Ramayana
La Storia dell'Avatara Sri Rama di Valmiki Muni |
BALA KANDA |
Valmiki e Narada Un giorno ricevette la visita di Narada Muni, il suo maestro spirituale. Dopo avergli offerto i rispetti dovuti a un guru, i due saggi si sedettero all'ombra di un grande albero di banyano, non distante dall'eremo di Valmiki. Iniziarono la conversazione. “Sono molto fortunato ad averti conosciuto,” disse Valmiki, “e grazie a te sono stato iniziato al canto dei sacri mantra vedici, grazie ai quali ho ottenuto un grande progresso spirituale. Inoltre tu hai studiato tutte le scritture e me ne hai insegnato i punti essenziali. Oggi ho una curiosità che ti prego di soddisfare.” Narada sorrise. Per un maestro è una fortuna avere discepoli
che sanno fare le domande giuste; questa era per lui un'opportunità
di recitare storie sacre che potevano purificare il cuore. Sapeva che Valmiki
era un bravo discepolo.
Narada non rimase molto tempo a riflettere, come se non avesse dubbi. Era evidente che pensava già a qualcuno in particolare e sorrise ancora, grato al suo discepolo per avergli dato l'opportunità di parlarne. Sembrava particolarmente felice. “Nella dinastia Ikshvaku,” rispose Narada, “è nato Rama, un uomo così nobile e virtuoso come mai questo mondo ne vide. Le sue qualità non hanno limiti ed è una grande gioia per me e per chiunque altro raccontarne le gesta. Se vuoi posso narrarti la sua sacra storia.” Valmiki assentì, felice, e il giorno vide i due saggi seduti all'ombra rinfrescante del gigantesco albero che parlavano della sacra storia del re Rama. L'atmosfera tutt'intorno era meravigliosamente serena e dolce, e mentre Narada si apprestava a raccontare la storia di Rama, i discepoli di Valmiki vennero e si sedettero tutt'intorno, attratti da quelle parole e da come si svolgeva la recitazione. Era dolcissima. Una storia così bella non era mai stata narrata prima di allora. Tutti provarono una grande ammirazione per quel re e per l'abnegazione con la quale governava il suo regno, ammirazione per i suoi principi morali, per l'amore che provava per il prossimo fino al punto di rinunciare a tutto ciò cui era più affezionato; e ammirazione per le sue qualità spirituali. Valmiki non riuscì mai a dimenticarla.
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Sul ramo dell'albero c'era una coppia di uccelli che amoreggiavano. Il saggio li guardava, meditando serenamente. All'improvviso la tragedia inaspettata: una freccia scagliata da un cacciatore nascosto trafisse il maschio, che cadde morto. La sua compagna sembrava impazzita dal dolore, tanto che non riusciva neanche a fuggire, e correva il rischio di finire uccisa anche lei. Valmiki guardava la drammatica scena e provò una pena profonda per gli uccelli, così violentemente strappati alla loro felicità. Poi sentì la collera scaturirgli dal cuore, incontrollabile, e decise di maledire il cacciatore. A voce alta, in modo da essere ascoltato, il saggio disse: “Tu hai colpito due uccelli mentre si accoppiavano, e per quest'atto ignobile mai otterrai alcuna fama.” Il cacciatore fuggì impaurito, temendo altre maledizioni. Mentre lo guardava fuggire, Valmiki si fermò pensieroso. Qualcosa aveva colpito la sua mente. La maledizione, come l'aveva pronunciata? Come aveva espresso il suo dolore? Involontariamente aveva manifestato la sua collera in versi perfetti, in un'espressione simmetrica e ritmata tale da poter essere recitata anche in musica. Nei giorni che seguirono rifletté a lungo. “Questa espressione che ho involontariamente creato è meravigliosa. Sembra fatta proprio per recitare poemi anche in musica. Diffonderò il suo uso in tutto il mondo. E siccome è nata dal mio shoka , i suoi versi saranno chiamati shloka.” Da allora i maggiori testi sacri furono scritti in shloka. Un giorno, dopo aver terminato i suoi riti religiosi e le sue abluzioni, il saggio tornò all'eremo. E lì, radiante della luce di mille soli, gli apparve Brahma, il primo essere nato, colui che ha progettato e costruito l'universo in cui