CHIEDIAMO LA PROTEZIONE INTERNAZIONALE PER IL POPOLO PALESTINESE

IO, DONNA VADO IN PALESTINA
Interposizione nonviolenta in difesa della popolazione civile
Per il diritto alla vita, terra, liberta del popolo palestinese
Per la pace tra israeliani e palestinesi

Iniziative con donne palestinesi e israeliane e altro organizzato dalle Donne in Nero - Donne Associazione per la pace-prossimi gruppi in partenza Sabato 30 dicembre - Sabato 6 gennaio e cosi via fino a quando sara' possibile-per iscrizioni e informazioni: LUISA MORGANTINI TEL. 0348-3921465- SEGRETERIA 06-69950217-FAX 06-69950200-EMAIL   lmorgantini@europarl.eu.int



 Ieri sera abbiamo ricevuto la seguente lettera da Filippo Landi, giornalista Rai, in merito alle affermazioni fatte durante un servizio del TG.

 "In riferimento alla vostra lettera del 2 gennaio ho ritrovato la  fonte della notizia sulle dichiarazioni di  Barghouti. E'  un flash di agenzia di stampa AGI/EFE. Nella versione italiana delle 19:27 del 1 gennaio 2001 da Ramallah si legge: (" L'esercito di Fatah tagliera' la mano a chi sottoscrivera' un trattato che tolga ai profughi il diritto di rientrare nelle proprie case o che comprometta lo status di Gerusalemme come capitale dello stato palestinese", ha  dichiarato Barghouti durante le celebrazioni per il 36anniversario della fondazione di Fatah.) Riguardo al mostrare i giovani incappucciati sarebbe stato nostro desiderio mostrarli a viso scoperto, prima della marcia. L'operatore del Tg1 e' stato invece invitato, insieme ad altri operatori, a non riprendere quel momento. Per quanto riguarda il Tg1 ho mostrato anche la presenza nel corteo di donne a viso scoperto e di bambini in festa con le bandierine in mano lungo il corteo. Inoltre ho cercato di far comprendere il motivo di quei volti incappucciati: cioe' la volonta' di non fornire alla polizia israeliana la possibilita' di identificarli. Per aver detto  questo sono stato accusato da persone israeliane di aver cercato una giustificazione non vera. Io invece ho ribadito loro la mia interpretazione, fondata  sul mio lavoro. Credo anche che l'aver manifestato questa interpretazione abbia fatto comprendere che in quella marcia c'erano anche giovani  timorosi della propria incolumita', e non per questo pericolosi terroristi.

