Ramayana
La Storia dell'Avatara Sri Rama
di Valmiki Muni

 

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seconda parte


BALA KANDA
12
Nella foresta
In giornata Visvamitra, Rama e Lakshmana lasciarono Ayodhya e si addentrarono nella foresta. Gli uccelli, il vento, persino i colori sembravano cantare la stessa canzone di pace e di serenità. La foresta era di una bellezza straordinaria, celestiale, che conduceva con naturalezza a pensieri di virtù. I due fratelli erano sereni e seguivano il saggio con rispetto. In compagnia di quel Muni così erudito il viaggio si rivelò piacevole e istruttivo. Visvamitra raccontò molte storie e mostrò loro svariati luoghi santi, narrando sul posto storie avvincenti.
Dopo qualche giorno di cammino, i tre giunsero in un'altra parte della foresta. L'aria non era più la stessa, si respirava un'atmosfera tesa e demoniaca; Rama avvertì subito che erano entrati in un luogo diverso, non sereno e tranquillo come gli altri. Qua e là giacevano le ossa di vari animali e anche di uomini.
L'aria vibrava e metteva a disagio. Rama vide che anche Visvamitra aveva perso la sua allegria e la sua loquacità.

“Vedo che c'è qualcosa che ti preoccupa,” gli chiese. “Io vedo chiaramente sul tuo viso i segni del disagio. In questa parte della foresta l'atmosfera non è più la stessa, non sento più gli uccelli cinguettare e non vedo neanche tanti animali. Dimmi. C'è qualcosa di particolare in questo luogo?”

“Si, è vero,” ammise Visvamitra. “Questa foresta non è come tutte le altre perché da molti anni qui vive Tadaka, una terribile Rakshasi. Tu sai che generalmente questi esseri sono molto malvagi e provano piacere nel mangiare carne, specialmente quella umana, e nel bere sangue. Oltre a questo hanno molti poteri mistici e in combattimento sono valorosi.”

“Mi sembra di capire,” replicò Rama, “che la presenza di costei è fonte di sofferenza per molte persone. Vuoi che io faccia qualcosa a proposito?”

“Guarda queste ossa e senti il tanfo che c'è nell'aria,” fu la risposta. “Neanche gli animali passano più per questi sentieri. Una volta questa era una foresta piacevole e piena di gioia. Tadaka l'ha fatta diventare un deserto squallido e orrendo. Per questo è bene che tu la uccida.”

“Ho già sentito parlare di Tadaka,” disse Rama incuriosito, “e vorrei sapere qualcosa a suo riguardo. Raccontami la storia della sua vita.”

Fermandosi sul posto, il Rishi guardò Rama e Lakshmana e con calma raccontò.

“Una volta Tadaka non era l'orribile demone che è ora. E’ diventata tale in seguito. Ascolta:

“Una volta c'era uno Yaksha di nome Suketu. Era una persona dal cuore puro e gentile, ma non aveva figli e se ne rattristava. La sua divinità era Brahma e la serviva con grande devozione. Brahma fu soddisfatto della sua devozione e gli concesse una figlia dotata di una grande forza fisica. Questa era Tadaka.

“Lei sposò Sunda ed ebbe un figlio di nome Maricha. In seguito Sunda fu ucciso dal Muni Agastya e i due decisero di vendicare la morte del familiare. Venendo a conoscenza delle loro intenzioni, il saggio lanciò una potente maledizione e Tadaka e suo figlio Maricha diventarono Rakshasa crudeli e orribili.

“Sia Tadaka sia Maricha sono un pericolo continuo per la gente pacifica. Il tuo dovere di kshatriya, quindi, è quello di ucciderla e di alleviare così le sofferenze degli indifesi.”

Intenzionato ad agire come Visvamitra desiderava, con grande decisione Rama cominciò a fare rumore scuotendo i rami degli alberi, per attirare l'attenzione di Tadaka. Sentendo quei rumori molesti la demone, che non era lontana, si mise ad ascoltare cercando di capire quale potesse esserne la causa. Non riuscendo a capire cosa potesse fare così tanto fracasso, corse sul posto per vedere di persona. Lì vide i tre. Con voce che sembrava provenire da una caverna profonda disse:

“Chiunque tu sia, uomo temerario, sei arrivato nell'ora giusta. Ho fame e oggi la placherò con le tue carni.”

