Materiali Didattici

 

La letteratura elettrica 

Augusto Marinelli

 Marco Praga, La Biondina  Emilio De Marchi, Demetrio Pianelli 
Luigi Gualdo, Decadenza  Giovanni Pascoli, Suor Virginia  Giovanni Cena, Gli Ammonitori
Luciano Folgore, L’Elettricità Libero Altomare, Sinfonia luminosa  Paolo Buzzi, Primi lampioni
     
     

 

 

Augusto Marinelli

La letteratura elettrica

Questo modulo si propone di fornire i materiali per una prima ricognizione della presenza dell’energia elettrica nelle opere degli scrittori e dei poeti italiani del periodo 1880/1914, naturalmente senza alcuna pretesa di completezza.

Ci è parso opportuno iniziare l’indagine con due romanzi del realismo lombardo, il primo dei quali rispecchia la curiosa ammirazione con la quale veniva vissuta nella Milano di fine secolo la presenza di nuovi personaggi legati al mondo dell’elettricità, ingegneri e imprenditori, come quel John Lieb che, giunto in Italia per soprintendere alla costruzione della centrale di via Santa Radegonda, si fermò poi nel nostro paese per oltre dieci anni, divenendo un vero caposcuola per una generazione di tecnici. Quanto al "Demetrio Pianelli", vi si può vedere come già l’elettricità faccia parte del paesaggio, tanto da sposarsi naturalmente con lo stato d’animo del protagonista.

Il paragone con l’atmosfera descritta da Luigi Gualdo, e già intrisa di decadentismo, potrà costituire un utile termine di confronto per determinare come l’energia elettrica entri man mano a far parte dell’arredamento del romanzo italiano. Il breve passo dal romanzo di Giovanni Cena testimonia come nella Torino di inizio Novecento l’energia elettrica fosse ormai entrata a far parte della vita quotidiana, pur rimanendo tipica dei "luoghi sociali", come le stazioni ferroviarie e i caffè.

Dei cosiddetti "maggiori", compare soltanto Pascoli, l’uomo capace di accogliere nella sua poetica democrazia linguistica anche la lampadina. Ho tralasciato a malincuore, per evitare che il dossier diventasse troppo voluminoso, Pirandello e Svevo, con i quali pure la presenza dell’elettricità cessa di essere in qualche modo straordinaria per divenire elemento della grigia vita quotidiana.

Le testimonianze della seconda parte, tutte di poeti appartenenti al movimento futurista, riflettono la vera e propria esaltazione manifestata da alcuni ambienti nei confronti della nuova forma di energia. Ma consentono anche, secondo me, di confermare il giudizio che Lifscitz , esponenete di primo piano del futurismo russo, diede del futurismo italiano come di un presentismo della più bell’acqua. Le poesie dei futuristi datano infatti a partire dal 1909, e a quella data l’elettricità aveva ormai sconfitto gli avversari. Più che un inno al futuro, le lodi futuriste appaiono perciò conferma di un successo ormai ottenuto, non materia di una battaglia di avanguardia, ma solo inno ad un protagonista indiscusso della società contemporanea. E tuttavia è proprio con i futuristi che l’elettricità diventa spesso protagonista assoluta, che prende il posto del chiaro di luna, che si impone insomma come elemento dominante del paesaggio.

Le schede per l’analisi testuale sono state elaborate dal dottor Manlio Marinelli, che ringrazio per la collaborazione.

 

Marco Praga, La Biondina

Figlio di Emilio Praga, esponente di primo piano della Scapigliatura milanese, nacque a Milano il 20 giugno 1862 e vi morì il 31 gennaio 1929. E’ noto soprattutto come scrittore di teatro. Il romanzo "La Biondina", dal quale è tratto il brano che segue, fu pubblicato nel 1893. Ambientato nella Milano degli anni Ottanta dell’Ottocento, narra la storia di una moglie borghese, Adelina, che per pagare i debiti contratti per amore del lusso all’insaputa del marito, si prostituisce. Il marito, scoperta la doppia vita della giovane, la uccide.


Il sole entrava dall’ampio finestrone a inondare di luce lo studio vastissimo, dove Giacomo Burton lavorava, dall’alba al tramonto. Due delle bianche pareti erano coperte da grandi tavole di disegni, modelli di macchine; sulla terza, di contro al finestrone, era una sfilata di mensole chiare di larice, con tutte le fiale ed i vasi bianchi ed azzurri, pieni di minerali e di acidi, nella gamma allegra di colori che la chimica possiede. Qua e là, e negli angoli, sul pavimento, erano pezzi di macchine, e pile, e fornelli. Un terzo della stanza era occupato da due lunghe tavole da disegno poggianti sui cavalletti altissimi: sulle tavole, cosparse di compassi e di regoli, spioveva una gran luce dall’ampia vetrata. Tutto, là dentro, era semplice, rigido, severo, ordinato; tutto, fuorché il breve spazio racchiuso dall’angolo a destra del finestrone, dove era un divano e due poltroncine di tela russa con un’alta bordatura di azzurro fissata da borchiette d’oro: e, steso dinanzi ad essi, un rosso tappeto a fiorami oscuri; e, sulla parete, a coprire il bianco della muraglia, una stoffa drappeggiata con arte, che inquadrava una grande fotografia di donna racchiusa in una semplice cornice d’abete. Quell’angolo, come un salottino non ricco ma civettuolo, introdottosi quasi furtivo in quel tempio severo del lavoro, era Adelina che l’aveva voluto, che l’aveva imposto a suo marito. Aveva comperato essa il divano e le poltroncine, e il tappeto; e un giorno era capitata là con tutta quella roba recata da un operaio della fabbrica: e, tutta sola, mentre Giacomo, sorridendo, disegnava, aveva creato quel cantuccio, trasfondendovi un po’ della grazia, della allegra civetteria ch’era nella sua persona. Avea messo il piccolo divano di sbieco, nell’angolo: poi, salita in piedi su di esso, appiccícò con quattro chiodi il drappeggio; poi stese il tappeto, e mise le poltroncine ai due lati del divano.

"Adesso esci un momento."

"Perché? "

"Te ne prego. Esci in corte, due minuti, poi ti chiamo."

Giacomo uscì; ed essa, di furia, appese la fotografia fino allora tenuta gelosamente nascosta. Poi, affacciandosi alla porticina dello studio, ch’era all’angolo opposto a quello da lei trasformato, lo chiamò:

"James! James! corri, adesso, vieni, vieni presto."

"Oh! il tuo ritratto!" disse lui, con stupore, ma senza scomporsi molto, senza alzare troppo la voce. "Il tuo ritratto. Un’improvvisata. Bellissimo. Chi te lo ha fatto?"

"Un fotografo!" ribatté lei, ridendo, fissando gli occhi allegri negli occhi di suo marito.

"Già, un fotografo. Ma, così grande! costerà molto. Non spendi troppo, Adelina, in cose superflue?"