viviamo. Stupito da quella improvvisa visione, Valmiki si prostrò in terra, offrendogli rispettose preghiere. Con voce profonda il grande Brahma gli rivolse queste parole: “O Muni, quella maledizione e la maniera con cui l'hai pronunciata, non sono state un caso. E’ accaduto per mio volere. Tu hai una missione in questo mondo e non devi più indugiare. Devi comporre il poema della vita del re Rama così come l'hai ascoltata da mio figlio Narada.” A quelle parole Valmiki si sentì il cuore pervaso da una grande gioia, e non solo per il fatto di avere davanti a sé Brahma, il figlio diretto di Vishnu, ma anche per quella richiesta che confermava ciò che già prima sentiva dentro di sé. Brahma non aveva fatto altro che ordinargli espressamente di fare ciò che lui sentiva come un dovere e anche come una precisa necessità interiore. Ma aveva dei dubbi. Ne sarebbe stato capace? E Brahma, comprendendo le sue perplessità, lo rassicurò. “Non preoccuparti. Non avere dubbi sulle tue capacità. Narra ciò che sai. E tutto ciò che ancora non sai ti sarà rivelato in meditazione. Dalla compilazione di questo poema otterrai fama imperitura, e sii certo che questa storia sarà recitata ed ascoltata fintanto che esisteranno i mari e le montagne.” “E tu vivrai felicemente e a lungo su questa terra,” continuò Brahma, “e poi godrai delle gioie dei pianeti celesti.” Dopo aver detto questo Brahma scomparve, e Valmiki si convinse che quella era la sua missione. 3
Quando Rama tornò sul trono di Ayodhya, Valmiki aveva completato la stesura del poema, composta di 24000 shloka. Dopo averlo terminato, pensò al modo di comunicarlo al mondo intero. Un giorno vennero a trovarlo i due principi Kusha e Lava che vivevano nella foresta. Essi non erano altri che i due figli di Rama nati dopo l'esilio di Sita. Valmiki quindi insegnò loro il Ramayana, chiedendo che andassero poi a cantarlo in giro per le città del mondo. E i due ragazzi furono felici di soddisfare il desiderio del grande saggio. La fama dei giovani e della storia che cantavano si diffuse velocemente ovunque. Nel loro peregrinare, un giorno Kusha e Lava arrivarono ad Ayodhya e cominciarono a cantare il Ramayana per le strade della favolosa città. Appena il re Rama venne a sapere che i due cantori erano arrivati nella sua capitale volle vederli, ignaro del fatto che fossero i suoi stessi figli. Li convocò nell'arena dove stava conducendo un grande sacrificio e, quando i due giovani entrarono, ammirò la loro grazia e la loro nobiltà di portamento. “La fama vostra e della storia che narrate,” disse loro Rama, “è arrivata alla mia conoscenza. Tutti ne parlano con grande entusiasmo. Mi è stato detto che il compositore è il venerabile Valmiki Muni, un saggio tra i più grandi e onorati che ci siano. Potete capire la mia curiosità. Vi prego, recitatela qui, davanti a me; cantate la storia di cui io stesso fui il protagonista.” E così Kusha e Lava cominciarono a cantare il grande poema, il
Ramayana.
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Ayodhya misurava 12 yojana in lunghezza (circa 153 chilometri) e tre in larghezza (circa 38 chilometri) ed era la più bella città mai esistita. Con tutte quelle opulenze i cittadini erano completamente soddisfatti e felici. Il re si chiamava Dasaratha, un raja pio e dotato di ogni virtù,
in tutte le qualità simile ai più grandi re della tradizione
vedica, così valoroso in combattimento che mai conobbe sconfitta.
Dasaratha era assistito da due famosi brahmana che si chiamavano Vasishtha
e Vamadeva. I brahmana a quel tempo erano le guide spirituali, coloro che
provvedevano non solo all'educazione spirituale, ma anche ad ogni altra
educazione necessaria alla vita terrena. I brahmana erano i saggi, gli
intellettuali, i sacerdoti, tenuti in grande riguardo da tutti i re del
tempo. Dasaratha aveva numerosi altri consiglieri, tutti famosi e rispettati
per la loro integrità, come Suyajna, Javali, Kasyapa Muni, Gautama,
Markandeya e Katyayana. E aveva otto ministri, fra cui il più conosciuto
era Sumantra.