Con grande irruenza Tadaka attaccò. Ma Rama si difese e dopo un breve combattimento la uccise. Appena la Rakshasi ebbe esalato l'ultimo respiro, Visvamitra abbracciò Rama e gli insegnò l'uso di certe armi celestiali. Con queste Rama divenne ancora più forte nei confronti di qualsiasi nemico.

Durante il viaggio i tre arrivarono nell'eremo di Vamadeva e Visvamitra narrò la sua storia.
 


13
Combattimento con Maricha e Subahu

Finalmente Visvamitra, Rama e Lakshmana arrivarono nello stupendo luogo dove il saggio viveva e svolgeva le sue austerità e i suoi sacrifici. Lì c'erano molti asceti impegnati nei servizi più disparati, e tutti emanavano una luce di purezza e di serenità. Quasi tutti vestiti di semplici stoffe di cotone arancione, avevano i capelli raggruppati in cima alla testa. La scena era idilliaca e Rama si sentì felice e risollevato. Quanta spiritualità emanava da quel luogo! Quando un uomo stanco delle illusioni della vita materialistica desiderava volgersi dentro di sé per trovare il vero senso della propria esistenza, andava in uno di questi ashrama, o luoghi dove si praticava la vita spirituale. Gradualmente il bruciore dei desideri, della collera e dell'invidia si placava e una nuova coscienza sorgeva dal cuore. Era la coscienza di Dio, quella che rendeva realizzati nel sé. Nell'ashrama di Visvamitra si respirava una forte atmosfera spirituale.

Visvamitra non voleva indugiare ancora e cominciò i preparativi per lo yajna. In poco tempo tutto fu pronto e la cerimonia ricominciò. Rama e Lakshmana si misero in guardia con attenzione, guardandosi intorno costantemente. Non mangiarono né dormirono per sei giorni e sei notti.

Al sesto giorno si udì un sordo brontolio provenire dal cielo. E mentre gli asceti continuarono imperterriti a recitare i mantra vedici e a gettare ghi nel fuoco sacro, Rama e suo fratello capirono che i demoni erano in arrivo. Si scambiarono uno sguardo di intesa. E dal cielo cominciarono a cadere oggetti immondi: pezzi di carne, sangue, interiora, urina, escrementi e ogni altro genere di sudiciume. Si udì una violenta e agghiacciante risata e la pioggia demoniaca aumentò. Rama reagì cominciando a scagliare frecce verso l'alto con una tale velocità da creare una gigantesca cupola fatta di frecce attraverso la quale niente poteva filtrare. Maricha e Subahu si stupirono di ciò che stava accadendo e cominciarono a far cadere enormi macigni. Ma Rama respinse anche quelli. A quel punto i Rakshasa capirono di avere a che fare con un avversario degno di seria considerazione e smisero di giocare. Attaccarono dunque i due giovani principi.

Dopo un violento combattimento Rama uccise Subahu e scaraventò Maricha a molti chilometri di distanza, utilizzando l'arma chiamata vayavya-astra, che creava un vento impetuoso. L'ultimo suono che si sentì fu il grido di rabbia di Maricha. I Rakshasa erano sconfitti, da quel giorno in quella foresta la vita dei Rishi sarebbe stata molto più tranquilla.

I santi personificano i principi della religione e quando questi sono in pericolo Vishnu si incarna e li protegge. Questa è la sua solenne promessa.
 


14
L'arco di Shiva

Rama e Lakshmana erano contenti della riuscita del loro compito e quando il sacrificio fu terminato si presentarono davanti al saggio.

“Quegli esseri malvagi sono stati sconfitti e non vi recheranno più alcun disturbo. Dicci, cosa possiamo fare ancora per te?”

Visvamitra sorrise e chinò la testa in avanti esprimendo la sua felicità per il successo ottenuto e approvazione per l'atteggiamento umile dei principi.

“Sapete, il re di Mithila, Janaka, sta per eseguire un grande sacrificio. Egli ha un arco che una volta era l'arma personale di Shiva. Poi il Dio la dette al re Devarata, che in seguito lo donò a Janaka. Ma non era un arco normale. Nessuno riesce neanche a impugnarlo, che dire di usarlo. Miei valorosi principi, se volete possiamo andare a Mithila ad ammirare l'arco di Shiva.”
 


15
La liberazione di Ahalya

Di buon grado i due principi accettarono la proposta, e così ripartirono. Passando per favolose foreste, attraversando freschi ed incontaminati fiumi e ruscelli, parlavano di antiche storie di saggi e di Deva. Visvamitra raccontò vicende del suo albero genealogico e la stupenda storia della sua vita. Una notte raccontò anche la storia del fiume Gange e della sua discesa nei pianeti mediani e inferiori. Poi il piccolo gruppo arrivò nell'eremo dove viveva ancora Ahalya. Visvamitra raccontò la sua storia.

“Molto tempo fa questo eremo apparteneva al santo Gautama che, assistito dalla moglie Ahalya, praticava severe austerità. A quei tempi non esisteva donna più bella di lei, tanto che persino Indra, il re dei pianeti celesti, se ne invaghì. Un giorno in cui Gautama si era allontanato dall'eremo, Indra decise di prendere le sue sembianze pensando di ingannare Ahalya, ed entrò nella capanna.

“Indra chiese alla donna di giacere con lui. Ahalya lo guardò. Si era accorta che non era suo marito, e aveva anche capito che si trattava di Indra, ma accettò. Dopo il rapporto sessuale Indra si sentì preso dal panico per paura che Gautama potesse tornare e trovarlo lì. Si alzò velocemente e fece per fuggire, ma inutilmente: Gautama era tornato, era già lì, dietro la porta. Vedendo Indra fuggire, capì l'accaduto e lo maledì con violenza:

“Tu sei entrato nel mio ashrama e prendendo le mie sembianze hai goduto del corpo di mia moglie. Per questo atto vile tu diventerai impotente.”

“Mentre Indra fuggiva, Gautama si volse verso la moglie che tremava come una foglia per la paura. Guardandola intensamente, disse:

“E tu, cara moglie, tu non mi sei stata fedele. Tuttavia il mio sentimento per te non è mutato. Ti purificherai dal tuo peccato vivendo per molti anni in questo eremo con un corpo invisibile agli occhi degli uomini e mangerai solo aria. Dormirai in un letto di cenere e soffrirai di un rimorso senza limiti. Ma quando Rama, il figlio di Dasaratha, visiterà questo luogo tu sarai libera dalla mia maledizione e torneremo a vivere insieme.”

“Ahalya fu felice di poter purificare così la sua colpa,” continuò Visvamitra, “e di poter tornare un giorno a vivere felicemente con il marito. Indra riacquistò la capacità sessuale dopo molto tempo e fatica, ma Ahalya ancora aspetta di essere liberata dalle sue pene. Spetta a te ridarle la pace. Entra quindi nell'eremo.”

Appena Rama fu entrato vide davanti a sé una stupenda donna che lo guardava con occhi riconoscenti. Pochi istanti dopo apparve il saggio Gautama, che ringraziò di cuore il principe e poi, insieme, scomparvero.
 


16
L'incontro con Sita

Non erano trascorsi molti giorni dalla partenza quando entrarono a Mithila, decorata e pervasa da una grande aria di festa.

Visvamitra li condusse subito all'arena del sacrificio del re Janaka e si annunciarono. Pochi istanti dopo videro Janaka, accompagnato dai suoi ministri più importanti, uscire per riceverli personalmente. Offrì un puja al santo Visvamitra e gli lavò i piedi con grande umiltà. Dopodiché furono fatti accomodare. Janaka si rivolse a Rama.

“Caro giovane principe, tu conosci la storia dell'arco di Shiva?”

Rama assentì.

“Sì. Visvamitra me ne ha parlato e sono anzi curioso di vederlo”, rispose.

“Questo arco è così pesante,” raccontò Janaka, “che nemmeno i re più potenti della terra sono stati neanche in grado di spostarlo. Io sono deciso a dare mia figlia Sita in sposa a chi riuscirà a impugnarlo e a porgli la corda.”

Il re raccontò in breve la storia della nascita della figlia e poi la fece chiamare. Quando Sita entrò, Rama la guardò, come folgorato. Aveva già sentito parlare di lei, ma non si aspettava una donna simile. Sita risplendeva di una bellezza che non era di questo mondo, ma che proveniva dal mondo dove le forme non hanno difetti o limitazioni. Non aveva mai visto una donna tanto bella. Oltre alla bellezza fisica, da Sita emanava una luce profonda di castità e di santità e questo la rendeva ancora più irresistibilmente attraente.

E Sita guardò Rama; e appena lo vide il suo cuore cominciò a battere impetuosamente. Il principe era meraviglioso: aveva gli occhi simili ai petali dei fiori di loto, i capelli neri e lunghi che gli scendevano lungo le spalle, e ogni sua fattezza era un inno alla bellezza. Come i loro sguardi si incontrarono l'amore eterno che li legava si risvegliò e inondò i loro cuori. Vishnu e Lakshmi si incontravano in un'altra circostanza, in un'altra situazione, uniti dallo scopo divino che era il fine di quella loro incarnazione. Castamente, Sita abbassò la testa e arrossì. In cuor suo sperò che Rama desiderasse provare a sollevare l'arco e che ci riuscisse. Rama contemplava colei che era la sua compagna eterna e non riusciva a distogliere lo sguardo.

“Se me lo concedi vorrei vedere il sacro arco di Shiva,” disse poi.

Janaka ordinò che l'arco fosse portato nel salone. Dopo poco, l’arma fu introdotta su un gigantesco carro tirato da dieci uomini.

“Guarda, o figlio di Dasaratha,” proclamò Janaka. “Io ti ripeto l'offerta che ho già annunciato a tanti prima di te: se riuscirai a impugnarlo e a fissare la corda, io ti darò mia figlia Sita in sposa.”

Rama cercò con lo sguardo il permesso di Visvamitra, il quale sorridendo mosse la testa affermativamente. Il principe si avvicinò all'arco, lo guardò, lo toccò, gli offrì rispettosi omaggi e poi lo afferrò. Tutti trattennero il respiro. E tra lo stupore di tutti, Rama lo sollevò senza alcuno sforzo apparente. Nei pianeti celesti Shiva danzò in estasi e tutti i Deva manifestarono la loro gioia. Poi, per mettergli la corda, lo piegò in modo così energico che con un boato assordante l'arco si spezzò in due. Tutti persero coscienza, eccetto i saggi presenti, Janaka, Rama e Lakshmana.

Con grande felicità il re concesse Sita a Rama.
 


17
Il matrimonio di Sita e Rama

La notizia dell'accaduto arrivò presto ad Ayodhya. Dasaratha fu felice che suo figlio sposasse la bellissima e casta Sita, famosa in tutto il mondo per le sue qualità, e fu anche felice di allearsi con un re potente e virtuoso come Janaka. Con le sue mogli, i suoi figli, i suoi ministri e con molti soldati, Dasaratha partì per Mithila.

Così Rama sposò Sita, e Lakshmana sposò la sorella di Sita. Janaka aveva un fratello di nome Kusadhvaja, il quale aveva due figlie. Bharata e Satrughna si unirono alle due figlie di Kusadhvaja.

Dopo che il matrimonio fu celebrato, Dasaratha salutò calorosamente Janaka e ripartì con il suo seguito, i suoi figli e le loro rispettive spose.
 


18
Incontro con Parasurama

La giornata era bella e il sole era alto nel cielo. Tutto sembrava esprimere felicità e assenza di problemi. Sita e Rama, contemplandosi l'un l'altra, parlavano di mille cose. Ma anche in quel momento di gioia un pericolo era in agguato. E' probabilmente la natura stessa di questo mondo: l'innocenza di ogni passo cela un pericolo potenziale. All'improvviso si levò un forte vento e il cielo si oscurò: i cavalli, spaventati, nitrirono forte. Dasaratha guardò Sumantra.

“Questa non è una normale tempesta. La giornata è calma e pochi istanti fa non c'era un filo di vento. Ci sono molti segni che fanno presagire un pericolo.”
Anche Sumantra sentiva l'ansietà crescere in sé.

“Sì, è vero. Qualcosa sta per accadere. Vigiliamo.”

D'un tratto si fece buio. Si udì un tuono e tornò la luce del giorno. Illuminato da una luce di gloria Parasurama, l'incarnazione divina che sterminò ventuno volte l'intera razza degli kshatriya, era davanti a loro, e teneva saldamente la sua ascia nella possente mano. I suoi occhi erano di fuoco, la sua figura e il suo stesso nome incutevano terrore a ogni guerriero. Parasurama si era fermato in mezzo al sentiero e impediva loro di proseguire il cammino. I soldati di Dasaratha tremavano di paura, perché ben conoscevano la fama dell'invincibile Parasurama. I brahmana mormorarono:

“Cosa vorrà da noi il figlio di Jamadagni? Vorrà forse ricominciare lo sterminio degli kshatriya? La sua vendetta è stata compiuta molto tempo fa; cosa potrà volere da noi?”

Prontamente Dasaratha scese dal carro e offrì tutti gli onori al brahmana che un giorno adottò la vita del guerriero. Ma era evidente che Parasurama aveva uno scopo ben preciso per fermare la colonna del re. E si sentì la sua voce, risoluta, solenne.

“Dov'è tuo figlio Rama?”
Rama fece un passo avanti e chinò la testa in segno di rispetto. Pa-rasurama lo guardò.

“Tu hai commesso il sacrilegio di rompere l'arco di Shiva e io devo punirti per questo.”

Dasaratha era terrorizzato. Cercò di parlare al potente brahmana, ma egli lo ignorò: aveva occhi solo per Rama.

“C'è un arco simile a quello che tu hai spezzato,” riprese Parasurama. “Quei due archi furono fatti da Visvakarma e servirono nel combattimento che doveva decidere chi fosse il più forte tra Vishnu e Shiva. Io non capisco come tu possa aver rotto quell'arco, ma voglio vedere se riesci a tenere anche solo nella mano l'altro.”

Con un boato assordante l'arma di Vishnu comparve nella mano di Parasurama. Lo porse al principe, sereno nonostante l'incombente pericolo. Rama lo prese senza sforzo alcuno, guardandolo con aria tranquilla, priva di qualsiasi ansietà. Parasurama era stupito: come poteva quel giovane principe, dopo aver rotto l'arco di Shiva, tenere nella mano quello di Vishnu? Poi capì: solo Vishnu stesso poteva fare una cosa del genere. E i due scomparvero alla vista di tutti.

“Tu sei il Dio Supremo, Vishnu incarnato sulla terra,” pregò Parasurama con le mani giunte. “Perdona la mia impudenza: non sapevo chi fossi tu in realtà.”

Rama pose una freccia sull'arco e tese la corda.

“Una volta incoccata, questa freccia non può più essere ritirata. Deve colpire e distruggere qualcosa. Dimmi, cosa vuoi che distrugga?” disse Rama con fermezza.

“Distruggi i pianeti che ho meritato con le mie austerità,” fu la risposta.

E la terribile freccia partì e distrusse quei pianeti. Offrendo i suoi omaggi a Rama, il brahmana scomparve.

Finalmente Dasaratha vide ricomparire suo figlio, ma non riusciva a capire come fosse scampato a un simile pericolo. Poco dopo ripartirono, e giunsero ad Ayodhya, festeggiati dal popolo che li aspettava.
 


19
Gli anni di felicità

Qualche anno dopo Dasaratha mandò Bharata e Satrughna a Kekaya a trovare Yudhajit, lo zio materno. Il glorioso principe Rama passò così dodici anni di felicità con la moglie Sita. I due erano inseparabili, mai potevano essere visti l'uno senza l'altra. In realtà non potevano sopportare neanche un momento di separazione. Come Lakshmi e Vishnu aumentavano la loro felicità e la loro bellezza stando l’uno accanto all'altra, Rama e Sita risplendevano sempre più non separandosi mai, neanche per un momento.

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