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IN MULTIMEDIA STAT VIRTUS?

"L’informatica non riguarda piu’ solo il computer, è un modo di vivere. Il gigantesco computer centrale, il cosiddetto mainframe, è stato in gran parte rimpiazzato dai personal computer. Abbiamo visto i computer uscire da grandi stanze climatizzate per entrare in armadi, passare poi sulle scrivanie per finire quindi sulle nostre ginocchia e infine nelle nostre tasche".

 

Così N. Negroponte nel suo "Essere digitali". Il suo pensiero è chiarissimo: nessun aspetto della nostra vita può essere oggi considerato al di fuori della sfera d’influenza della tecnologia. E’ possibile discutere se ciò sia più un male che un bene, ma sarebbe sterile contestare questo dato di fatto. Tutti gli ambiti del lavoro, della cultura, delle attività economiche, delle relazioni, sono sempre più permeati dalle nuove tecnologie, e da queste vengono continuamente rimodellati. Per comprendere bene la situazione, bisogna prenderne atto, ma anche capire che la cultura "tradizionale", che si contrappone oggi e sta per essere soppiantata da quella "digitale", non è tanto (o non è solo) quella tipografica, quanto quella della televisione alluvionale e pervasiva. E’ con quest’ultima forma di cultura, che dal computer rischia di essere sradicata, che andranno soprattutto condotti i paragoni: invece, il libro sopravviverà all’èra del computer, ritagliandosi un proprio spazio peculiare, nel quale rimarrà insostituibile, come riconosce lo stesso Negroponte, che spiega così la scelta dello strumento libro per diffondere le sue idee:

"Stando così le cose, caro Negroponte, che senso ha un libro all’antica, che oltre tutto non ha neppure un’illustrazione? [....] La terza è una ragione più personale, vagamente ascetica. I sistemi multimediali interattivi lasciano poco spazio all’immaginazione. Come un film di Hollywood, la narrazione multimediale fornisce rappresentazioni così precise, che all’occhio della mente rimane sempre meno da fare. La parola scritta, invece, suscita immagini ed evoca metafore che traggono molto del loro significato dall’immaginazione e dalle esperienze del lettore. Quando leggete un romanzo, siete voi che date al testo buona parte del colore, del suono e del movimento. [....] E lo dice uno che non ama leggere." (ibidem)

 

Le ragioni per cui Negroponte non ama leggere vanno ricondotte a una situazione di handicap: una dislessia che non gli ha impedito di diventare un celebre scienziato, direttore del Media Lab del MIT, e, per suo piacere, anche uno scrittore. Ma cerchiamo di meglio definire i contorni di questa prossima "èra digitale", per poterci chiedere, alla fine, se davvero l’immaginazione ne sarà penalizzata o se, anche al suo interno, potrà trovare spazi fecondi, pur senza mettere in discussione l’utilità dei libri. Cerchiamo intanto di fissare dei riferimenti al cui interno collocare ciò che è "digitale" e "multimediale".

