CHIEDIAMO
LA PROTEZIONE INTERNAZIONALE PER IL POPOLO PALESTINESE
2 DICEMBRE 2000 IO, DONNA VADO IN PALESTINA Interposizione nonviolenta in difesa della popolazione civile Per il diritto alla vita, terra, liberta del popolo palestinese Per la pace tra israeliani e palestinesi Iniziative con donne palestinesi e israeliane e altro organizzato dalle Donne in Nero - Donne Associazione per la pace-prossimi gruppi in partenza Sabato 30 dicembre - Sabato 6 gennaio e cosi via fino a quando sara' possibile-per iscrizioni e informazioni: LUISA MORGANTINI TEL. 0348-3921465- SEGRETERIA 06-69950217-FAX 06-69950200-EMAIL lmorgantini@europarl.eu.int 27
dicembre - 3 gennaio Delegazione di solidarieta' - Assopace -Piattaforma
ONG italiane per la Palestina e altri - informazioni:06 8841958 Lunedì 18 dicembre Lunedì mattina partiamo con Mike alla volta di Hebron. La strada vicino alla città è interrotta per un posto di blocco. Non si passa. Per andare ad Hebron bisogna allora prendere una specie di carrareccia intasata di auto, taxi, camion. A causa di un grande masso di cemento che sporge sulla strada si forma un ingorgo spaventoso. Ci vuole un'ora perché si sbrogli ma è evidente che è destinato a ripetersi. Così ci rendiamo conto di cosa vuol dire il controllo della strada e della mobilità da parte israeliana, di cui ci hanno parlato Mike, Amal e altri. In città incontriamo nella sede della Red Crescent Society il rappresentante locale. La Red Crescent Society ha proprie sedi ufficiali negli Stati dove opera, ma per la Palestina formalmente svolge solo un ruolo di osservatore, dal 1969. Nella situazione attuale l'organizzazione sviluppa numerose attività di carattere sociale, come la realizzazione di ospedali per i palestinesi e varie forme di assistenza. La più importante è quella legata al pronto soccorso per i casi di emergenza, ma la limitatezza di risorse finanziarie purtroppo impedisce il dispiegarsi completo degli interventi sanitari. Il responsabile ci conduce a visitare il Centro di riabilitazione per bambini e ragazzi disabili che la Red Crescent Society gestisce. E' un bel Centro, molto pulito e curato. Nell'atrio vi sono due grandi cartelloni che espongono molte foto dell'intifada. Gli ospiti del Centro non ci sono perché sono a teatro per una rappresentazione, ma la visita alle aule è interessante. Il Centro da qualche tempo funziona solo di giorno per permettere alle famiglie la sera di prendersi cura dei propri ragazzi e mantenere un rapporto con loro. Ma è la visita alla vecchia città di Hebron che facciamo subito dopo che ci segna fortemente. E' l'occupazione, la guerra, la sopraffazione che ci si apre davanti agli occhi e che ci prende tutte. Prima enormi massi che dividono la zona A dalla zona B, poi posti di blocco israeliani. E ancora soldati armati un po' dappertutto, che si mischiano a chi compra al mercato, a chi cammina e a chi lavora. Per le strade i palestinesi possono circolare solo a piedi - l'uso delle automobili per loro è interdetto. Nella città vecchia lungo le vie c'è una rete che corre tra le case all'altezza del primo piano, per riparare i palestinesi che vivono più in basso dagli oggetti e immondizie che gli israeliani che a volte abitano nel piano superiore tirano su di loro. Attorno si vedono i nuovi insediamenti di coloni, proprio vicino alle case arabe. Per 400 coloni che si sono stanziati lì ogni tanto tra quei vicoli succede il putiferio. Da un angolo scorgiamo sul tetto di una casa tanti sacchi di sabbia a protezione: sono ancora una volta i segni dell'occupazione. Da settembre i soldati hanno occupato il tetto di quella casa e di tanto in tanto invadono l'abitazione della famiglia palestinese che ci vive. E così il controllo israeliano penetra e aggredisce. Proprio accanto all'uscita dalla città vecchia c'è una strada deserta presidiata da soldati armati