Un cordiale saluto , Filippo Landi

" Ringraziamo Landi per le precisazioni. Scoperta la fonte della notizia ci rimane la curiosita' del perche' altri grandi organi di informazione internazionali non l'abbiano ripresa. L'AGI e' anch'essa un'agenzia italiana che ha tradotto un lancio della EFE, agenzia spagnola. A questo punto non ci resta che chiedere al diretto interessato, Marwan Barghouti, se conferma di aver detto quella frase. Ma questo e' solo un aspetto di un ragionamento piu' ampio che vorremmo condividere con chi pazientemente ci legge. Quello sulla rappresentazione che i massmedia (italiani in questo caso ma non solo) stanno dando dell'Intifada di Al Aqsa o, come la chiamano i palestinesi, di un momento della rivoluzione palestinese o lotta di liberazione. Il problema non e' quello di far vedere gli "incappucciati" mentre mettono il cappuccio ( ci mancherebbe altro, gia' gli israeliani hanno fatto fuori con azioni di commandos diversi attivisti politici, tra cui un sicuro pacifista e impegnato nel dialogo, Tabeh Tabeh, come ha affermato il gruppo israeliano Peace Now, notoriamente non estremista) ma di mostrare chiaramente che a fianco di chi sfila con il volto coperto ( per motivi di sicurezza) e le armi, ci sono, e sono la maggioranza, civili, donne, anziani e giovani assolutamente disarmati. Cosa ben diversa ad esempio delle manifestazioni dei coloni israeliani, dove di armi ce ne sono molte ma molte di piu', visto che ognuno puo' possederne quante ne vuole. Non solo noi, che guardiamo le TV via satellite, ma amici dall'Italia ci parlano di servizi video dove appaiono solo palestinesi armati, bandiere bruciate, bare con la stella di David e via dicendo. Ripetendo spesso immagini dei giorni precedenti quando non c'e' materiale "di giornata". Ma non abbiamo mai visto, durante il commento ad un'esplosione a Netanya o Tel Aviv, scorrere le immagini degli israeliani che mostrano le armi o si gettano nella caccia all'arabo come successo a Nazareth o a Gerusalemme Ovest. Chi non conosce il popolo palestinese che idea se ne fa ? Se chiedessimo l'opinione dei vari signori Rossi, Bianchi o Esposito, secondo voi cosa risponderebbero ? Che vedono un popolo estremista,barbaro, guerrafondaio, intollerante, violento e via di questo passo, o no ?. Questo e' corretto giornalismo, caro Landi ? O il giornalismo e' portavoce della Albright che continua a dire che sono i palestinesi a dover fermare la violenza ? Non sappiamo se i servizi che vengono inviati a Roma siano diversi, conosciamo quelli che vengono trasmessi. E agli israeliani che telefonano consiglieremmo di leggere almeno l'articolo che riportiamo di seguito. O di leggere anche solo alcuni articoli pubblicati su Ha'aretz, giornale non estremista e filo-palestinese ma israeliano. Il dramma del popolo palestinese e' fatto di case abbattute e bruciate, donne uccise nella loro casa, umiliazioni, fame, impedimenti indiscriminati ai movimenti, coprifuoco, bambini uccisi o resi invalidi, privazioni quotidiane, vessazioni, assenza di servizi essenziali, tentativi di sopravvivere, disoccupazione. Il giornalismo dovrebbe raccontare quanto succede non prendere posizione o sposare una parte. Domani sara' una giornata dura per Gerusalemme. Migliaia di coloni, fondamentalisti e rappresentanti della destra israeliana da tutta Israele andranno a manifestare intorno alle mura della citta' vecchia, occupata nel 1967. Una manifestazione fortemente provocatoria in un luogo dove ai palestinesi residenti in citta' e' sempre vietato manifestare e anche pregare. Saremo sul posto e poi davanti alla TV per sapere cosa si dira'. Ma occorrerebbe raccontare anche delle piscine e dei prati verdi degli insediamenti israeliani nei Territori Occupati, mettendoli a confronto in un'unica immagine con le baracche e le fogne a cielo aperto dei campi profughi. Sarebbe interessante mostrare le immagini diffuse da altre televisioni sui pestaggi dei palestinesi da parte dei soldati, sul fuoco a sangue freddo verso chi e' disarmato (il video dell'Associated Press da Hebron e' stato trasmesso in Italia ? ), dei blocchi di cemento e terra che circondano i villaggi e cosi' via. Non vogliamo una televisione filo palestinese ma non la vogliamo neanche filo israeliana o anti palestinese. Vorremmo un giornalismo che tenti di essere imparziale lasciando ai telespettatori il giudizio su chi siano i buoni e chi i cattivi. E i fatti, tutti i fatti, parlerebbero da soli.

 Su il Manifesto del 2 gennaio e' stato pubblicato questo articolo che rilanciamo per chi non legge quel quotidiano
In Palestina, per vedere con i nostri occhi...
SVEVA HAERTTER 


Nel 1987 all'inizio dell'Intifada, Franco Lattes Fortini pubblicò su il manifesto una lettera aperta agli ebrei della diaspora esortandoli a schierarsi subito o a tacere per sempre. Ricordo di essermi offesa e arrabbiata. Ora credo di aver capito quello che Fortini voleva dire. Ho capito anche che oggi proprio io avevo una ragione in più per andare in Palestina a vedere con i miei occhi cosa sta succedendo. Una ragione molto semplice, quella di essere ebrea, di avere quindi il dovere morale di dire che non voglio che qualcuno possa dire e fare tutto questo in mio nome, che non voglio che vengano negati i diritti del popolo palestinese per garantire a me un "diritto del ritorno" del quale non intendo usufruire, per garantire il quale questo stesso diritto viene negato ai profughi palestinesi, molti dei quali sono nati in quella terra, mentre le mie origini si perdono nei secoli se non nei millenni.
Sono stata lì una settimana aderendo all'appello "Io donna vado in Palestina" e sono atterrita. Situazioni come Hebron o Gaza non si possono immaginare, bisogna vederle per rendersi conto. C'è un'occupazione militare brutale, una sistematica e continua negazione dei diritti più elementari a partire da quello di avere cibo e acqua, di andare a scuola o al lavoro, in ospedale a farsi curare, a non morire di parto mentre si è intrappolati in una interminabile coda davanti ai check-point dei militari israeliani, di circolare per le strade della propria città, di farci giocare i propri bambini, di andare da un posto all'altro con la propria macchina, di dormire tranquillamente nella propria casa. Una violenza che si rivolge contro tutti e tutto, compresi gli alberi, i serbatoi d'acqua potabile, le case e le strade.