"Digit", in inglese, significa "cifra". Il quadrante di un orologio è "digitale" quando mostra direttamente le cifre delle ore e dei minuti, mentre quello "analogico" mostra due lancette che, attraverso la loro posizione, "rappresentano" il trascorrere del tempo. Digitale può essere il display di una calcolatrice, l’indicatore di velocità di un’auto (analogico è quello a lancetta), una bilancia, un termometro. Gli strumenti digitali forniscono indicazioni o trattano dati numerici, mentre quelli analogici li rappresentano tramite variazioni continue di un parametro. La voce trasmessa per telefono o per radio è analogica, perchè i suoni risultano dalle variazioni continue della forma di un’onda. E’ la versione più attuale della contrapposizione, ben nota ai matematici, tra "continuo" e "discreto". Più precisamente, in campo informatico, ci riferiamo a ciascuna delle cifre del sistema di numerazione binario, o "binary digit", abbreviato "bit", 0 ed 1. Il gioco di parole, comprensibile solo agli anglosassoni, sta nell’altro significato di "bit", "un pezzetto", "un poco". "Just a little bit, thank you" si risponde, cortesemente, a chi chiede se vogliamo ancora un po’ di torta. Nella sua veste di cifra binaria, il bit è la più piccola unità d’informazione che un elaboratore può trattare, dato che tutti i dati che un computer può riconoscere sono sotto forma di numeri binari, lunghe sequenze di zero e uno. Naturalmente, per impartire istruzioni al computer, si utilizzano linguaggi per noi più naturali, costituiti da brevi "parole" e "frasi" che possano essere tradotte, per la macchina, in sequenze di zero e uno. I programmi del nostro PC rappresentano un altro passo in avanti: noi dialoghiamo con il calcolatore attraverso un’interfaccia, mentre i suoi "ragionamenti" ci restano nascosti. Così, mentre noi usiamo un programma, questo comunica alla macchina una serie di istruzioni da svolgere. Abbiamo già detto che i computer delle ultime generazioni sono in grado di trattare ogni genere di dati. Questo significa che possiamo, ad esempio, registrare nelle sue memorie una musica, o un’immagine, per poi riprodurla. Per farlo, esse dovranno essere analizzate, scomposte e codificate in cifre binarie, in bit. Il percorso inverso ci permetterà di riportarle al loro primitivo aspetto. Digitalizzare un suono significa prenderne dei campioni, dai quali si può ricostruire il suono intero, tanto più fedelmente quanto più i campioni sono presi in tempi ravvicinati. In un CD audio, il suono viene campionato circa 44.100 volte per secondo. Il segnale elettrico corrispondente all’andamento della pressione sonora viene codificato come una sequenza discreta (cioè, non continua) di cifre binarie. Riproducendo queste sequenze 44.100 volte al secondo, si riottiene un suono continuo, o almeno un suono che il nostro orecchio percepisce come tale, dato il brevissimo intervallo tra un impulso e il successivo. Nella registrazione, inoltre, è possibile eliminare fruscii e rumori parassiti, che erano la croce dei vecchi dischi "analogici" in vinile. Le immagini, invece, vengono scomposte in reticoli di pixels (che è l’abbreviazione di picture’s elements, ossia elementi dell’immagine). Ciascuno sarà codificato in una sequenza di bit, analogamente a una lettera dell’alfabeto, che richiede otto bit (un byte) per la codifica. Le immagini in bianco e nero possono essere rappresentate sotto forma di insiemi di pixels che convenzionalmente rappresentano una scala di toni di grigio, dal nero puro (00000000) al bianco puro (11111111), cioè, in cifre decimali, da 0 a 255. Per le immagini a colori, si considera ogni punto colorato come composto da una miscela di pixels dei tre colori fondamentali, rosso, verde e blu, ciascuno dei quali può avere una intensità che va da 0 a 255. Se per un pixel di un’immagine in BN erano sufficienti 8 bit, ora ce ne vorranno almeno 24, o 32. Naturalmente, esistono diversi sistemi di codifica; per esempio, un "file" sonoro può contenere non una vera registrazione, ma solo delle istruzioni che permettono al computer di "ricostruire" l’altezza e l’intensità del suono (sistema MIDI), magari sfruttando una "wavetable" che contiene suoni precampionati di vari strumenti; oppure si possono creare immagini complesse (programmi di grafica vettoriale) e addirittura in tre dimensioni. Per svolgere questi compiti, il computer si è arricchito di particolari dispositivi, che utilizzano, oltre le normali unità periferiche (di input, tastiera e mouse, e di output, monitor e stampante), delle periferiche "multimediali", p. es. casse di diffusione, microfono e cuffie stereo. Le "schede" audio e video, che controllano queste periferiche, sono capaci di processare, in corretto italiano di elaborare, i relativi dati, e hanno prestazioni sempre più stupefacenti. Un vero computer multimediale non può poi fare a meno di un’unità CD, capace di leggere compact-disc che contengono fino a 650 megabyte (8x650 milioni di bit) di dati (ma con i DVD si andrà molto oltre, rendendo possibile registrare interi films su un solo CD). Di per sé, il CD rappresenta solo una memoria di massa, in aggiunta a quelle a disposizione del computer, disco fisso e dischi rimovibili; la sigla CD-ROM (Read-Only Memory) sta ad indicare che i dati possono solo essere letti, ma non inseriti; esistono però già CD riscrivibili tramite un masterizzatore. Ma è l’accoppiamento tra il CD, che può contenere testi, suoni, immagini, filmati etc. e le schede e le periferiche descritte, che permette di parlare di multimedialità. E veniamo al punto. Innanzitutto, che differenza c’è tra questa accezione di multimedialità e quella proposta, ad es., da una rivista illustrata, dal cinema o dalla televisione? E quali novità positive può introdurre nella società e nella scuola? Le parole chiave sono due: digitale e interattiva. A queste se ne potranno aggiungere di volta in volta altre, in particolare per quanto riguarda le reti telematiche; ma le scopriremo a suo tempo. Continuiamo a seguire Negroponte:

"Quando incontro una persona adulta che mi racconta di aver scoperto il CD-ROM, posso arguire che ha un bambino [....] Quando invece incontro qualcuno che mi dice di aver scoperto America Online è probabile che abbia in casa un adolescente. Il CD-ROM è un libro elettronico, America Online è un mezzo per socializzare. Per i bambini sono cose entrambe ovvie, come l’aria per noi. (ibidem)

La grande diffusione degli strumenti della multimedialità tra i giovani non è solo una moda americana, ma riguarda tutti i Paesi più avanzati, dall’Inghilterra all’Australia, dalla Germania al Giappone alla Svezia. Lo stesso diremo di Internet, che in Italia ancora viene descritta come covo di pedofili e terroristi, mentre altrove è divenuta colonna portante della ricerca e della cultura, oltre che dell’educazione e della socialità. La prima grande novità è nella natura stessa del medium. La tecnologia digitale consente di produrre e trasferire rapidamente informazioni, contrapponendo i bit immateriali alla materialità degli atomi. Naturalmente, i supporti su cui sono registrati i dati sono materiali (i CD-ROM per esempio), ma, grazie all’invio di dati via rete, le cose cambiano. Negroponte (ibid.) fa un esempio illuminante:

"Non molto tempo fa, partecipavo a un seminario residenziale per dirigenti della PolyGram in Canada, a Vancouver. [Il] materiale [per il semin.] doveva essere spedito al convegno tramite corriere, sotto forma di CD audio, videocassette e CD-ROM, ossia materiale fisico imaballato, con tanto di peso e ingombro. Per sfortuna, una parte del materiale fu trattenuta in dogana. Quello stesso giorno, dalla mia stanza d’albergo, attraverso internet, io avevo scambiato senza problemi bit con il MIT e altri vari destinatari nel mondo. I miei bit, a differenza degli atomi della PolyGram, non erano stati trattenuti in dogana."

 

Inoltre, "i bit si possono mescolare facilmente" sullo stesso supporto, e a questi si possono aggiungere altri bit per etichettare e descrivere, per correggere automaticamente gli errori (p.es. i disturbi in un brano musicale o le macchie su una foto). Libri e riviste illustrate, oltre a costare il sacrificio di ingenti quantità di alberi, pesano e ingombrano; in un CD-ROM può stare comodamente un’intiera enciclopedia, con l’aggiunta di filmati, interviste e musiche d’accompagnamento. Possiamo produrre anche noi nuovi bit, molto più semplicemente che con le tecniche tradizionali. Per migliorare una foto riuscita male ci vuole grande perizia e pazienza in camera oscura, spreco di carta da stampa, oppure un buon programma di fotoritocco. E senza sporcarsi le dita con prodotti chimici. Per cinema e tv il discorso è diverso. La tv tradizionale, che è "analogica", in quanto sfrutta tecniche convenzionali per la riproduzione del suono e delle immagini, ha l’inguaribile difetto di essere un mezzo unidirezionale. Ciò riguarda non tanto la tecnologia in sé, che potrebbe essere utilizzata anche da dilettanti di pochi mezzi (e spesso videoamatori hanno realizzato servizi da far invidia agli operatori professionisti), ma il fatto che l’emissione di trasmissioni su larga scala richiede ingenti capitali ed è riservata per legge a Enti pubblici o grandi imprenditori privati. Il mezzo, poi, permette solo una scarsissima interattività (si può telefonare durante una trasmissione, o accendere le luci per votare). I programmi didattici realizzati su videocassetta sono, in genere, la riproposizione in sequenza e senza interattività di contenuti reperibili anche altrove. E’ facilissimo, invece, produrre materiale multimediale col PC e metterlo a disposizione di tutti gli utenti delle reti, sia a circuito interno (intranet), es. tra classi di una stessa scuola o di più scuole dello stesso circolo, sia all’esterno. Quanto all’interattività, questa può essere intesa in due modi diversi. Primo, la possibilità di "interagire" con il mezzo, non facendo più dipendere la nostra capacità di ricavare informazioni (quindi l’apprendimento) da un canovaccio fissato a priori dall’autore, ma scegliendo un percorso autonomo, che può variare da persona a persona e da momento a momento, a seconda delle esigenze dell’utente. Ciò significa ribaltare la logica che sta alla base della cultura come oggi è intesa: non più erogazione dall’alto, ma un attingere direttamente, creando per così dire la strada mentre la si percorre (come diceva Machado: "Caminante, no hay camino... al andar se hace el camino"). E’ la logica degli ipertesti e degli ipermedia. Ma c’è dell’altro: attraverso convertitori analogico-digitali è ora possibile utilizzare, per interagire col computer, non solo la tastiera o la voce, ma anche i movimenti del corpo. Le applicazioni possibili vanno da un codice di gesti per i non udenti, a un codice misto che consiste nell’accoppiare la voce alla labiolettura, fino all’uso dei movimenti del corpo per generare melodie e ritmi, con un possibile impatto ancora tutto da valutare sull’educazione all’espressione corporea e alla danza. Ne riparleremo nel IV capitolo. Secondo aspetto, ma forse più importante: interagire attraverso il mezzo, cioè comunicare con altri sfruttando le possibilità offerte dalle tecnologie digitali. Sarà questo il principale argomento del III capitolo; al termine del presente, invece, si cercherà di mostrare come quest’ultima sia la vera strada per una multimedialità "matura" e veramente innovativa. Per quanto riguarda l’ipertesto e gli ipermedia, di cui tanto si parla, diremo subito che sono stati rilanciati e messi veramente alla portata di tutti da una particolare tecnologia che ha trovato applicazione sulla parte forse più conosciuta di internet: il WWW (worldwide web, vedi cap.III). Sto parlando del linguaggio HTML, che consente, imparando semplici istruzioni, di "scrivere" dal nulla splendide presentazioni multimediali contenenti testo, immagini, suoni. Un file HTML non è altro che un semplicissimo file di testo, con in più delle istruzioni di formattazione (cioè sul "formato" del documento, sulla posizione dei blocchi di testo e delle immagini, etc.), sotto forma di "tags", cioè marcatori, che dicono al programma come visualizzare quel documento. Le indicazioni sono contenute tra i segni <>. Ad esempio, <head> indica l’intestazione del documento, e </head> la conclude; <body bgcolor="#000000"> è il "corpo" di un documento, che ha uno sfondo nero; <img align=center src="foto.jpg"> indica la posizione dove sistemare un’immagine, di cui si possono specificare le dimensioni; e così via. La sigla HTML sta per "HyperText Mark-up Language", cioè