che difendono un palazzo abitato da israeliani. Ancora esibizione di forza, di pressione: ma quanto ancora durerà tutto ciò? Nel pomeriggio visitiamo il campo profughi di Al Fawar, non lontano da Hebron. Arriviamo con il pulmino di Mike nei pressi del campo. Anche qui la strada ad un certo punto è sbarrata con montarozzi di terra e blocchi di cemento, con soldati armati di guardia. Dobbiamo scendere e ci mettiamo in processione con gli abitanti del campo che sono usciti a piedi (non possono usare la macchina) per andare a comprarsi oggetti vari e tornano con bombole sulle spalle e pesanti sacchi in mano. Nei pressi del posto di blocco, una jeep con intorno alcune persone affaccendate. Pochi minuti prima del nostro arrivo, i soldati hanno sparato a tutte le gomme perché la jeep stava tentando di passare, nonostante il divieto, tagliando attraverso i campi. Poco oltre, Mike viene fermato dai soldati e interrogato a lungo sui motivi della nostra presenza. Finalmente possiamo passare. Incontriamo dapprima il direttore del campo e due altri responsabili, di cui uno si occupa in particolare della gestione dell'acqua. Il direttore è un impiegato dell'UNRWA, l'organizzazione delle Nazioni Unite che sovrintende ai campi profughi palestinesi. Ci descrivono la situazione di questo campo. Ci vivono 6.500 persone, di cui oltre la metà sotto i venti anni. Vi sono due scuole, una per maschi e una per femmine, di livello elementare e secondario, con circa 1000 studenti ognuna. Dei ragazzi più grandi, 7 frequentano l'Università di Betlemme e 35 quella di Hebron. Uno dei problemi più gravi, come anche negli altri campi, è quello dell'acqua, scarsissima e razionata, e per giunta di recente anche inquinata, il che ha provocato vari casi di avvelenamento. Un altro grave problema è quello della disoccupazione, che provoca tensioni anche nel nucleo familiare. Si sono verificati casi in cui la perdita di lavoro del padre ha costretto i figli a lasciare l'Università. L'estremo affollamento del campo è un altro elemento che provoca tensione tra gli abitanti. Anche questo campo infatti è stato costruito sostituendo pian piano con strutture in muratura le iniziali tende del 1948, in uno spazio previsto per un numero di persone nettamente inferiore a quelle che vi abitano adesso. In questa bidonville, come in tutti gli altri campi, non vivono solo profughi, ma anche persone estremamente povere che non hanno altro luogo per abitare. Qui almeno non pagano tasse, e ricevono i sussidi forniti ai profughi. Si tratta di aiuti in cibo, e della possibilità di avere assistenza sanitaria semigratuita nell'ambulatorio del campo o per casi più gravi negli ospedali di città. Quelli del campo che hanno un buon lavoro e riescono a mettere da parte un po' di soldi, si comprano un pezzo di terra altrove e si costruiscono una casa. Nel campo restano quindi solo i più poveri. Chi vive nel campo, dall'inizio della nuova intifada (settembre) di giorno può uscirne solo a piedi. Dopo le cinque del pomeriggio non può uscirne in alcun modo. Visitiamo il campo. Il numero di bambini è molto alto. Sono simpatici e ci seguono nel nostro giro. Non appaiono tristi. Ma la sera Djalla ci racconterà che i bambini di oggi sono molto più "amari" di quelli del tempo della prima intifada. E' questo il campo in cui di recente sono stati uccisi due ragazzi, uno di loro mentre telefonava da una cabina, colpito da un proiettile sparato con un fucile di precisione da un vicino insediamento di coloni. Le "case" sono baracche in muratura, le famiglie per lo più vivono in un'unica stanza, in uno spazio che varia dagli 8 ai 15 mq. a famiglia. Il degrado e lo squallore sono grandi. Si ha l'impressione che in questi 50 anni la situazione sia solo peggiorata. Non esistono nemmeno contenitori per la raccolta dei rifiuti, sparsi per terra qua e là. Usciti dal campo ci affrettiamo ad oltrepassare lo sbarramento, perché è quasi l'ora del coprifuoco e Mike percepisce un momento di tensione fra i soldati. La sera in albergo ci viene a trovare Djalla ….. . Lavora come volontaria