"Nulla, nulla, nulla. E’ il regalo di un’amica mia che ha sposato un fotografo."

"Chi? "

"Un’amica mia di collegio; non la conosci, tu. Già, non ne conosci nessuna" aggiunse, ridendo sempre. Poi fattasi seria, a un tratto:

"Sei cattivo, però. Il mio ritratto lo chiami una cosa superflua. Vivi qua dentro dalla mattina alla sera: appena mi vedi una mezz’ora durante il giorno, se vengo a farti una visitina. Almeno avrai il mio ritratto dinanzi agli occhi. Credevo ti dovesse far piacere! Invece! ..."

"Sì, tanto piacere. Temevo soltanto tu avessi fatta una spesa troppo forte per noi. Tu sai che non possiamo ancora spendere molto. Lo sai." E l’aveva baciata sulla bocca, e s’era rimesso al lavoro.

Allora Adelina, quel giorno, s’era accoccolata sul divano, ed era rimasta più a lungo.

"Ah! così! Adesso, quando verrò a trovarti qui, avrò un cantuccio simpatico dove mettermi, avrò un sedile decente sul quale non arrischierò di rovinarmi le vesti come sulle tue sedie di paglia inzuppate di acidi. Sei contento? Ma anche a questo ho dovuto pensar io. Sei un orso, tu! E poi, via, quando vien qui qualche persona per bene, potrai riceverla a modo. Un orrore, proprio un orrore: tu eri capace di far sedere sul trespolo un commendatore, o di tenere in piedi un deputato, per mancanza di sedili. Ma la tua mogliettina pensa a tutto. Nevvero? Anzi, sai che cosa ho pensato, adesso che c’è il salottino, qui? Io verrò ogni giorno, porterò con me il mio lavoro ed un libro, e rimarrò a lungo, a tenerti compagnia. Eh? "

"Ti annoierai, piccina."

"E quando mi annoierò anderò via. Ecco! ... Soltanto, ti prego: quando ti fabbrichi qualcuna di quelle tue combinazioni chimiche... di quelle... Dio! che odori, ah! allora sì, avvertimene prima, che non ci venga. Mi fai star male una settimana intera."

Poi, ancora, gli aveva raccontato una quantità di frottole graziose, e di storielle piccanti, raccolte qua e là, nei salotti della zia o della sua amica, la Bianca, dove essa passava le ore del pomeriggio.

Lui, impassibile, serio, ascoltava silenzioso, disegnando, durante le visite che sua moglie gli faceva all’officina, quasi ogni giorno, da un anno in qua. Poiché s’erano sposati da quattro anni, ma questa intimità tra di loro, questa affettuosità di Adelina per lui, erano nate da poco. Giacomo, innamorato di sua moglie lo era stato sempre: ma non era nel suo carattere di dirlo e di dimostrarlo troppo: poi, gli mancava il tempo di dirlo e di dimostrarlo. Dalle sette di sera sino all’alba del giorno appresso, ecco le ore che poteva dedicarle. Dall’alba alle sette, lavorava. E Adelina, nei primi tre anni di matrimonio, s’era acconciata facilmente a questa vita.

Tutto il giorno era libera: l’officina lontana, fuori dazio; e poiché aveva sposato l’inglese (glie ne avevano parlato chiamandolo così, la prima volta) senza amore, per convenienza, perché disperava, a 24 anni, di trovare di meglio, non si crucciava di questa gran libertà che suo marito era obbligato a concederle: anzi, forse, ne gioiva e se ne valeva. Ma da un anno, un gran cambiamento s’era fatto in lei. Quasi ogni giorno, essa veniva a trovarlo in istudio.

Saliva in tram in piazza del Duomo, e scendeva al dazio. Poi aveva ancora buon tratto di strada a percorrere, sino alla gran porta di un lungo fabbricato di mattoni rossicci, sulla quale ad alte lettere nere, era scritto: Società internazionale dei tramvay a vapore. Era una società inglese che aveva costrutto ed esercitava molte linee di tram nell’alta Italia, e aveva la sua sede principale a Milano, e quivi il suo direttore tecnico, James Burton.

Un valore, quest’uomo. C’era in lui la stoffa di un inventore. Da quattro anni studiava l’applicazione dell’elettricità alla trazione dei tram, secondo un sistema nuovo, pratico, economico, che, perfezionato al punto ch’egli aveva fissato di raggiungere, avrebbe debellato in modo assoluto il sistema della trazione a vapore e a cavalli, e avrebbe fatta la fortuna di lui. Così, egli rubava al sonno, agli svaghi, alla famiglia, molte ore, e le dedicava ai suoi studi. Gli sarebbe bastato di lavorare dalle dieci del mattino alle quattro di sera per sbrigare le faccende del suo ufficio. Invece, egli rimaneva all’officina dodici ore al giorno, occupato sempre in nuovi tentativi ed in esperimenti nuovi. Era questa la fissazione di quell’uomo tenace e di genio: farsi una fama e una fortuna.

Giacomo era il minore di sette fratelli. Era nato a Glasgow. Papà Burton, commerciante, aveva allevati i suoi cinque maschi con idee pratiche e sane seguendone le abitudini ed avviandoli alla carriera a ciascuno più adatta. "Soltanto" aveva detto loro "badate che non sono ricco, che non ho nessuna probabilità di diventarlo; la vita costa assai; e se potrò mettere da parte qualcosa sarà per le vostre sorelle, ed è giusto che abbia ad essere per loro. Voialtri potete e dovete lavorare, e pensare a voi stessi. Quindi, se è possibile, sceglietevi una professione nella quale si guadagni presto, senza un troppo lungo tirocinio" Chi s’era dato al commercio, chi all’ingegneria: il maggiore, innamorato del mare, aveva percorsi gli studi navali, ed era ufficiale, adesso, nella marina inglese. James, laureato ingegnere, s’occupò alla costruzione di una ferrovia. Poi gli avevano offerto questa carica in Italia: e l’aveva accettata, pensando che anche qui avrebbe potuto lavorare e studiare. Quando avesse risolto il problema del quale si era invaghito, sarebbe tornato in Inghilterra per trarne profitto. Questo impiego che gli si offriva in Italia era la modesta, sicura, tranquilla agiatezza che gli permetterebbe di compiere i suoi studi.

Ed era venuto. Bel giovane di ventotto anni, alto, biondo, forte; colto; affabile e cortese nella riservatezza della sua razza; aveva subito ispirato delle vivissime simpatie. Gli era capitata la fortuna, sin dai primordi del suo soggiorno a Milano, di trovar l’amicizia franca e leale di un buon tipo di vecchio ambrosiano, il cavaliere Cristoforo Galli, fabbricante di candele e di saponi, uno dei consiglieri di amministrazione della Società dei tram dell’Alta Italia. Il buon vecchio lavoratore, che, nato poverissimo, s’era fatto una fortuna colle sue candele e coi suoi saponi, aveva subito simpatizzato col giovanotto, il quale, sin dai primi discorsi, aveva espresse delle idee così sane, così giuste, così pratiche.

