CHIEDIAMO LA PROTEZIONE INTERNAZIONALE PER IL POPOLO PALESTINESE

2 DICEMBRE 2000
IO, DONNA VADO IN PALESTINA
Interposizione nonviolenta in difesa della popolazione civile
Per il diritto alla vita, terra, liberta del popolo palestinese
Per la pace tra israeliani e palestinesi

Iniziative con donne palestinesi e israeliane e altro organizzato dalle Donne in Nero - Donne Associazione per la pace-prossimi gruppi in partenza Sabato 30 dicembre - Sabato 6 gennaio e cosi via fino a quando sara' possibile-per iscrizioni e informazioni: LUISA MORGANTINI TEL. 0348-3921465- SEGRETERIA 06-69950217-FAX 06-69950200-EMAIL   lmorgantini@europarl.eu.int



27 dicembre - 3 gennaio Delegazione di solidarieta' - Assopace -Piattaforma ONG italiane per la Palestina e altri - informazioni:06 8841958

SOLIDARIETA' e TUTTO IL NOSTRO AFFETTO al collettivo de il manifesto. 

In questa Lettera:
Striscia di Gaza
Gush Shalom
Dalle donne in nero

FINO AL 21 DICEMBRE : 298 MORTI PALESTINESI

DALLA STRISCIA DI GAZA
Abbiamo avuto conferma. La centrale di desalinizzazione dell'acqua a Khan Younis colpita dagli israeliani, e' quella costruita con i contributi italiani. Ma e' stato colpita dai razzi solo la struttura in cemento. L'impianto non ha subito
danni.

Nei giorni scorsi Israele aveva concesso 4.000 permessi di lavoro in israele ai palestinesi di Gaza (a confronto con le decine di migliaia precedenti ). Dopo il primo giorno i palestinesi si sono rifiutati di continuare a passare il
controllo di Eretz. I soldati volevano perquisire i lavoratori anche con i cani, ben sapendo che i palestinesi hanno un rapporto con i cani assolutamente diverso da quello che conosciamo noi ( sia per paura che per motivi religiosi).
Effettivamente passando dal confine di Eretz abbiamo potuto vedere le unita' cinofile israeliane che mai avevamo visto prima.

PACIFISTI ISRAELIANI
In risposta all'appello di diverse personalita' palestinesi, Gush Shalom( Blocco per la pace-associazione israeliana) ha pubblicato  comunicato sul quotidiano israeliano Ha'aretz il 17 Novembre u.s."Gush Shalom accoglie " l'appello urgente al pubblico israeliano" firmato da Haidar Abd al Shafi, Hanan Ashrawi e molte altre personalita' palestinesi e pubblicato nell'Ha'aretz del 10/11/00. Esso dimostra che anche in questi giorni difficili nel mezzo della guerra di liberazione palestinese e' ancora forte il vostro desiderio di pace e riconciliazione.
Gush Sahlom crede che sia necessaria una stretta cooperazione fra gli Israeliani e I Palestinesi che desiderano pace e giustizia per porre fine all'occupazione e dar vita ad una pace giusta.
Gush Shalom crede, come voi, che la pace e la riconciliazione fra le nostre due genti debba essere basata su principi di uguaglianza e rispetto reciproco vale a dire:
La fine dell'occupazione di tutti I territori conquistati da Israele nella Guerra del '67
La creazione dello Stato di Palestina in tutti questi territoriI
l riconoscimento di Gerusalemme come capitale di due stati: Gerusalemme Ovest come la capitale di Israele e Gerusalemme Est come la capitale della Palestina.
Il ritiro da questi territori nello stato di Israele di tutti I coloni e I soldati
Una convenuta, giusta, morale e pratica soluzione del problema de profughi, incluso il riconoscimento da parte di Israele della sua grossa responsabilita' nella creazione di questo problema e il principio del dirittto dei rifugiati di scegliere fra il ritorno in patria e la compensazione. Gush Shalom propone la creazione di un tavolo di lavoro per il dialogo fra I cittiadini Israeliani e Palestinesi che amano la pace al fine di preparare insieme le basi per pace e riconciliazione.Gush Sahlom (Blocco per la pace)

Dalle Donne in nero  riceviamo :