presso l' Orient House per il recupero dei tossicodipendenti e dei ragazzi in
difficoltà, e cura la raccolta di fondi per organizzazioni specifiche
che si occupano della riabilitazione dei ragazzi rimasti disabili a seguito
di ferite riportate nell'intifada. Djalla non ci parla del suo lavoro. Ma della
sua esperienza di donna palestinese colta e benestante impegnata nella prima
e nell'attuale intifada. Ci offre testimonianza di madre di tre figli nella
Palestina occupata. Vive a Gerusalemme, da sempre. Il figlio più grande
ha 30 anni, la più piccola 11. Ma ancora oggi le autorità amministrative
israeliane negano alla bimba l'iscrizione all'anagrafe di Gerusalemme. E' ancora
un altro volto dell'oppressione. Così come il rifiuto oppostole da tutti
quando ha tentato di prendere in affitto una casa a Gerusalemme Ovest. Anche
Djalla ci dice della differenza tra la prima e l'attuale intifada, e della minore
possibilità di protagonismo delle donne in questa, ma lei comunque, convinta
fino in fondo che sia una strada obbligata, non si tira indietro. Anche lei
ci descrive le continue prevaricazioni, provocazioni e violenzedei soldati e
dei coloni verso i palestinesi. E a proposito dei genitori che manderebbero
i propri figli bambini a farsi uccidere dai soldati, ci dice che i militari
vanno in forze davanti alle scuole all'ora di uscita, ben sapendo che facilmente
qualche ragazzino può tirar loro un sasso, e ne traggono subito occasione
per sparare. Ci racconta della sua presa di coscienza sulla questione dei profughi
quando, bambina di sette anni di buona famiglia, in vacanza d'estate nella fattoria
della nonna vicino a Gerico, svegliandosi un pomeriggio le è apparsa
come in sogno la visione di una colonna di gente che si trascinava a piedi nei
campi con le proprie cose. E di quella di suo figlio, che a tre anni, mentre
attraversava con lei un ponte sul Giordano, si era divincolato e ribellato urlando
ad un soldato di un posto di blocco che in pieno inverno pretendeva di spogliarlo
per un controllo. Il soldato aveva desistito, ma a lui anche da grande è
rimasta la voglia di "spogliare un israeliano". Djalla sogna ancora di un tempo
non poi così lontano, all'inizio del secolo, quando in quell'area Turchi,
Circassi, Armeni, Ebrei, Cristiani, Arabi, vivevano tutti insieme, e per lei
sarebbe anche possibile ancora oggi la convivenza con gli Israeliani in un solo
Stato. Ma se ogni giorno gli Israeliani confiscano terre, bruciano case, uccidono
bambini, tagliano l'acqua, bloccano strade chiudendo l'accesso ai paesi, se
la violazione dei diritti dei Palestinesi e di tutti gli accordi siglati finora
è talmente enorme, qualunque nuovo accordo e compromesso deve avere al
centro la questione dei diritti dei Palestinesi. E ci racconta della madre di
un ragazzo ucciso con un colpo alla nuca mentre soccorreva un compagno, ferito
forse per aver tirato un sasso. Rifiutando le condoglianze che Djalla le portava,
questa donna le aveva detto "Io voglio solo sapere chi ha ucciso mio figlio,
e sono disposta ad aspettare 50 anni, come è stato necessario per portare
in tribunale i criminali nazisti". Djalla ci chiede solo di raccontare in Italia
quello che abbiamo visto: le donne, dice, hanno una maggiore capacità
di persuasione. Ci proveremo, cercheremo di dar valore e senso a questa nostra
esperienza di donne con le proprie individualità e differenze, anche
se di fronte ad un dramma simile ci sentiamo molto piccole. Djalla ci ringrazia,
sente importantissima la solidarietà e la speranza che le comunichiamo
con la nostra presenza qui, ci abbraccia molto commossa e la sua commozione
ci contagia. |