Avevano subito simpatizzato le due onestà di questi uomini di razza diversa: l’onestà rigida, severa del giovanotto; l’onestà bonaria, indulgente del vecchio. E questi aveva invitato quello in sua casa, una gran casa ospitale che raccoglieva una numerosa famiglia patriarcale: la moglie, una vecchietta miserina di persona e d’intelletto, intontita nell’agiatezza che le era nata d’attorno a poco a poco, durante vent’anni di lavoro e di risparmio; e cinque figlioli, due maschi e tre femmine; e le mogli dei figlioli; e il marito di una delle femmine; e i bimbi loro. I maschi erano a capo degli affari e dirigevano la fabbrica: il marito della figlia maggiore, anche lui, già commesso nell’azienda, era adesso il viaggiatore principale della ditta. E così vivevano tutti assieme, in un gran palazzo fuori porta Magenta, attiguo all’officina dei saponi, fabbricato apposta dal vecchio allo scopo e coll’intento di vedervi alloggiare tutti i suoi, anche le future famiglie delle due figliole ancor nubili; perché una sola imposizione usava fare ai suoi generi: di abitar lì, e di pranzar alla tavola comune.

(da M. Praga, La Biondina, Milano, A. Mondadori, 1984, pp. 17-21)

 

Guida all’analisi del testo:

 

 

Emilio De Marchi, Demetrio Pianelli

Nato a Milano nel 1851, mortovi nel 1901, ambientò le sue storie, nelle quali rappresentò lo scontro tra i valori morali tradizionali e quelli creati dai mutamenti economico-sociali in atto, sullo sfondo della Lombardia piccolo-borghese e della nuova realtà cittadina che andava formandosi in quegli anni. Il suo romanzo principale, "Demetrio Pianelli", del quale si danno qui alcune pagine del capitolo conclusivo, ha come ambiente Milano. Scritto nel 1889, narra la storia di un uomo, Demetrio Pianelli appunto, innamorato della cognata, vedova del fratello Cesarino, suicida per il disonore di essere stato scoperto a sottrarre denaro dalla cassa della sua ditta. Demetrio tuttavia, consapevole della differenza d’età e di temperamento fra sé e la donna, ne favorirà le nozze con un cugino, Paolino, in grado di assicurare a lei e ai suoi figli il benessere e la serenità. Per aver difeso l’onore della donna dalle insinuazioni del suo capoufficio, Pianelli viene inoltre trasferito a Grosseto, nella Maremma toscana.

 


Quel dì Demetrio ebbe molto da fare. Aggiustò i conti col padrone di casa, al quale lasciò il letto e il cassettone in pagamento: a Giovan dell’Orghen (1) regalò le gabbie e qualche vecchio paio di scarpe: il resto diede a un stracciaiolo. Per sé riempì una cassetta e una valigia. La giornata passò come un sogno in queste molteplici occupazioni e venne l’ora del pranzo, che non aveva ancora inghiottita una goccia d’acqua.

Mandò Giovan dell’Orghen a comperare del pane, del salame cotto e un fischietto di vino e sedettero tutti e tre - il terzo era Giovedì - l’uno sulla cassa, l’altro sulla valigia, il cane in terra nel mezzo della stanza spoglia, a celebrare l’ultima cena. La compagnia non guastava la malinconia de’ suoi pensieri, perché il sordo non l’obbligava a stare attento. Si trovava così solo senz’esser isolato.

Finito il pranzo, mandò Giovan dell’Orghen a portare una lettera a Beatrice (2), da consegnare al signor Paolino delle Cascine e rimase una mezz’ora a contemplare, per l’ultima volta, col cuore ammalinconito ma non triste, la stesa dei tetti, già rosseggianti nel sole del tramonto, disseminati in cento strutture intorno all’antico campanile delle Ore, coi fumaioli dalle mille bocche aperte, cogli abbaini, le altane verdeggianti, che era insomma da molti anni il mondo delle sue solitarie escursioni, quando dalla finestra correva cogli occhi lungo le gronde, dentro i soffitti, tra le buie armature dei tetti...

Dunque, addio tegole, addio abbaini, addio campanile delle Ore, addio vecchio Duomo di Milano, che più si guarda più diventa bello, più diventa grande, come se ognuno vi aggiungesse per frangia i suoi pensieri migliori. Addio Milano, città più buona che cattiva, che dà volentieri da mangiare a chi lavora, ma dove, come in ogni altro paese del mondo, chi non sa fingere non sa regnare.

Mezz’ora dopo egli era alla stazione.

In un angolo della sala d’aspetto, seduto sulla sua valigia, attende senza impazienza che aprano lo sportello di terza classe della linea di Genova. La stazione va gradatamente rischiarandosi della luce bianca che mandano i rari fanali elettrici, mentre nel cielo, dietro le piante della circonvallazione, resiste ancora come un braciere ardente l’ultimo raggio del crepuscolo.

Non è una partenza allegra, ma non può dire nemmeno di sentirsi turbato e rotto il cuore come supponeva. C’è nelle stesse sofferenze un limite, oltre il quale non si sente o non si capisce più nulla, ma sottentra quasi l’abitudine al dolore, da cui si va, a seconda dei casi, o verso l’indifferenza o verso la rassegnazione. Demetrio, ascoltando il suo cuore, si sentiva più vicino a questa che a quella.

Qualche cosa di dolce era stillato nella sua vita, e scendeva, sottilissimo filo di consolazione, in mezzo alle vecchie amarezze della sua grama esistenza. Se si sforzava di rintracciare da qual vena misteriosa scaturisse in lui questa goccia soavissima e fresca di ristoro, gli pareva di ricordarsi d’averla sentita fluire dalla fronte quel momento che Beatrice, tornando verso di lui, aveva collocato la mano sul suo capo.

Quell’atto di pietà, quella mano leggiera ferma un mezzo minuto sul capo di un uomo malato aveva guarito molti mali. Beatrice certo non immaginava il bene che gli aveva fatto. E’ la forza della pietà e della carità che provoca i miracoli, che dice al paralitico: prendi il tuo letticciuolo e cammina: e al povero Lazzaro: sorgi dalla tua fossa. Ebbene, vecchio e tribolato Demetrio Pianelli dalle scarpe rotte (notò che veramente le sue scarpe non erano in molto buon arnese) tu non sei forse l’ultimo degli scribacchini del regno d’Italia. Sua eccellenza (3) non lo saprà mai e non ti farà cavaliere per questo, ma tu hai fatto piangere sulla tua disgrazia gli occhi di una bella creatura; hai saputo far vibrare il suo cuore e schiudere quanto di più tenero e di più delicato v’era in lei. O Demetrio o Matteo o Carlambrogio, chi sa che tu non sia passato inutilmente nella vita di questa donna?