linguaggio di marcatura ipertestuale. Già, ipertestuale. Perché, attraverso questo linguaggio, si possono disporre, all’interno del testo, dei "links" (collegamenti) che rimandano ad altri files, che possono essere altri ipertesti, oppure files di altro genere. Il file "bersaglio" può risiedere sul vostro computer, oppure trovarsi su un computer australiano: se siete entrambi connessi attraverso internet, il gioco è fatto. La parola magica è: <a href="nome del file"> testo del link</a>, dove "a href" sta per "anchor (to) hypertext reference". I programmi in grado di interpretare questo linguaggio, i cosiddetti browsers ("sfogliapagine", da to browse), visualizzano i links come parole di colore diverso (o immagini contornate in modo diverso). Puntando il mouse su un link e "cliccando", viene lanciato il file indicato dal codice (che non è direttamente riportato nella pagina visualizzata sullo schermo). In questo modo, si possono collegare fra loro documenti multimediali diversi, formando una rete, o una "ragnatela" (web, appunto) che può estendersi fino a coprire tutto il mondo (worldwide, appunto). E’ una delle metafore favorite di internet (ma non l’unica). Esistono ovviamente altri modi, e altri programmi, per comporre ipertesti e presentazioni multimediali (NeoBook, Macromedia Director etc.); a volte, consentono risultati notevoli, ma di solito risultano di utilizzo meno immediato e semplice dell’HTML. Per chi volesse evitare anche lo sforzo di apprendere questo linguaggio, ci sono programmi capaci di realizzare documenti HTML senza farvi scrivere una sola riga di codice (Front Page, Page Mill, Hot Dog...). Un ulteriore arricchimento delle funzioni è possibile tramite il Java, che è un vero linguaggio di programmazione, e ha la caratteristica di essere "indipendente dalla piattaforma", cioè utilizzabile su diversi sistemi operativi (Windows, Macintosh, Unix, etc). Il discorso "ipertesto" ci porta dritti a internet; ma gli ipertesti, per uso didattico e non, sono all’ordine del giorno nel regno multimediale. In genere, i CD-ROM sono basati su ipertesti, o, più correttamente, sono "ipermediali" (cioè, contengono contributi multimediali richiamabili grazie a una struttura di tipo ipertestuale). La struttura di un ipertesto consente una lettura "non sequenziale", cioè la cosiddetta "navigazione" o "esplorazione" che, partendo da un punto qualsiasi, ci consente di ricercare e individuare i contenuti secondo una logica che non è necessariamente quella fissata dall’autore. Se sto visionando un CD sul risorgimento e vedo che la parola Garibaldi è evidenziata (è un link), posso decidere di proseguire nella lettura oppure cliccare Garibaldi e raggiungere, con tutta probabilità, delle note biografiche sull’eroe dei due mondi. Più in là, un pulsante mi consente, schiacciandolo, di ascoltare l’inno di Mameli o di richiamare un’intervista con uno storico che parla di Mazzini. Il bello del gioco sta nella possibilità di scelta e in una buona interattività. Un ipertesto si rappresenta, anziché con una struttura lineare, con una di tipo ramificato, ad albero, oppure "rizomatica": a partire da un punto, si possono scegliere molte direzioni diverse, procedere in avanti, ritornare su ciò che si è visto, saltare. Quali sono i limiti del gioco? Sono, in generale, i limiti fisici imposti dal supporto su cui è registrato il tutto (i 650 Mbyte di un CD-ROM); e i limiti concettuali imposti dal progetto originale, quindi dall’autore o dalla società produttrice. Prima di sviluppare questi punti, vorrei però soffermarmi su un altro aspetto, per ora futuribile, ma già in avanzata fase di sviluppo, delle tecnologie multimediali: la "realtà virtuale", un ossimoro che indica la sua natura paradossale. Al di là del fascino iniziale di queste nuove tecnologie, nelle quali la componente di meraviglia, di novità e di gioco finisce col prevalere nell'immagine, così come viene trasmessa dai media, la realtà virtuale è uno strumento di conoscenza, forse uno dei più potenti che la tecnologia ci mette a disposizione in questa fine del millennio. La realtà virtuale, o RV, è un insieme di tecniche, linguaggi di programmazione e periferiche (casco, occhiali, guanti etc.) che permettono l’esplorazione di ambienti costruiti dal computer, ma molto simili alla realtà. Qualcosa di simile, come riferisce Negroponte, fu realizzato dall’esercito israeliano ai tempi del "blitz" all’aeroporto di Entebbe, per permettere un’esercitazione "sul campo" dei soldati prima dell’attacco vero e proprio. Subito dopo, il Dipartimento per la Difesa USA, che già lavorava su questi progetti dal ‘68, diede inizio a esperimenti in grande stile per simulare la guida di mezzi corazzati in ambienti ricreati digitalizzando immagini in 3D, riprese, inquadratura per inquadratura, da scenari reali. Oggi, accanto a questo tipo di RV, che presenta ancora grandi limitazioni, esistono linguaggi di "modelling", come il VRML, che permettono di simulare sullo schermo sale di biblioteche o di ritrovi virtuali. Ne riparleremo nel III capitolo.
Non a caso un ricercatore di psicologia al CNR di Roma, Francesco Antinucci, porta avanti la sua esplorazione del mondo attraverso la RV. Per capire perché, bisogna capire due cose molto semplici. La prima è che cos'è la realtà virtuale. Dice lo stesso Antinucci, in un’intervista a "Media-mente":