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“Miei cari, voi conoscete il problema che mi assilla da tanto tempo. E’ come una spina nel fianco che non dà pace né a me né alle mie mogli. E non sono riuscito a capire il perché io non riesca ad avere figli. Il tempo corre ed io non vorrei avvicinarmi troppo alla vecchiaia prima di aver colto i frutti della vita. Vorrei sapere da voi se nei Veda sono previsti dei sacrifici al fine di propiziare i Deva. E’ possibile fare qualcosa per risolvere questo problema? Voi siete tutti eruditi e avete studiato le scritture in tutti i loro particolari. Sono certo che se qualcosa può essere fatto voi ne sarete a conoscenza.” “Buon re,” disse Vasishtha, come portavoce di tutti gli altri, “certamente esiste un sacrificio che può propiziarti i Deva, e sono sicuro che essi soddisferanno il tuo desiderio. Questo sacrificio è l'Asvamedha. Sono certo che se lo farai, presto otterrai un figlio che corrisponderà esattamente ai tuoi migliori desideri.” Ne discussero a lungo. Alla fine tutti furono concordi sulla necessità di celebrare l'Asvamedha-yajna. Il giorno dopo Sumantra, rivolgendosi al re mentre discutevano della preparazione del sacrificio, volle raccontare una storia. “Vorrei raccontarti la vecchia storia di come Sanat-Kumara predisse che un grande re sarebbe apparso nella tua dinastia e che sarebbe stato tuo figlio. Sanat-Kumara disse: “Kasyapa ha un figlio, Vibhandaka, il quale a sua volta avrà un fi-glio che si chiamerà Rishyasringa. Il giovane sarà un gioiello di eremita, con tutte le migliori qualità di un rinunciato, e osserverà con precisione e devozione tutti i più severi voti della vita di un brahmacari. E ci sarà un re chiamato Lomapada che commetterà delle atrocità, e a causa di queste il suo regno sarà colpito da una terribile siccità. I suoi sudditi patiranno molti stenti. La calamità, gli sarà detto, sarebbe cessata solo se il giovane saggio Rishyasringa fosse venuto a visitare il suo regno. Così il re sarà costretto a mandare nell'eremo delle bellissime donne, esperte nell'arte della seduzione, per convincerlo a venire con loro, a seguirle fino alle terre di Lomapada. “I saggi generalmente non amano visitare città affollate e chiassose, per cui Lomapada non vedeva altra soluzione che quella di attirarlo con l'inganno. E nel momento in cui Vibhandaka non sarà presente, le ragazze sedurranno l'ignaro asceta. Così Rishyasringa verrà nel regno di Lomapada e la siccità terminerà. E per placare la rabbia del padre, Lomapada darà sua figlia Shanta in sposa a Rishyasringa.” (Sanat Kumara continuò la narrazione). “Nella linea di Ikshvaku nascerà un re pio di nome Dasaratha, che sarà un grande amico di Lomapada. Egli avrà difficoltà ad avere figli, ma se farà eseguire il sacrificio Asvamedha a quello stesso Rishyasringa, vedrà soddisfatto il suo desiderio.” “Convoca dunque quel rispettabile santo,” concluse Sumatra, “e sii sicuro che grazie alla sua purezza otterrai certamente l'oggetto del tuo desiderio.” Dasaratha fu felice di sentire che anche prima della propria nascita
Sanat-Kumara aveva parlato di lui, e si convinse che quella era la strada
da seguire.
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E cominciò. Dasaratha e le sue regine al bordo dell'arena erano ansiosi e preoccupati per la riuscita finale, ma la fiducia verso il famoso asceta che guidava lo yajna era totale. Al cenno di Rishyasringa, Dasaratha e le regine si sedettero di fronte al fuoco e il re disse a voce alta: “Questo sacrificio è stato celebrato con la precisa intenzione da parte mia di avere figli, giacché un destino misterioso mi ha condannato a non averne. La mia dinastia non può interrompersi, per cui è necessario per me avere un successore.” “O re virtuoso,” rispose Rishyasringa, “il tuo desiderio sarà
esaudito.”