Lunedì 18 dicembre

Lunedì mattina partiamo con Mike alla volta di Hebron. La strada vicino alla città è interrotta per un posto di blocco. Non si passa. Per andare ad Hebron bisogna allora prendere una specie di carrareccia intasata di auto, taxi, camion. A causa di un grande masso di cemento che sporge sulla strada si forma un ingorgo spaventoso. Ci vuole un'ora perché si sbrogli ma è evidente che è destinato a ripetersi. Così ci rendiamo conto di cosa vuol dire il controllo della strada e della mobilità da parte israeliana, di cui ci hanno parlato Mike, Amal e altri. In città incontriamo nella sede della Red Crescent Society il rappresentante locale. La Red Crescent Society ha proprie sedi ufficiali negli Stati dove opera, ma per la Palestina formalmente svolge solo un ruolo di osservatore, dal 1969. Nella situazione attuale l'organizzazione sviluppa numerose attività di carattere sociale, come la realizzazione di ospedali per i palestinesi e varie forme di assistenza. La più importante è quella legata al pronto soccorso per i casi di emergenza, ma la limitatezza di risorse finanziarie purtroppo impedisce il dispiegarsi completo degli interventi sanitari. Il responsabile ci conduce a visitare il Centro di riabilitazione per bambini e ragazzi disabili che la Red Crescent Society gestisce. E' un bel Centro, molto pulito e curato. Nell'atrio vi sono due grandi cartelloni che espongono molte foto dell'intifada. Gli ospiti del Centro non ci sono perché sono a teatro per una rappresentazione, ma la visita alle aule è interessante. Il Centro da qualche tempo funziona solo di giorno per permettere alle famiglie la sera di prendersi cura dei propri ragazzi e mantenere un rapporto con loro. Ma è la visita alla vecchia città di Hebron che facciamo subito dopo che ci segna fortemente. E' l'occupazione, la guerra, la sopraffazione che ci si apre davanti agli occhi e che ci prende tutte. Prima enormi massi che dividono la zona A dalla zona B, poi posti di blocco israeliani. E ancora soldati armati un po' dappertutto, che si mischiano a chi compra al mercato, a chi cammina e a chi lavora. Per le strade i palestinesi possono circolare solo a piedi - l'uso delle automobili per loro è interdetto. Nella città vecchia lungo le vie c'è una rete che corre tra le case all'altezza del primo piano, per riparare i palestinesi che vivono più in basso dagli oggetti e immondizie che gli israeliani che a volte abitano nel piano superiore tirano su di loro. Attorno si vedono i nuovi insediamenti di coloni, proprio vicino alle case arabe. Per 400 coloni che si sono stanziati lì ogni tanto tra quei vicoli succede il putiferio. Da un angolo scorgiamo sul tetto di una casa tanti sacchi di sabbia a protezione: sono ancora una volta i segni dell'occupazione. Da settembre i soldati hanno occupato il tetto di quella casa e di tanto in tanto invadono l'abitazione della famiglia palestinese che ci vive. E così il controllo israeliano penetra e aggredisce. Proprio accanto all'uscita dalla città vecchia c'è una strada deserta presidiata da soldati armati che difendono un palazzo abitato da israeliani. Ancora esibizione di forza, di pressione: ma quanto ancora durerà tutto ciò?

Nel pomeriggio visitiamo il campo profughi di Al Fawar, non lontano da Hebron. Arriviamo con il pulmino di Mike nei pressi del campo. Anche qui la strada ad un certo punto è sbarrata con montarozzi di terra e blocchi di cemento, con soldati armati di guardia. Dobbiamo scendere e ci mettiamo in processione con gli abitanti del campo che sono usciti a piedi (non possono usare la macchina) per andare a comprarsi oggetti vari e tornano con bombole sulle spalle e pesanti sacchi in mano. Nei pressi del posto di blocco, una jeep con intorno alcune persone affaccendate. Pochi minuti prima del nostro arrivo, i soldati hanno sparato a tutte le gomme perché la jeep stava tentando di passare, nonostante il divieto, tagliando attraverso i campi. Poco oltre, Mike viene fermato dai soldati e interrogato a lungo sui motivi della nostra presenza. Finalmente possiamo passare. Incontriamo dapprima il direttore del campo e due altri responsabili, di cui uno si occupa in particolare della gestione dell'acqua. Il direttore è un impiegato dell'UNRWA, l'organizzazione delle Nazioni Unite che sovrintende ai campi profughi palestinesi. Ci descrivono la situazione di questo campo. Ci vivono 6.500 persone, di cui oltre la metà sotto i venti anni. Vi sono due scuole, una per maschi e una per femmine, di livello elementare e secondario, con circa 1000 studenti ognuna. Dei ragazzi più grandi, 7 frequentano l'Università di Betlemme e 35 quella di Hebron. Uno dei problemi più gravi, come anche negli altri campi, è quello dell'acqua, scarsissima e razionata, e per giunta di recente anche inquinata, il che ha provocato vari casi di avvelenamento. Un altro grave problema è quello della disoccupazione, che provoca tensioni anche nel nucleo familiare. Si sono verificati casi in cui la perdita di lavoro del padre ha costretto i figli a lasciare l'Università. L'estremo affollamento del campo è un altro elemento che provoca tensione tra gli abitanti. Anche questo campo infatti è stato costruito sostituendo pian piano con strutture in muratura le iniziali tende del 1948, in uno spazio previsto per un numero di persone nettamente inferiore a quelle che vi abitano adesso. In questa bidonville, come in tutti gli altri campi, non vivono solo profughi, ma anche persone estremamente povere che non hanno altro luogo per abitare. Qui almeno non pagano tasse, e ricevono i sussidi forniti ai profughi. Si tratta di aiuti in cibo, e della possibilità di avere assistenza sanitaria semigratuita nell'ambulatorio del campo o per casi più gravi negli ospedali di città. Quelli del campo che hanno un buon lavoro e riescono a mettere da parte un po' di soldi, si comprano un pezzo di terra altrove e si costruiscono una casa. Nel campo restano quindi solo i più poveri. Chi vive nel campo, dall'inizio della nuova intifada (settembre) di giorno può uscirne solo a piedi. Dopo le cinque del pomeriggio non può uscirne in alcun modo. Visitiamo il campo. Il numero di bambini è molto alto. Sono simpatici e ci seguono nel nostro giro. Non appaiono tristi. Ma la sera Djalla ci racconterà che i bambini di oggi sono molto più "amari" di quelli del tempo della prima intifada. E' questo il campo in cui di recente sono stati uccisi due ragazzi, uno di loro mentre telefonava da una cabina, colpito da un proiettile sparato con un fucile di precisione da un vicino insediamento di coloni. Le "case" sono baracche in muratura, le famiglie per lo più vivono in un'unica stanza, in uno spazio che varia dagli 8 ai 15 mq. a famiglia. Il degrado e lo squallore sono grandi. Si ha l'impressione che in questi 50 anni la situazione sia solo peggiorata. Non esistono nemmeno contenitori per la raccolta dei rifiuti, sparsi per terra qua e là. Usciti dal campo ci affrettiamo ad oltrepassare lo sbarramento, perché è quasi l'ora del coprifuoco e Mike percepisce un momento di tensione fra i soldati.