"Al di là di ogni complicazione tecnica, la realtà virtuale è questo: io posso riprodurre un ambiente o un oggetto. Lo faccio attraverso una tecnologia di computer, ma l'importante è che lo faccio in una maniera e con degli strumenti che mi permettano di presentarlo allo spettatore, in un modo che tende a essere non distinguibile dalla realtà. Io posso muovermi in questo ambiente, osservarlo e lavorarci così come se fosse un ambiente fisico, reale. Se si raggiunge questo livello, possiamo dire che la percezione viene ingannata, la mia azione si svolge come se io stessi nella realtà e non lavorando attraverso uno strumento. Noi siamo abituati a lavorare attraverso gli strumenti, dei computer adesso, prima le macchine da scrivere, prima ancora strumenti materiali, e sappiamo che imparare a lavorare con queste macchine non è facile, richiede certi adattamenti, certi aggiustamenti".

E ancora (ibidem):

"Dal punto di vista psicologico abbiamo due modi di conoscere le cose: io posso, per esempio, andare in un posto, guardarlo, questo mi dà delle sensazioni e mentre faccio questo lavoro di guardarlo, di muovermici dentro e di toccarlo, in realtà io lo sto conoscendo, lo sto analizzando, lo sto classificando, sto facendo tutte cose che sono inconsce, di cui io non m'accorgo, le faccio naturalmente, ma in realtà con queste assumo conoscenza. Pensate quando siete bambini molto piccoli: imparate tutto in questo modo, lo imparate nel periodo da zero e tre anni, in cui prima non sapete fare assolutamente nulla; alla fine dei tre anni siete in grado di conoscere il mondo in cui vi muovete. Lo avete studiato? No. Qualcuno ve l'ha coscientemente raccontato, l'avete capito? No. L'avete imparato muovendovi. L'altro modo di conoscere, che poi, per una strana evoluzione storica che abbiamo avuto, è diventato nella nostra coscienza l'unico modo di conoscere, è invece quello per cui qualcuno mi spiega le cose, poi magari me le scrive su un libro. Questo lavoro funziona lo stesso, ma è molto più difficile, è molto più faticoso, molto più complicato, non è naturale, non è intuitivo, ci sono delle ragioni biologiche per questo. E' un lavoro faticoso da fare, è un lavoro selettivo. Qualcuno lo sa fare, qualcuno non lo sa fare. Per impararlo bisogna studiare e si fa fatica a farlo e quindi non tutti ci riescono e non tutti vanno lontano. L'altro modo, no, lo abbiamo tutti, lo usiamo tutti nella stessa maniera. La combinazione di queste due cose, fa sì che la realtà virtuale possa essere un potente strumento di conoscenza".

 

Nella nostra cultura, "conoscenza" è sinonimo di lettura di libri e di fatica. Fino ad oggi, fino all' avvento della realtà virtuale, quello era l'unico modo che avevamo per conoscere quelle cose che non si possono vedere o toccare direttamente. Tutto ciò che cade al di fuori della nostra esperienza immediata, per esempio gli oggetti descritti dalla Geografia e dall’Astronomia, ma anche molta parte delle Scienze, in mancanza di un laboratorio. Il mondo dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande.

"[....] tutto ciò che in realtà non possiamo percepire direttamente e non possiamo toccare direttamente, non può essere conosciuto e studiato in quel modo naturale che dicevo prima. Per questo motivo, nel corso dei secoli, a mano a mano che le nostre conoscenze si approfondivano, noi abbiamo dovuto tradurlo in simboli, che a volte sono belle metafore di visione, come il viaggio, il diventare piccoli, ma l'abbiamo dovuto tradurre. Non possiamo vederlo direttamente, non possiamo toccarlo direttamente, possiamo lavorarci solo con la mente, pensando". (ibidem)

 


Facciamo un esempio di visualizzazione di fenomeni scientifici, che oggi è resa possibile dalla realtà virtuale. Per esempio, il concetto di forza: non possiamo vedere una forza operare fisicamente, dobbiamo immaginarla. Con la realtà virtuale, si possono costruire ambienti simulati in cui le forze si possono vedere con i nostri occhi, toccare, interagirvi in modo naturale. Una possibilità in più di conoscenza,
certo non un sostitutivo della conoscenza diretta, ma un’estensione a mondi che altrimenti non potremmo percepire se non con l’immaginazione.

