci anni, o forse da più tempo, si
dicono reciprocamente buonanotte. Forse perchˇ hanno avuto la possibilità
di esprimere le proprie opinioni liberamente, forse perchˇ ora è
davvero tardi, ma la tensione di prima sembra dissipata. C'è vera
familiarità nei saluti. Alcune si mettono a preparare la tenda per
il raduno di domani. Una donna sta raccogliendo i poster per la protesta
silenziosa di domani sera all'incrocio dell'autostrada. In una mano tiene
uno striscione con la scritta "Abbiamo già vissuto la guerra". Nell'altra
una rosa rossa.
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