Ero già stata in Israele nel 1993. Non avevo visto niente di particolare, ma è bastata l'onnipresenza dei soldati e tutti quei mitra a farmi aprire gli occhi, vedere l'ingiustizia, la militarizzazione, la negazione dei diritti di un intero popolo per affermare quelli di uno stato che di fatto su tale negazione fondava la propria esistenza, il rapporto assurdo tra stato e religione, una trappola in cui io stessa ero in qualche modo caduta e dalla quale non è semplice liberarsi. Una trappola in cui certa sinistra europea, sempre più incline alle semplificazioni ed agli schematismi, spesso è la prima a cadere senza nemmeno rendersene conto e che provoca una duplice reazione: da un lato non si distingue più tra Israele e gli ebrei e facilmente si scivola nell'antisemitismo più rozzo ed ottuso, dall'altro per paura di accuse di antisemitismo si tende a non affrontare il problema come sarebbe necessario, ovvero facendo rispettare le risoluzioni internazionali e intervenendo con sanzioni, pressioni politiche ed economiche, interposizione di forze di pace internazionali indifesa del popolo palestinese.

Chiunque vada oggi in Palestina non può non vedere che il processo di pace avviato ad Oslo non ha più sbocchi ed è anzi in buona parte causa del fatto che si sia determinata questa situazione insostenibile, non può non capire che l'unico modo per dare una risposta alle legittime aspettative del popolo palestinese è il ritiro completo ed incondizionato dai territori occupati nel 1967 (compresa Gerusalemme est), il diritto al ritorno ed al risarcimento per i profughi, lo smantellamento degli insediamenti dei coloni, il riconoscimento dello stato palestinese. Aspettative che negli ultimi sette anni sono state deluse, frustrate e calpestate; la reazione era prevedibile quanto inevitabile. Altrettanto necessario è un impegno per la democratizzazione interna e per la conseguente riconquista di credibilità da parte dell'Anp, con una leadership più laica e secolare possibile.

Anche tra gli israeliani c'è chi interviene e sostiene fino in fondo la causa del popolo palestinese. Vengono arrestati se si rifiutano di fare il servizio militare, denunciati e interrogati dalla polizia per i loro slogan. Non hanno agibilità democratica, ma in un paese governato in larga misura da ex-generali e da religiosi, la democrazia fatica ad esistere, è quanto meno incompiuta o almeno sospesa. Le politiche messe in atto ricordano più il colonialismo becero di vecchio stampo che non una democrazia occidentale. Anche questo pesa sulla disparità delle parti nelle trattative.

C'è un meccanismo perverso in base al quale l'aggressore trova un rifugio sicuro nel ruolo di eterna vittima della storia anche quando non lo è affatto. Shoah (Olocausto) e Nakbha (Catastrofe) non sono la stessa cosa, non lo saranno mai. Chi lo dice commette un errore storico e da un punto di vista politico dice una bestialità. Ciò non toglie che se della prima gli ebrei in quanto tali sono stati la vittima per eccellenza, della seconda il sionismo ed i suoi seguaci sono i principali responsabili. Dopo la Shoah il mondo ha riconosciuto agli ebrei il diritto ad un loro stato ed ha favorito e sostenuto la nascita di Israele, la Nakbha a tutt'oggi non ha dato luogo a nulla di simile. Si è invece innescato un circolo vizioso in base al quale i palestinesi e più in generale gli arabi vengono da sempre identificati con quei nemici dai quali gli ebrei nel corso dei secoli sono fuggiti cercando rifugio in Palestina. Per uscirne bisogna partire dalla chiarezza e dall'affermazione della verità storica. La conseguenza non può che essere l'assunzione di responsabilità ed il riconoscimento del diritto del popolo palestinese ad un proprio stato. Se invece non sciogliamo questo nodo, volenti o nolenti, la responsabilità di quanto è accaduto allora e di quanto accade oggi ricade comunque indistintamente su tutti noi. La comunità ebraica tedesca ha annunciato che gli ebrei in Germania non si sentono al sicuro. Hanno ragione, dell'Austria nemmeno a parlarne e questo clima rischia di essere contagioso. Ma fuggire dall'oppressione e dalla discriminazione per andare ad opprimere e discriminare qualcun altro non può essere una soluzione.

Se, senza nulla togliere alla drammaticità della nostra storia, riuscissimo a ri-ragionarne gli sviluppi e gli esiti nel contesto della storia del popolo palestinese, potremmo uscire da questo vicolo cieco ed eliminare la prima e forse principale disparità che pesa sul percorso verso una pace giusta. Diventerebbe chiaro anche perché le colone di Hebron, che mentre sfilavamo in corteo ci hanno insultato chiamandoci nazisti, offendono i morti della Shoah quanto chi nega che sia avvenuta o cerca di sminuirne la gravità. Sarebbe importante riuscire a ragionare anche di questo tra noi e con tutti gli altri. 

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