Qualche considerazione va fatta anche sulle modalità di fruizione dei prodotti "multimediali". Tali prodotti uniscono diversi linguaggi, e sono perciò in grado di coinvolgere non solo la parte "razionale" di noi ("l’area cognitiva", in termini fisiologici il lobo frontale di sinistra e l’emisfero sinistro), ma, come gli spot e tutta la programmazione tv, anche la nostra componente emozionale (l’emisfero destro, il sistema limbico e in particolare il talamo), e, per le attività che coinvolgono scelte consapevoli, i centri dell’amigdala etc. L’apprendimento dipende infatti dall’integrazione di diverse funzioni cerebrali: razionali, emotive e volitive, ciascuna delle quali ha una sua sede di elaborazione privilegiata. Questa integrazione funzionale, cui si sommano una serie di altre risposte neuro-endocrine, è indispensabile per lo sviluppo della personalità. L’apprendimento realizzato attraverso questi media attiva dunque tutta una serie di percorsi, almeno in parte alternativi a quelli propriamente "cognitivi". Alla parola, scritta o pronunciata, si sommano gli stimoli emotivi dovuti alla percezione di immagini dai colori accattivanti e all’ascolto di musica. Ciò rende più piacevole la fruizione, oltre a costituire un ambiente "integrato", più simile a quello che sperimentiamo durante l’apprendimento per esplorazione. Ciò tende a rendere più facile e meno gravoso il compito di chi apprende, specie se si tratta di un soggetto che presenta deficit in area cognitiva. La pluralità di linguaggi adoperati permette poi l’appropriazione almeno di parte dei contenuti anche da parte di soggetti con deficit sensoriali; a ciò si aggiungano le nuove possibilità di cui sopra, che permettono di dialogare col mezzo attraverso i movimenti corporei. Per i soggetti con deficit di deambulazione, le possibilità dischiuse dalla realtà virtuale e dai CD su Paesi, città e opere d’arte consentono esperienze altrimenti impossibili; per tutti, le possibilità di comunicazione offerte dalla telematica, di cui parleremo nel cap. III, ampliano di molto la sfera delle relazioni personali e possono contribuire a superare molti problemi relazionali dovuti a una scarsa autostima o alle altrui reazioni negative. Ritorneremo su questo argomento nel IV capitolo.

E passiamo a chiederci quale contributo positivo la "multimedialità" possa realmente dare alla conoscenza. Da più parti si sente parlare di "banalizzazione" della cultura (peraltro, già ampiamente realizzata attraverso i mass media convenzionali, nonché le attuali tendenze dell’editoria). Simili critiche vennero fatte già ai tempi di Gutenberg, riferite, allora, all’impatto della tipografia. Come nota Paolo Manzelli, ricercatore all’Università di Firenze (presso il Laboratorio di Ricerca Educativa):

"Per quanto tali critiche abbiano un fondamento difficilmente disconoscibile (pur sapendo che tali effetti negativi sono correggibili tramite una adeguata metodologia educativa), il potere delle gerarchie sociali da sempre ha volutamente ignorato l’altro aspetto della medaglia; cioè il fatto che la diffusione delle conoscenze e la loro divulgazione rende l’immaginario meno oberato da processi ripetitivi e mnemonici e di conoscenze divenute in gran parte obsolete, così che di fatto i media permettono non solo una estensione del sapere, ma contribuiscono ad ampliare la libertà e la potenzialità del cervello per affinare il ragionamento, verso nuove e più elevate mete [....]"

 

La tesi di Manzelli mi pare fondata su corrette basi fisiologiche, come emerge da una sua recentissima relazione all’Università di Genova, in cui l’apprendimento è esaminato alla luce di una teoria della visione che assegna all’elaborazione in sede cerebrale della realtà un ruolo preminente, attraverso l’evocazione di archetipi genetici e un processo di riconoscimento basato sul richiamo mnemonico di precedenti esperienze visive. Non è dunque l’occhio a produrre immagini del mondo esterno, più di quanto non sia l’obiettivo di una fotocamera a produrre immagini fotografiche; ciò conduce a una revisione del rapporto comunemente inteso tra soggetto e oggetto di un’osservazione, in cui, in accordo con gli sviluppi della fisica contemporanea, la realtà va intesa come "una caratteristica della teoria che usiamo per comprendere il mondo" (Einstein); in sostanza, siamo noi, o meglio il nostro cervello, gli autori delle nostre esperienze. Dall’errata comprensione di questo rapporto deriva, secondo Manzelli, il modo "meccanico" in cui ci rapportiamo solitamente alle conoscenze acquisite per via visiva e la scarsa considerazione in cui di solito esse sono tenute. Come conseguenza di una errata percezione del rapporto reale-virtuale e di quell’adattamento cognitivo dell’uomo alla macchina che abbiamo visto stigmatizzato anche da Papert (vedi cap. I),