La sera in albergo ci viene a trovare Djalla ….. .

Lavora come volontaria presso l' Orient House per il recupero dei tossicodipendenti e dei ragazzi in difficoltà, e cura la raccolta di fondi per organizzazioni specifiche che si occupano della riabilitazione dei ragazzi rimasti disabili a seguito di ferite riportate nell'intifada. Djalla non ci parla del suo lavoro. Ma della sua esperienza di donna palestinese colta e benestante impegnata nella prima e nell'attuale intifada. Ci offre testimonianza di madre di tre figli nella Palestina occupata. Vive a Gerusalemme, da sempre. Il figlio più grande ha 30 anni, la più piccola 11. Ma ancora oggi le autorità amministrative israeliane negano alla bimba l'iscrizione all'anagrafe di Gerusalemme. E' ancora un altro volto dell'oppressione. Così come il rifiuto oppostole da tutti quando ha tentato di prendere in affitto una casa a Gerusalemme Ovest. Anche Djalla ci dice della differenza tra la prima e l'attuale intifada, e della minore possibilità di protagonismo delle donne in questa, ma lei comunque, convinta fino in fondo che sia una strada obbligata, non si tira indietro. Anche lei ci descrive le continue prevaricazioni, provocazioni e violenzedei soldati e dei coloni verso i palestinesi. E a proposito dei genitori che manderebbero i propri figli bambini a farsi uccidere dai soldati, ci dice che i militari vanno in forze davanti alle scuole all'ora di uscita, ben sapendo che facilmente qualche ragazzino può tirar loro un sasso, e ne traggono subito occasione per sparare. Ci racconta della sua presa di coscienza sulla questione dei profughi quando, bambina di sette anni di buona famiglia, in vacanza d'estate nella fattoria della nonna vicino a Gerico, svegliandosi un pomeriggio le è apparsa come in sogno la visione di una colonna di gente che si trascinava a piedi nei campi con le proprie cose. E di quella di suo figlio, che a tre anni, mentre attraversava con lei un ponte sul Giordano, si era divincolato e ribellato urlando ad un soldato di un posto di blocco che in pieno inverno pretendeva di spogliarlo per un controllo. Il soldato aveva desistito, ma a lui anche da grande è rimasta la voglia di "spogliare un israeliano". Djalla sogna ancora di un tempo non poi così lontano, all'inizio del secolo, quando in quell'area Turchi, Circassi, Armeni, Ebrei, Cristiani, Arabi, vivevano tutti insieme, e per lei sarebbe anche possibile ancora oggi la convivenza con gli Israeliani in un solo Stato. Ma se ogni giorno gli Israeliani confiscano terre, bruciano case, uccidono bambini, tagliano l'acqua, bloccano strade chiudendo l'accesso ai paesi, se la violazione dei diritti dei Palestinesi e di tutti gli accordi siglati finora è talmente enorme, qualunque nuovo accordo e compromesso deve avere al centro la questione dei diritti dei Palestinesi. E ci racconta della madre di un ragazzo ucciso con un colpo alla nuca mentre soccorreva un compagno, ferito forse per aver tirato un sasso. Rifiutando le condoglianze che Djalla le portava, questa donna le aveva detto "Io voglio solo sapere chi ha ucciso mio figlio, e sono disposta ad aspettare 50 anni, come è stato necessario per portare in tribunale i criminali nazisti". Djalla ci chiede solo di raccontare in Italia quello che abbiamo visto: le donne, dice, hanno una maggiore capacità di persuasione. Ci proveremo, cercheremo di dar valore e senso a questa nostra esperienza di donne con le proprie individualità e differenze, anche se di fronte ad un dramma simile ci sentiamo molto piccole. Djalla ci ringrazia, sente importantissima la solidarietà e la speranza che le comunichiamo con la nostra presenza qui, ci abbraccia molto commossa e la sua commozione ci contagia.

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