Eran questi all’ingrosso i concetti fondamentali di quella convinzione, che lo rendeva docile e rassegnato al suo destino: e vi si sprofondò tanto col capo, che non vide Arabella, se non quando la ragazzetta gli pose la mano sulla spalla. Dietro di lei, strascinando un paio di scarpe non sue, Giovan dell’Orghen si fermò a far riverenze al sor Demetrio che andava a vedere il mare. Il più felice degli uomini aveva indosso, non ancora ben distesi dal sole, gli abiti del povero Cesarino.

"Come hai saputo che partivo stasera?"

"La mamma, quando son tornata dagli esami, mi ha detto: "Sai? lo zio Demetrio va via". "Dove va?’ chiesi naturalmente: "E’ stato traslocato in un altro ufficio dal governo". "E non mi ha detto niente? - non ti credo. A me lo avrebbe detto, in un orecchio, ma l’avrebbe detto". Se la mamma avesse voluto accompagnarmi, venivo subito a trovarla, e non lo avrei lasciato partire. Mi son fatta accompagnare sul tardi dal Berretta. Non c’era già più in casa. Allora ho pregato Giovan dell’Orghen di accompagnarmi alla stazione. E’ proprio vero? Lei va via, così senza dir nulla? ..."

Arabella, un poco affannata per la corsa fatta, parlava con un’eccitazione più di dispetto che di rammarico.

"Che ti può fare adesso lo zio Demetrio? lascialo andar via," egli disse sorridendo.

"Lo so, lo so bene ... basta!"

Arabella alzò gli occhi al quadrante dell’orologio e ve li tenne fissi come se facesse dei conti sulle ore. Vestita dell’abitino nero che aveva indossato agli esami, con scarpe a bottoni lucidi che le serravano delicatamente il collo del piede, con in testa un tocco d’astrakan da cui si svolgevano a onde i capelli neri, la bianchezza della sua carnagione spiccava in mezzo a tutto quel nero; gli occhi profondi e intelligenti guardavano molto lontano, al di là delle cose, come fanno tutti gli occhi che pensano.

"Lo so bene" ripeté, seguitando l’idea che le passava davanti. "Non avrei creduto che dovesse finire così. Povero papà!"

"La mamma lo fa per il vostro bene" fu presto a dire Demetrio, che nella voce quasi severa della fanciulla credette d’intendere un’altra voce che si corrucciasse in lei.

Non mai Arabella gli era parsa così somigliante al povero Cesarino come quella sera che la rivedeva nell’abito elegante e nella luce bianca dei fanali. Il suo profilo suscitò la memoria del giovinetto collegiale che un altro Demetrio bifolco incontrava ai tempi della mamma Angiolina, quando i piedi in due zoccoli di legno e una forcona in ispalla usciva dalla stalla dei buoi.

Giovan dell’Orghen intanto, vestito degli abiti di un disertore, andava ramingando davanti a’ tutti gli sportelli, guardando in terra, se mai la Provvidenza avesse lasciato cadere un mozzicone di sigaro. Demetrio stava accostando nei suoi rapidi confronti il passato al presente, i vivi ai morti, quando s’intese l’ululato di Giovedì, che i guardiani chiudevano nello scompartimento riservato ai cani che viaggiano.

"Povero Giovedì ... non voleva distaccarsi dal suo padrone." Arabella, che aveva sognato nella notte il verso del cane, ebbe un brivido in tutta la persona. Tratta dalla successione delle idee, soggiunse:

"Stamattina la mamma mi ha dimandato se io sapevo com’era morto il mio povero papà. Essa non sa ancora tutta la verità ... "

"Risparmiatele questo dolore ... E in quanto a te, Arabella, abbi pazienza. Vedrai che ti troverai bene alle Cascine. Paolino è buono e sarà per voi un secondo padre. Ci sono delle necessità, figliuola mia, ci sono delle necessità, credi a me, innanzi alle quali è religione chinare la testa."

"Lo so, povero zio!" esclamò con pieno abbandono la ragazza, girando il braccio sul collo di Demetrio, che sedeva più basso. Colla maniera con cui circondò il collo e con cui gli prese la mano, gli fece capire ch’essa non aveva bisogno d’altri commenti, e che sapeva tutto. Le anime semplici sono anche le più trasparenti. Essa tornò a sollevare gli occhi lucenti al quadrante dell’orologio, mentre Demetrio abbassava i suoi sulle rughe delle sue vecchie scarpe. Stettero così forse un minuto, senza parlare, durante il quale risonarono ancora le lamentele di Giovedì chiuso in gabbia. S’intesero così senza parlare, stringendosi tratto tratto la mano con un battito di tenerezza.

Arabella dopo un po’ di tempo nel consegnare allo zio una busta che pareva una lettera, riprese a dire: "La mamma la prega d’accettarlo per sua memoria. E’ il suo ritratto."

"Ringraziala," balbettò lo zio, senza alzare gli occhi.

Arabella disse di sì con un colpo delle palpebre. Durante il tempo che lo zio Demetrio stette allo sportello a comperare il biglietto, essa sedette sulla valigia, abbandonando le mani sulle ginocchia, assorta in una grande quantità di cose, che non avevano ordine, ma che la trascinavano colla forza d’una corrente, di cui sentiva nella testa il frastuono.

La stazione era andata man mano popolandosi di gente che si raggirava frettolosa nella luce scialba e biancastra che pioveva dai globi, in mezzo al sordo rotolio delle carriole che menavano i bauli e alle voci sonore e imperiose che annunciavano le partenze. I treni in arrivo fischianti e rumoreggianti sotto la tettoia, il picchiare dei ferri, il suono delle catene, il bisbiglio, lo scalpiccio di tante persone mosse e sospinte anch’esse da pensieri, da voglie, da inquietudini proprie, o dalla forza delle cose, tutto ciò non bastò a distrarre Arabella dai pensieri indeterminati, misti di presentimenti e di risentimenti, coi quali essa cominciava troppo presto la storia della sua giovinezza. Guai se gli occhi avessero la vista del futuro! A distrarla tornò indietro lo zio Demetrio, che colla piccola ombrella sotto il braccio e il biglietto in mano le fece capire ch’era giunta l’ora d’andarsene.

Giovan dell’Orghen prese la valigia e si avviò verso la sala d’ingresso. Arabella si attaccò al braccio dello zio e lo accompagnò fin sulla soglia. Era pallidissima, ma non piangeva. per non conturbare con lagrime inutili la malinconia del viaggiatore. Questi col corpo in preda a piccole scosse, colle righe del volto tese a uno sforzo supremo disse ancora qualche cosa colla mano, mosse le labbra a un discorso che non volle uscire e lì sulla soglia, sotto gli occhi del controllore, baciò sulla fronte Arabella, mettendole la mano sulla testa, come aveva fatto la sua mamma con lui. E si divisero senza piangere.