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“Oramai non c'è più limite ai soprusi che il terribile Rakshasa Ravana sta infliggendo all'umanità intera. Regni distrutti, città rase al suolo, mucche e saggi trucidati, donne rapite e violentate. E molto di più. Noi non possiamo nulla contro la potenza di quell'essere malvagio, che tu hai reso invincibile. Ti preghiamo, intervieni e ristabilisci la pace e la serenità.” “Voi sapete come io,” rispose Brahma, “abbia benedetto Ravana a essere praticamente invulnerabile, realmente invincibile. Egli non può essere ucciso da nessuno. Questo è dunque un grave problema sul quale ho già meditato a lungo, ma non sono ancora riuscito a trovare una soluzione. Solo un essere della specie umana potrebbe ucciderlo, ma non esiste un uomo tanto potente. E nessuno di noi Deva può fare niente contro di lui. Ma bisogna trovare una soluzione. L'emergenza è della massima gravità. Ho quindi preso la decisione di rivolgermi a Vishnu, il Signore Supremo. Sono certo che Egli ci aiuterà a porre fine a questo incubo.” Brahma si chiuse in una profonda meditazione: aveva un aspetto così solenne e imperturbabile che sembrava che nulla potesse scuoterlo. Non molto tempo dopo Vishnu apparve. “Io so quante angherie state subendo dal malvagio Rakshasa. Proprio
per porre fine alle sue malefatte io, diviso in quattro personalità,
apparirò come figli di Dasaratha. In questo modo porrò fine
alla carriera sciagurata di Ravana.”
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“Dasaratha, sono stato mandato dai Deva per soddisfare il tuo grande desiderio e necessità. Brahma in persona mi ha incaricato di darti questo succo divino chiamato payasa. Ascoltami: fallo bere alle tue spose ed esse concepiranno delle incarnazioni di Vishnu.” Dasaratha si alzò e prese il recipiente dalle mani dell'inviato dei Deva, che immediatamente scomparve. E lo porse alla sua prima moglie Kausalya e le disse di berne metà. Poi lo dette alla sua seconda moglie Sumitra e le chiese di bere metà del rimanente. Ciò che rimase lo porse alla terza moglie, chiedendole di fare lo stesso, e cioè di bere la metà di ciò che era rimasto. E l'ultima metà la fece bere ancora a Sumitra. Questo fu il criterio con cui Dasaratha distribuì il succo divi-no consegnatogli dal messaggero celeste. Chiari segni di gravidanza furono visibili istantaneamente nelle regine:
Narayana, Vishnu, era già entrato nei loro corpi.
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“Vishnu vuole aiutarci. A questo scopo è già sceso sulla Terra, e voi dovete aiutarlo nella sua missione. Scendete nel mondo degli uomini e incarnatevi anche voi in forme diverse. Dal ventre delle Apsara producete una razza di Vanara veloci come il vento e invincibili in guerra, e che siano estremamente forti e intelligenti. Agite così, dunque, senza nessun indugio, per il bene della popolazione dell'universo.” Brahma dette l'esempio: fu il primo e generò Jambavan, il re
degli orsi, nato da uno sbadiglio. Indra produsse Vali, che era alto come
una montagna; e Vivasvan procreò Sugriva; e Brihaspati l'intelligente
Taraka; e Kuvera generò Gandhamadana. Da Visvakarma nacque Nala;
e da Agni, Nila; dai due Asvini Kumara, Mahinda e Dvivida; da Varuna, Sushena;
e da Paijanya, Sarava. Vayu, il Deva del vento, generò il grande
devoto Hanuman. Tutti i grandi Deva e saggi celesti procrearono potenti
scimmie e orsi, dai corpi duri come il diamante e valorosissimi in guerra,
che velocemente cominciarono a discendere sulla Terra.