"[....] i giovani hanno generalmente tempi di attenzione notevolmente ridotti e quindi disponibilità di ascolto fluttuante e superficiale, causata in gran parte da un processo di adeguamento a sistemi meccanici di tipo azione e reazione che corrispondono a comportamenti immediati del tipo stimolo-risposta; questi ultimi inibiscono l’apprendimento creativo che implica riflessione interiore in quanto si attua in corrispondenza allo sviluppo di abilità di ampia connessione ed integrazione di differenti funzioni cerebrali". (ibidem). Su questo argomento si veda anche un intervento della prof. G. Tropea durante il nostro corso

Come sostiene Papert, il modello di interazione tra ragazzi e computer deve dunque essere ribaltato per diventare euristicamente fecondo, e ciò dipende da un mutamento d’indirizzo generale rispetto a cultura ed apprendimento.

Veniamo ora a un’altra questione fondamentale: la "multimedialità" è pienamente realizzata con i mezzi, e nei prodotti, attuali? Se facciamo riferimento alle parole chiave di cui sopra, digitale e interattiva, esaminando strumenti quali CD-ROM e PC multimediali, non possiamo negare che le tante promesse siano state mantenute solo in minima parte. L’informatica di consumo ha imposto un modello di multimedialità consistente,come abbiamo visto, nella riunione su di un solo supporto (il CD-ROM) di contributi originariamente prodotti attraverso altri media. Renato Parascandolo, filosofo e curatore dell’Enciclopedia multimediale delle Scienze Filosofiche per la RAI-ERI, definisce questa accezione (più propriamente: ipermedialità), come "multimedialità ristretta", o "centripeta", per la confluenza dei contributi su un supporto unico. Secondo Parascandolo, l’utilizzazione contestuale di "molti media" con un solo indice non fa una vera multimedialità, principalmente a causa della mancanza di una vera possibilità di fruizione interattiva:

"L’interattività, nella sua versione pubblicitaria, è sinonimo di partecipazione attiva, di dialogo, di scambio e ciò viene presentato come una novità assoluta anche se purtroppo dietro questa enfasi si nasconde spesso una turlupinatura, una partecipazione solo apparentemente spontanea, una libertà di movimento non più grande di quella che può darci un viaggio organizzato. Questa interattività povera, con opzioni già tutte preordinate da uno sceneggiatore multimediale che ragiona come un animatore di agenzie di viaggio, è quella che io amo definire interpassività" (il grassetto è mio, NdL).

Per quanto un’opera venga concepita come multimediale e interattiva, la configurazione più organica e ricca di senso, tra tutte quelle possibili, rimane la "sceneggiatura" disegnata dall’autore, con logica per di più sequenziale. L’opera si potrà di certo "navigare", vi sono differenti vie d’accesso e percorsi possibili al suo interno, ma il risultato sarà simile alla lettura "a salti" di un romanzo: è il senso compiuto dell’insieme che ne impedisce una vera fruizione interattiva. In questo senso parlavo prima di limiti non solo fisici, ma concettuali, dell’interattività. E allora? Ci sono anche altri modi d’intendere la multimedialità, conservando le prerogative digitali e interattive. Il primo modo è quello caratteristico della telematica, in primo luogo della "ragnatela mondiale" del WWW, ma anche di altre forme di comunicazione che vedremo nel prossimo capitolo. Una multimedialità che il Nostro definisce "centrifuga":

"Questa multimedialità è una modalità organica di progettazione, ancor prima che di produzione, una sorta di motore in cui ciascun medium fa da volano per gli altri, accumulando e restituendo energia. La multimedialità centrifuga si distingue dunque per due aspetti fondamentali. Essa pone al centro i contenuti piuttosto che le tecnologie [....] e inoltre considera l’intero sistema planetario dei mezzi di comunicazione come un’unica grande rete integrata, una rete globale in cui saperi, conoscenze e comunicazioni si dispiegano come in una sinfonia: ogni medium di questa grande rete è simile a uno strumento dell’orchestra. L’opera multimediale deve essere quindi concepita come un componimento musicale in cui l’autore assegna a ciascuno strumento una partitura in base ai suoi requisiti specifici" (ibidem).

 

Si potrebbe aggiungere che nelle reti non c’è un solo "autore", e che anzi proprio il senso di cooperatività, di "intelligenza collettiva", per dirla con Lévy, differenzia questa accezione di multimedialità dalla precedente. E’ la stessa differenza che abbiam fatto tra informatica "chiusa" e "aperta". L’interattività, grazie a internet, non si esercita più all’interno di un recinto chiuso, di senso dato e compiuto: la rete cresce su sé stessa grazie a un continuo fiorire di nuovi contributi. Il CD-ROM, invece, rappresenta solo un’articolazione di mezzi espressivi diversi su un unico supporto monomediale, il che equivale ad annacquare la pretesa multimedialità in una monomedialità di fatto. Una terza prospettiva, tratteggiata da Parascandolo, è quella che consiste nell’irradiarsi, a partire da una materia prima comune, di molti prodotti differenti, destinati ciascuno ad un medium diverso e complementari fra loro. Ne è un esempio Media-mente, che accoppia alla trasmissione televisiva un sito web munito di biblioteca digitale e un gruppo di discussione usenet; un progetto interessante, in questo senso, è la realizzazione dell’ "Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche", concepita come "osmosi permanente tra media diversi".