Demetrio quando si trovò solo nel suo scompartimento di terza classe, immerso nella poca luce d’un torbido lampadino giallognolo, poté abbandonarsi interamente, con minor suggezione di se stesso, alla piena dei vari pensieri che in quell’epilogo della sua oscura tragedia uscivano da cento parti a invadere l’anima.

Sentendosi la testa calda come un fornello, quando il treno cominciò a muoversi nella crescente oscurità della sera, appoggiò la faccia al finestrino e stette a bevere l’aria colle labbra aperte, cogli occhi fissi a un cielo non ancora chiuso dei tutto agli ultimi respiri del crepuscolo.

Passando sul cavalcavia del vecchio Lazzaretto (4), da dove la città si apre ancora una volta alla vista del viaggiatore in tutta l’ampiezza del corso co’ suoi bianchi edifici - e già splendevano di lumi case e botteghe - la salutò con un sospiro. Poi il treno, affrettando la corsa, cominciò a battere la bassa campagna nelle umide e fitte tenebre della notte, assecondando colle sorde scosse il correre tumultuoso dei pensieri.

Non era una campagna ignota, anzi erano gli stessi prati suoi, dov’era nato, dov’era cresciuto ragazzo. Oltre il quarto o il quinto casello cominciò a riconoscere anche al buio i vecchi fondi di casa Pianelli, e più in là San Donato, e tra una macchia bruna di pioppi il fabbricato chiatto e lungo del cascinale, da dove una volta un Demetrio bifolco usciva coi piedi negli zoccoli e coi calzoni imboccati fino al ginocchio. In una bassura, nascosta da un muro sormontato da un tettuccio a triangolo, riposava da venticinque anni una donna, una povera donna, che inutilmente anch’essa aveva lavorato per il bene de’ suoi. "Ciao, mamma..." disse una voce che un Demetrio irritato e sordo non volle ascoltare. Un tratto ancora e il treno avrebbe rasentato uno stagno, all’orlo del quale appare la stupenda abbazia di Chiaravalle: ed eccola infatti uscire quasi dall’acqua livida, e venir addosso nella sua nera e solenne costruzione, colla stupenda macchina del campanile impressa come un’ombra sull’aria oscura; e più in qua, segnato da alcuni lumi rossicci, il solido edificio delle Cascine, la reggia del signor Paolino. A quella chiesa quante volte aveva accompagnata la sua mamma nei tempi che meno si pensava alle miserie del mondo!

C’erano in quell’antico convento degli angoli così tiepidi e santi, con certe figure lunghe e patetiche su per i muri: c’erano dei corridoi così lunghi con cento cellette che davano sul verde luminoso delle praterie: c’era insomma in quella vecchia badia del medio evo un tal senso di riposo, che solo a pensarci, il cuore se ne immalinconiva. Peccato non esserci vissuto trecent’anni prima! peccato non esserci due braccia sotto terra.

In quella chiesa Beatrice avrebbe detto il suo sì un’altra volta. Ributtato da questi pensieri, Demetrio si ritrasse dal finestrino, appoggiò la testa nell’angolo delle due pareti di legno, chiuse gli occhi come se si atteggiasse a dormire; e mentre il treno lo portava via sbattacchiandolo, una voce ancora in fondo al cuore, susurrò in tono quasi di canzonatura: t o to ... finito".

 

(da E. De Marchi, Demetrio Pianelli, Milano, Fabbri, 1996, pp. 290-295)

(1) Giovan dell’Orghen, in italiano Giovanni dell’organo: un vecchio sordo, che si guadagnava da vivere tirando i mantici degli organi nelle chiese o facendo commissioni nel quartiere. Poverissimo, abitava in una soffitta nel palazzo di Demetrio Pianelli.

(2) E’ la vedova del fratello Cesarino, della quale Demetrio è innamorato.

(3) Demetrio è un impiegato del Ministero delle Finanze. Era facoltà del Ministro accordare, su segnalazione dei superiori diretti, riconoscimenti particolari ai dipendenti che si fossero distinti nel loro lavoro. Il capoufficio di Demetrio, che ha voluto punirlo, naturalmente non lo segnalerà mai per i suoi meriti.

(4) L’ospedale, costruito sul finire del XV secolo fuori Porta Orientale, per curare, isolandoli dal resto della popolazione, i malati di peste.

 

Guida all’analisi del testo:

 

 

Luigi Gualdo, Decadenza

Intellettuale raffinato, amico di personaggi come Arrigo Boito, Luigi Capuana ed Eleonora Duse, Luigi Gualdo visse tra Milano, dove era nato nel 1847, e Parigi, dove morì nel 1898. Scrittore e poeta, si segnala soprattutto per il romanzo "Decadenza", pubblicato nel 1892, dal quale sono tratte le pagine seguenti. Il libro è la storia di Paolo Renaldi, un modesto ma ambizioso avvocato, che seduce Silvia Teodori, donna elegante che vive sola perché il marito è in prigione per una storia di affari mal riusciti. Temendo che la relazione intralci la sua carriera, dopo circa un anno se ne separa. Un matrimonio di convenienza gli facilita la carriera politica e la conquista di un seggio di parlamentare. Tuttavia Renaldi avverte un senso di insoddisfazione, di vuoto. Dopo un nuovo, fortuito incontro con Silvia, abbandonerà famiglia e carriera, e vivrà nell’attesa degli incontri che Silvia gli concede.


 

Nel teatro della Scala regnava la noia - una noia particolare anche per quella stagione poco allegra. Pareva che un velo di nebbia stesa nella sala troppo vasta, avvolgesse i globi di luce morta della lumiera, le dorature annerite, le scolorate tendine dei palchetti; emanava dalle pareti o era l’alito d’un immenso sbadiglio ?

Alcuni uomini eleganti s’affacciavano all’ingresso della platea, quasi deserta, mostrando la cravatta bianca dalla pelliccia sbottonata, e incerti se dovessero rimanere gettavano uno svogliato sguardo a dritta e a sinistra; sguardo superfluo, giacché sapevano prima d’entrare chi avrebbero veduto: le solite poche signore fedeli al "nostro massimo teatro", accompagnate dalla solita amica, sorridenti ai medesimi visitatori.

Parecchie signore erano in abito chiuso, freddolose, con qualche ornamento sul capo e sul petto, tanto per non sembrare vestite da mattina. Qualcuna "godeva" uno sdrucito abito da ballo. Nelle poltrone, gli uomini, quasi coricati, venivano talvolta scossi dal greve sonno cui resistevano male, da un subitaneo crescendo dell’orchestra. Senza calore i cantanti se la sbrigavano in fretta, ripetendo i motivi d’un povero maestro milionario che aveva pagato quindicimila lire per gustare - solo - la sua opera; la quale si rappresentava - d’obbligo - per la terza ed ultima volta, dovendosi dopo ritornare all’Aida. Le scene, i costumi, sfarzosissimi, destavano l’ammirazione d’una coppia inglese, giovani e biondi, che ascoltavano in religioso .silenzio, con le poltroncine del palchetto di prima fila voltate verso il palcoscenico, e separati da un mazzo di fiori posato fra di loro. Un po’ più in là, dietro un altro mazzo di fiori, enorme, ergeva le spalle superbamente nude, e il collo attorniato di gemme, una matura peccatrice forestiera, la cui presenza radunava un gruppo di uomini al di sotto. In tutto il teatro, mentre la prima donna spasimava sulla scena, si chiacchierava assai, e le voci tentavano invano d’essere sommesse. Perciò, le signore erano spesso zittite dal pubblico, ed ammutolivano per un istante, mentre il bisbigliare scoppiava più forte da un altro lato. Pochi, del resto, ascoltavano.