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I bambini crescevano giorno dopo giorno, pieni di tutte le buone qualità. Erano belli, forti, abili, coraggiosi, gentili, virtuosi e devoti ai princìpi della religione. Tutte queste qualità erano presenti nei figli di Dasaratha, che non sapeva nascondere la sua gioia e il suo amore verso i ragazzi. In particolare Rama era il più amato, e non soltanto dal padre, ma anche da chiunque lo conoscesse. Fin dall'infanzia Lakshmana sentì un amore spontaneo verso il fratello maggiore e i due non si separavano neanche per un momento. Satrughna, invece, sviluppò un sentimento particolare per Bharata. Ma non ci furono invidie o competizioni fra di loro: i quattro si amavano tutti di un profondo amore fraterno. 11
“O grande Rishi, santi come te purificano ogni luogo che visitano. Io sono felice del tuo arrivo e voglio prometterti di soddisfare qualsiasi tua necessità, anche se so che asceti del tuo calibro non hanno alcuna esigenza. Tuttavia voglio sperare che tu sia venuto qua con qualche richiesta. Ne sarei felice, così potrei impegnarmi al tuo servizio.” Il saggio aveva un'espressione grave, ma una vivida luce di santità e di misericordia emanava dai suoi occhi scuri. Era visibilmente soddisfatto per la completa disponibilità del re. Senza fretta alcuna parlò: “In realtà sono venuto qua con una richiesta precisa,” disse Visvamitra, “che nasce da problemi che ostacolano la mia tranquillità e quella degli altri eremiti con i quali vivo. Sono venuto a chiederti assistenza.” Dasaratha si sentì contento di poter fare qualcosa per un saggio così famoso. “Qualunque sia l'ostacolo, fa conto che non esista già più,” rispose Dasaratha con entusiasmo. “Niente in questo mondo deve ostacolare la vita di chi lavora nel proprio spirito per il beneficio di tutti. Dimmi, qual è il tuo problema?” “In questo periodo,” disse l'asceta, “stiamo svolgendo delle cerimonie sacrificali di grande importanza, ma due Rakshasa ci impediscono di portarle avanti, disturbando la procedura prevista. Essi gettano cose sporche e contaminate nell'arena che invece deve sempre essere tenuta pura. Io vorrei che i due malvagi, Maricha e Subahu, siano uccisi e che la pace torni nelle nostre vite.” “O Visvamitra,” disse Dasaratha, “io stesso partirò oggi per porre fine alla vita dei due malfattori. Non temere. Presto i vostri yajna potranno riprendere tranquillamente come prima.” Ma il Rishi non sembrava contento. “No, re virtuoso. Non voglio che tu venga. Ti chiedo di affidarmi i tuoi figli Rama e Lakshmana. Saranno loro a distruggere i Rakshasa.” “Rama e Lakshmana?” esclamò Dasaratha. “Ma sono poco più di due ragazzi.” Visvamitra lo guardò leggermente irritato. “Lo so. Ma ho motivi validi per chiederti loro, e non te in persona
o altri.”
“O saggio, io non sono mai stato sconfitto in battaglia. Non puoi dubitare che io sia capace di ottenere il risultato. Non temere: io con il mio esercito distruggerò i due Rakshasa.” Vedendo Dasaratha agitato, Visvamitra aggrottò le sopracciglia,
infastidito dalla mancanza di fede del re. La sua voce diventò ancora
più cupa e profonda.
Vedendo il saggio deciso nell'intento e pensando al grave pericolo che correvano i suoi figli, Dasaratha si sentì mancare. I suoi ministri accorsero per sorreggerlo. Si riebbe in tempo per sentire la voce grave di Visvamitra che tuonava. “Quando sono entrato mi hai promesso che mi avresti dato qualsiasi cosa. Ma vedo che non vuoi mantenere la promessa!” Si alzò e fece l'atto di andarsene col volto visibilmente irato, quando il sapiente Vasishtha lo chiamò, fermandolo. “Grande Visvamitra, non essere adirato con il nostro re. Egli vuole sinceramente renderti servizio, ma ha paura per i ragazzi. Attendi ancora un momento, io gli parlerò. Lo convincerò ad avere fede nella protezione che saprai dare loro.” Il Rishi si fermò e Vasishtha si rivolse al re. “Rama e Lakshmana non corrono alcun pericolo,” lo ammonì. “Ricordati che Rama è nato per la distruzione di tutti i Rakshasa e che inoltre è protetto da Visvamitra, il quale potrebbe uccidere egli stesso Maricha e Subahu se non fosse impegnato in quel sacrificio. Non preoccuparti. Manda con lui i tuoi figli a cuor sereno e presto li vedrai tornare vittoriosi e radianti gloria.” Dopo mille incertezze, Dasaratha acconsentì. |