"La materia prima di questa Enciclopedia [....] è costituita da interviste-lezioni, di filosofi e scienziati di tutto il mondo. Ciascuna intervista, della durata media di un’ora, è realizzata nella lingua d’origine del filosofo intervistato, e ciò conferisce a questa impresa un carattere internazionale. Da questo patrimonio di contenuti, ordinato in un archivio multimediale, si attinge per realizzare programmi televisivi e radiofonici, videocassette e audiocassette, libri e videolibri, dispense e pagine di giornale, programmi multilingue per la TV satellite e via cavo, home page su internet e, naturalmente, anche software multimediale (floppy disk, CD ROM). Quindi la versione per computer è solo una delle tante versioni. [....] Programmi on-line e prodotti off-line si integrano, rinviano l’uno all’altro, si promuovono a vicenda e infine si incastrano come i tasselli di un mosaico".

 

Questo tipo di opera multimediale è "aperta, poliedrica, modulare"; le persone che vi lavorano all’inizio non possono immaginare tutti gli sviluppi possibili, che si interconnettono in modo simile alle sinapsi di una rete neuronale. Pur essendo ciascun prodotto in sé determinato nella sua forma, l’insieme è indeterminato, né può essere altrimenti. All’inizio della produzione di quest’opera, 1987, non esistevano ancora, almeno come prodotti di massa, CD ROM e internet. Se l’Enciclopedia fosse stata progettata in modo "tradizionale", con un piano rigoroso e definitivo, non sarebbe stato possibile realizzare le versioni per i nuovi media, ancora non disponibili. Invece, proprio in ragione della flessibilità del progetto iniziale, ciò non ha creato difficoltà e non ha reso necessario "decostruire" alcun impianto predeterminato. Va da sé che progetti di questo tipo aprirebbero grandi possibilità nel campo dell’istruzione, soprattutto per scuole superiori e università.

Concludo qui la mia disamina sui vari aspetti della multimedialità, senza la pretesa di aver esaurito la problematica. Lasciamo aperte le questioni sollevate, di cui ognuno potrà dare la propria personale interpretazione in base anche ai futuri sviluppi. La tematica, però, continuerà nel prosieguo di questo lavoro: molti sono gli argomenti del capitolo successivo che in qualche modo ci riporteranno a parlarne. Torniamo a Negroponte per una suggestiva visione che ci aiuterà a passare all’argomento del capitolo successivo: il mondo delle reti telematiche.

"Una biblioteca pubblica funziona perché essa si basa su atomi: dovete portare i vostri atomi alla biblioteca. Alcuni di noi hanno un po' troppi atomi. Allora prendete il libro in prestito. Non è solo un altro atomo, ma - e questo è così ovvio che non ci pensiamo mai - il guaio è che quando prendete in prestito un atomo non ci sono atomi rimanenti. Resta uno spazio vuoto. Voi portate il libro a casa, lo leggete, diciamo in una settimana, lo riportate alla biblioteca. Magicamente qualcuno lo prende in prestito di nuovo, e lo riporta indietro dopo una settimana. Così 52 persone avranno letto il libro in un anno. Ora invece renderò la biblioteca pubblica digitale. Cambierò solo questo: muterò gli atomi in bit. Non dovrò trasportare i miei atomi alla biblioteca. E' una cosa così ovvia, ma non viene mai detta a scuola: è che quando prendete in prestito un bit, c'è sempre un altro bit che rimane. Così ora 20 milioni di persone possono prendere in prestito questo libro simultaneamente, senza muoversi di casa, giusto battendo alcuni tasti, e così abbiamo violato le leggi del copyright... Un giudice diceva che era legale abbattere alberi per farne polpa, per spargere inchiostro sulla carta, persino usare dei bambini per recapitare queste carte e gettarle aldilà di una traversa dentro casa vostra. Ma rendere un bit ecologicamente salubre - nessun bit depositato, nessun bit restituito che rappresenti la stessa informazione e la trasmetta alla velocità della luce fin nella casa di qualcuno - infrange la legge. E' davvero molto, ma molto interessante considerare alcuni eventi in termini di bit e di atomi: questo cambierà il vostro modo di vedere quel tipo di mondo che è il mondo digitale".

Una delle principali metafore di Internet, lo anticipiamo, è proprio quella che la identifica con una sconfinata "biblioteca di Babele" accessibile contemporaneamente da utenti di tutto il mondo. Ma se si trattasse solo di questo sarebbe ancora ben poca cosa rispetto alle possibilità che realmente offre, e che purtroppo ancora pochi, in Italia, conoscono davvero.

(dalla  Tesi di specializzazione di Luigi Cozza)