In un angolo della platea, quattro o cinque vecchi, fra cui un ex-impresario celebre, s’occupavano dello spettacolo; essi facevano malinconici confronti fra il presente ed i tempi andati. S’udivano passando vicino, antichi nomi sussurrati; e risposte sdegnose a qualche interlocutore più giovane. Costoro avevano forse veduto quel teatro della Scala semioscuro, dal palcoscenico solo illuminato, dove l’arte del canto italiano faceva fremere tutta la sala, quel teatro descritto da Stendhal, dove le dame in turbante venivano col lavoro in mano e il cavalier servente a fianco, dove si amava, si odiava, si discuteva, dove gli occhi si riempivano di lagrime per un accento appassionato e le mani si stringevano segrete, dove si perdevano somme favolose nei giuochi del ridotto e si cospirava talvolta nell’atrio.

Dietro gli abbonati, nei posti fissi, alcune artiste di canto sfoggiavano cappellini bizzarri e piumati sulle chiome fulve e nerissime. Raccontavansi aneddoti e si parlava d’affari, in attesa del ballo. Infatti, verso le dieci e mezzo, giunse un po’ di gente. Si era impazienti che il telone da troppo tempo calato sul rumoroso finale dell’opera si rialzasse. I palchi di società si riempivano; vi si scambiavano complimenti pei posti davanti.

"Andiamo, Renaldi, non far sciocchezze, mettiti qua."

Ma Renaldi, benché venisse di rado alla Scala e quella sera fosse stato invitato da suoi amici della quinta fila, non volle accettare, dicendo di stare benissimo dov’era, con le spalle volte al palcoscenico. Così infatti, vedeva il pubblico, le signore. Gettava sguardi invidiosi sui palchetti eleganti e non si capacitava di non essere ancora riuscito a penetrarvi; seguiva lo scambiarsi delle visite, il cedersi metodico dei posti all’ultimo arrivato - e l’illusione da lui conservata che là qualcosa accadesse gli dava un rabbioso desiderio. Vedeva una duchessa ridere fino alle lagrime, nascondendo il bel viso nel fazzoletto, e pensava che mai poteva dirle quello stupido dall’aria addormentata che le stava vicino, e fantasticando si rodeva.

Per consolarsi fissava col cannocchiale, in terza fila, dalla parte opposta una signora d’una bellezza appariscente, eppure assai distinta con alcunché d’insolito, di stranamente simpatico nel sorriso e negli occhi, mesti e lucenti; la tinta pallida della sua guancia faceva sembrare più bruni i capelli castani. Semplicissimamente vestita, possedeva però una rara eleganza. Era già stato a farle una breve visita, ma l’aveva poi lasciata sola col vecchio conte Mattei.

"Bella assai questa prima scena. "

Renaldi si voltò; le ballerine dell’intero corpo di ballo schierate in lunghe file s’avanzavano rapide e, giunte alla ribalta, tutte le gambe d’ogni schiera si alzarono di colpo. Scoppiava un frenetico applauso.

In quel momento la signora della terza fila guardava in su, ma lui non se ne accorse. Poi quando la tornò ad osservare, udì che i suoi amici parlavano di lei.

"Noi comprendo come quella signora Teodori non ti piaccia. Io la trovo adorabile. Ma è vero che suo marito è in galera?"

"Già, da vari anni."

"E lei vive sola?"

"Pare di sì. "

"E quel vecchio le fa la corte:"

" Il conte Mattei? Chi ci capisce nulla? A me pare impossibile, ma si dice."

Renaldi sapeva tutto ciò - e la sua curiosità era ben più eccitata della loro Conosceva la signora Teodori da tre mesi.

L’aveva incontrata in casa Cantanari, al giovedì; l’aveva rivista poi al teatro, per le strade. Non si faceva ancora di lei un’idea molto chiara - ma essa gli piaceva assai. Uomo positivo come si sentiva e si credeva già, benché avesse da non molto finiti gli studi, diceva a se stesso quando la vedeva: "Essa potrebbe far commettere qualche follia anche a me." Pure sorrideva, sicuro di sé. Intanto però tutte le curiosità, i desideri della sua inesperienza s’agitavano in lui; sapeva di non esserle antipatico e indovinava ad un tempo ch’essa doveva mostrarsi difficilissima, per cui alla soddisfazione interna, della vanità nascente, s’aggiungeva una speranza inebriante.

Era tutt’orecchie mentre i suoi amici parlavano di lei. Ma non dissero nulla di nuovo. Poi il ballo fissò ancora la loro attenzione, nella scena culminante, quella che faceva interrompere i discorsi nell’atrio, e per la quale si ritornava in teatro dal club.

La parte di mezzo del ballo s’era passata nei sotterranei delle divinità infernali dove la prima ballerina era stata rinchiusa. Ora, liberata dal principe, un vecchio in armatura, ricondotta nel suo palazzo, subito si slanciava nelle braccia del primo ballerino; e intorno ad essi il corpo di ballo "intrecciava danze di gioia" come diceva il libretto del coreografo. Queste danze, non si sa troppo perché, avevano un carattere marziale. Le ballerine sfilavano rapide vestite d’una corazza lucente e di stivaletti tempestati di brillanti: uno sfarzo abbagliante, che sembrava andasse aumentando mentre le danze si complicavano, più affollate e tumultuose, simulando sapientemente il disordine. Sembravano innumerevoli quelle fanciulle provocanti, e già sorridevano all’immancabile trionfo. E tra quella ricchezza di ori e di gemme, spiccavano rosee, insolenti le false nudità delle maglie, cui la troppa luce elettrica prestava una specie di realtà eccessiva. La musica assordante, volgarmente voluttuosa, aggiungeva molto all’effetto prodotto ogni sera sul pubblico; dal principio alla fine la scena era accompagnata, quasi ritmata da applausi pazzi, da grida, da un continuo mormorio di gustosa approvazione. Le ballerine correvano con foga rinnovata, come se si divertissero per proprio conto, ringraziando la folla, lanciando sorrisi speciali nei palchetti più vicini.

Anche Renaldi fissava ora il palcoscenico. In quel momento egli quasi scordava le idee ambiziose che di solito lo seguivano dovunque, i suoi progetti, le sue speranze; l’uomo pratico, risoluto ad andare diritto pel cammino prefisso ad una mèta ancora non ben definita, ma degna d’un grande sforzo, era assorto dalla sensazione materiale e vi si abbandonava, sicuro però di tornare fra poco padrone di sé. E nella sua mente un po’ eccitata le suggestioni dello spettacolo si concentravano di tanto in tanto rivolgendo lo sguardo al palchetto dove quella donna (la sola finora di cui una sera avesse sentito la mano trattenere la sua per un istante) suscitava in lui per la prima volta vaghe speranze diverse dalle solite concernenti la sua carriera. Tutto ciò però si confondeva nel suo cervello. L’amore di colei sarebbe stato un potente aiuto nella battaglia futura; l’ebbrezza del trionfo gli avrebbe raddoppiato le forze; la vanità soddisfatta avrebbe infiammato l’orgoglio. In quel momento sentiva in sé una grande potenza- parevagli che le ignote voluttà alfine conosciute, inciampo per un altro meno forte, sarebbero state a lui sprone a giungere rapidamente. Era contento di sé; una voce interna lo esortava ad osare. Le difficoltà apparse insormontabili un’ora prima si appianavano per incanto, e, fatto gaio, rispondeva allegramente alle sciocchezze delli amici.

Finito quasi il ballo, calato il telone sull’apoteosi irradiata dalla luce elettrica a colori, il teatro si spopolava. Renaldi pure ne andò con gli amici, ma trovò modo di "perderli" nei corridoi; aspettò nell’atrio, aspettò lungamente, dinanzi all’ironico sorriso della statua di Rossini, finché vide la signora Teodori avvolta in un gran mantello, dando il braccio al conte Mattei, scendere le scale. Essa rispose seria chinando la testa al suo saluto ma poi, dalla sala d’aspetto gli gettò uno sguardo.

Allora uscì egli pure, quasi felice.

 

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Giovanni Cena, Gli Ammonitori

Nato a Montanaro Canavese nel 1870, morì a Roma nel 1917. Poeta e giornalista abbastanza noto, pubblicò sulla rivista "Nuova Antologia" nel 1903 il romanzo "Gli Ammonitori". Il romanzo è stato ristampato nel 1976 da Einaudi, a cura di Folco Portinari, della cui introduzione ci siamo serviti per compilare questa scheda. Il protagonista del libro, Stanga, è un operaio tipografo, che assiste nel suo ambiente alle drammatiche conseguenze delle sopraffazioni operate alla classe al potere. La sorella di un suo amico poeta, sedotta e abbandonata da un contino, muore di parto. Il poeta stesso muore tisico, lasciando sola la donna che aveva sollevato dalla miseria. Un altro amico povero, il pittore Quibio, viene imprigionato per aver tentato di unirsi con una donna, borghese e sposata. Il protagonista è licenziato dopo aver partecipato ad uno sciopero. Decide pertanto di compiere un gesto ammonitore e di suicidarsi lasciandosi travolgere dall’automobile con la quale il re compie le sue passeggiate.


Passeggiai alquanto, poi entrai a prendere un caffè. Irresistibilmente m’incamminai verso la stazione. Entrai al caffè Ligure e presi un’altra tazza. Afferrai alcuni giornali un dopo l’altro: non c’era nulla: suicidii, assassinii, cronaca, appendice... Anch’io finalmente penetravo in un mondo fantastico, in una atmosfera che spira e s’agita dentro l’atmosfera eguale della vita di tutti i giorni: ma in quella vive soltanto la passione, il sacrificio e la morte.

E mi posi a scorrere "La Stampa" della sera. Vedevo torbido: mi colpivano gli occhi qua e là i titoli delle rubriche: I volontari della morte!.. Sì, e perché? ... E questo giornalista che ha trovato un sì bel titolo di rubrica da poter collocare là accanto al listino della borsa! La vita è in ribasso... L’importazione degli italiani al Capo... L’importazione!... bellissimo. Un attentato contro lo Scià di Persia... ecco un altro volontario... Povero folle! Ah, L’attentato è smentito. "Nella calca un individuo poveramente vestito si spinse verso la carrozza, ma fu travolto dai cavalli... Lo Scià fu molto impressionato... L’individuo portava in mano una supplica... "

Levai gli occhi dal giornale. Una commozione violenta m’aveva invaso: m’asciugai gli occhi senza farmi scorgere e appoggiai la fronte sulle mani.

Ero come stordito: le tempia mi facevano un rumore di un torrente o di un treno in moto, e tutte le mie membra s’appesantivano, con questo spaventevole tumulto nel cervello. Ad un tratto sentii come uno schianto. Un’immagine passò come un lampo in fondo ai miei occhi. Ero io là in quella calca.., mi avventavo...

E cominciai a guardare le persone intorno a me, temendo anche mi osservassero: molte sorbivano il loro caffè e leggevano la loro "Stampa" con beatitudine o noia: ma certe altre, con fisionomie incisive, con occhi oscuri sotto la luce piovente dall’alto, dovevano covare qualcosa in petto! E subito le pareti, la sala del Ligure mi parvero diverse, o forse non le avevo mai esaminate. Con tante lampade gli angoli erano oscuri o si oscuravano quando vi guardavo, e le porte s’aprivano sulle tenebre... Uscii.

Sulla piazza della stazione le tranvie piene di luce s’incrociavano, suscitando scintille lungo i fili e lungo le rotaie nell’aria umida: sotto ì portici una folla passava in un via vai interminabile. L’orologio della gran facciata segnava le 9 e mezzo.

Allora mi posi a camminare forte verso il Po. Gli alberi parevano chinarsi sotto l’umidità, che pioveva dal cielo e m’immollava i panni. Sul ponte di ferro un po’ di nebbia era sospesa lungo le acque. Due lumi erravano proprio nel mezzo del fiume: dovevano essere due barche invisibili, che or s’approssimavano, or s’allontanavano, Anche nel seno gelido del Po quante disperazioni s’erano rifugiate! Che cosa cercavano quei due lumi ?

Tornai lentamente. M’avvicinai alla stazione. Molte carrozze giungevano. Guardai da lontano sotto la tettoia dei Depositi e non ci vidi nessuno. Presi un biglietto d’entrata e mi ficcai tra la folla.

(da G. Cena, Gli Ammonitori, a cura di Folco Portinari, Torino, Einaudi, 1976, pp. 153-154)

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Giovanni Pascoli, Suor Virginia

dai Primi Poemetti


 

SUOR VIRGINIA

I

Tum tum... tum tum... - Ell’era stata in chiesa

a pregar sola, a dir la sua corona

sotto la sola lampadina accesa.

Avea chiesto perdono a chi perdona

tutto, di nulla; simile ad ancella

ch’ha gli occhi in mano della sua padrona;

a una che su l’uscio di sorella

ricca, socchiuso, prega piano, a volo;

ch’altri non oda. Era tornata in cella.

E ora avanti il Cristo morto solo,

avanti l’agonia di Santa Rita,

si toglieva il suo velo, il suo soggolo.

Il cingolo a tre nodi dalla vita

poi si scioglieva; un giallo teschio d’osso

girò tre volte nelle ceree dita.

Tum tum... - Chi picchia? Si rimise in dosso

lo scapolare. Forse alla parete

dell’altra stanza. L’uscio non s’è mosso. ,

Forse qualche educanda. Una ch’ha sete,

ch’ha male... Aprì soavemente l’uscio.

Entrò. Niente. I capelli nella rete,

le braccia in croce, gli occhi nel lor guscio...

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Luciano Folgore, L’Elettricità

Pseudonimo di Omero Vecchi, (Roma 1888- 1946). Appartenne alla prima generazione del futurismo. Alcune sue opere, come "Il canto dei motori (1912)" e "Ponti sull’Oceano (1913)" apparvero nelle Edizioni futuriste di "Poesia". Il testo che qui presentiamo è tratto da "Il canto dei motori".


 

L’ELETTRICITÀ

a Decio Cinti (1)

Festoni di sole polverizzanti le ombre.

Tentacoli violetti

solcanti il catrame dei cieli.

Corone di garrule faville

glorianti le dinamo oblunghe.

Canzoni e fragori

dei larghi motori.

Torrenti di forze remote

nel vortice delle ruote.

L’acqua sciorina un mantello sonoro

sopra i muscosi gesti della pietra,

e chiude nei fili balenanti

gli spruzzi dell’oro,

te, o volontà fulminea,

o libera Elettricità.

Sui ponti del mare, negli archi del cielo,

scatta la tua parola

rappresa nel cerchio delle correnti,

e si tendono i continenti

bramosi di quella che giunge

da molto lunge,

di quella che nel varcare

ha rubato i segreti

nel cuore dell’uomo,

e nei cristallini palazzi del mare.

Antenne sfornite di vele,

ma veleggianti ovunque,

antenne ascese in cima alla nave

invisibile,

che non conosce confini,

che lancerebbe ad una nave sorella

i suoi destini

oltre ogni luce di stella.

Voci intricate nei rettangoli grigi,

coronanti

con ferrei fastigi

le case chiostrate di cappe,

voci oscure e diverse,

lanciate così nel metallico mistero,

che vanno pel tramite ignoto

a modulare un pensiero,

nel cuore di un uomo remoto.

Strumenti di forza, arnesi di lavoro,

manovrati da questa volontà,

traini pesanti,

divoranti con bramosia

lo spazio, il tempo, e la velocità,

o braccia dell’Elettrico

distese in ogni luogo,

a prendere la vita, a trasformarla,

ad impastarla,

con rapidi elementi,

o ingranaggi potenti,

superbi figli dell’Elettrico

che stritolate il sogno e la materia,

odo le vostre sibilanti note

concorrere da tutte le fabbriche,

da tutti i cantieri,

per le strade robuste di suoni,

con l’inno dei carrozzoni,

e magnificare

divinamente

la volontà

che ogni prodigio fa

la libera Elettricità.

(da Marinetti e il Futurismo, a cura di L. De Maria, Milano, A. Mondadori, 1973, p. 445)

(1) Decio Cinti, segretario personale di F. T. Marinetti, era anche il segretario del movimento futurista.

Guida all’analisi del testo

 

Libero Altomare, Sinfonia luminosa

Pseudonimo di Remo Mannoni (1883/1942), esponente minore del movimento futurista. Sue liriche, compresa quella qui presentata, comparvero nella prima antologia dei poeti del movimento futurista pubblicata da Marinetti, "I poeti futuristi", Milano, Edizioni futuriste di "Poesia", 1912.


 

SINFONIA LUMINOSA

Amo le luci sfrontate

che violentano la morbida Notte

ingemmata, che strappano

tutti i veli dei sogni fluttuanti nell’aria

de la Città assopita;

gli elettrici globuli

che irradiano l’insonnia

nelle sue vene torpide, le innumeri

pupille d’oro sanguinose e vigili

a illuminare i tesori

che ostenta, come una cortigiana,

prima di coricarsi

nel sonno scomposto, a mezzanotte,

con un solenne russar

di orologi nascosti.

Ecco: le case

socchiudono le palpebre stridule

de le finestre

da cui traspare e guizza

qualche pupilla ostinata.

La Città che riposa, ebbra di sole,

palpita luce dai suoi mille cuori

e sgrana per le vie tentacolari

i suoi occulti, simbolici rosari.

- Il torrente di luce esulta e scroscia,

i fari della gioia o dell’angoscia

gridano, chiamano, provocano... -

Sono occhi diabolici in agguato,

esplosioni d’odio e di peccato

che staffilano l’anima

come parole amare ,

scrosci di risa, squilli di fanfare;

mentre i fanali snelli ed eguali

si seguono monotoni

come i ritornelli

delle vecchie canzoni marinare.

E voci e suoni hanno

risuonanze fosforiche.

Veicoli erranti, squillanti s’attardano,

galoppano adorni di multicolori collane.

La luce s’effonde dilaga

con spasimi d’orgia:

dai variopinti ritrovi mondani

sprizzano i luminosi

echi delle ribalte.

La luce applaude sé stessa;

canta, sussurra, deride

la luna beghina

che biascica preci al suo sole.

(da I. Gherarducci, Il Futurismo italiano, Roma, Editori Riuniti, 1984, p. 75-76.)

Guida all’analisi del testo:

 

 

 

Paolo Buzzi, Primi lampioni

Nato a Milano nel 1874, e ivi morto nel 1956. Amico di Marinetti fin dal 1904, fu tra i fondatori del movimento futurista. Tra le sue raccolte più importanti, "Aeroplani", apparsa nel 1909, e "L’Ellisse e la Spirale", 1915, entrambe presso le Edizioni futuriste di "Poesia". La poesia che compare in questa breve selezione apparve invece in "Versi liberi", pubblicata a Milano dai Fratelli Treves nel 1913.


 

PRIMI LAMPIONI

Esco alla notte

contro gli amici lampioni.

Son gli occhi dei nuovi mostri terreni. Sfavillano

la luce ignota a’ miei avi. Mi fan l’aria moderna

onde questo respiro d’uomo semplice

diventa verso libero di poeta complesso.

Amo le ombre lunghe a sbarra dei lampioni

e vi cammino con piedi sicuri e sogni di vertigine

come l’equilibrista sul filo teso al precipizio.

E più amo i fogliami d’alberi del viale

che la luce elettrica dipinge ad acquerello

sul cartone prolisso dei lastricati.

E più amo la mia ombra che pare

lo svelto impaccio della mia stessa anima fra’ miei piedi.

(da Poeti italiani del Novecento, a cura di P. V. Mengaldo, Milano, A. Mondadori, 1981, p. 141)

Guida all’analisi del testo: