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letteratura
Yu Hua, Autobiografia
Lanciotti, Simbolismo del sangue
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Yu Hua

Autobiografia1


Sono nato in un ospedale di Hangzhou il 3 aprile 1960, a mezzogiorno, probabilmente al Centro di Salute per donne e bambini. A quel tempo mia madre lavorava all'ospedale del Zhejiang, mio padre invece presso la stazione di prevenzione delle epidemie della stessa provincia. I miei genitori non mi hanno mai raccontato nulla del giorno in cui nacqui. Ricordo che erano impegnati dalla mattina alla sera e che ogni giorno non riuscivano a finire tutto quello che avevano da fare. Non li ho quasi mai visti, nei loro momenti di tempo libero, seduti insieme a parlare del passato o di me, della nascita del loro secondo figlio. Talvolta mia madre narrava qualche episodio della nostra vita a Hangzhou e nel farlo rievocava i sentimenti di allora; ci raccontava della casa in cui vivevamo e del paesaggio circostante. A questi ricordi sono profondamente legato, ed anche se abbiamo vissuto a Hangzhou soltanto per un breve periodo, non smetterò mai di fantasticare sulla mia felice infanzia lì trascorsa.

Quando avevo un anno, mio padre lasciò Hangzhou per andare in una cittadina di nome Haiyan in cui realizzò il suo più gran desiderio: diventare un medico chirurgo. Nel corso di tutta la sua vita, aveva frequentato corsi regolari di studio soltanto per sei anni, tre alla scuola elementare e tre all’università; a livello intermedio, invece, si era preparato da solo quando era medico generico nell'esercito. Una volta laureatosi all’Università Professionale di Medicina del Zhejiang, non volle più tornare al centro di prevenzione delle epidemie. Per esercitare la professione di chirurgo andò a Jiaxing, ma da qui fu mandato in una scuola di medicina nelle vesti di amministratore scolastico; fu quindi solo alla fine che arrivò nell'ancor più piccola Haiyan. La mamma, dopo aver ricevuto una lettera in cui mio padre tesseva lodi smisurate di Haiyan, rinunciò alla vita di Hangzhou e si trasferì con me e mio fratello a Haiyan. "Non si riesce a vedere neanche una bicicletta", era solita dire lei per sintetizzare ciò che aveva provato appena arrivata a Haiyan.

I ricordi che ho di Haiyan iniziano proprio da questa frase. Mi vengono in mente la strada lastricata di pietra ancor più stretta di uno hutong2 ed i pali della luce, lungo i suoi due lati, da cui si diffondeva una specie di ronzio. L’ospedale in cui lavoravano i miei genitori sorgeva lungo le rive di un fiume: sulla riva meridionale vi era il padiglione per i pazienti ricoverati, su quella settentrionale gli ambulatori e la mensa. Il ponte di legno molto stretto che collegava le due rive traballava tutte l e volte che cinque o sei persone vi camminavano contemporaneamente. Inoltre al centro del ponte di assi di legno c’era una larga fessura in cui il mio piede s’incastrava con gran facilità. La vista dell’acqua del fiume che scorreva oltre la fessura riusciva sempre a spaventarmi. D’estate i colleghi dei miei genitori sedevano spesso sul parapetto del ponte a fumare e a chiacchierare. Per me erano creature straordinarie perché, nonostante il parapetto fosse irregolare e traballante, essi apparivano ai miei occhi incredibilmente tranquilli.

Mia madre dice spesso che ero un bambino molto obbediente. Mi racconta che quando ero piccolo non litigavo mai con nessuno, ero silenzioso e facevo sempre quel che mi si chiedeva. Tutte le mattine mi accompagnava all’asilo e quando la sera veniva a prendermi, mi ritrovava nello stesso posto in cui mi aveva lasciato la mattina. Me ne stavo seduto lì in disparte mentre alcuni compagni giocavano accanto a me.

A quattro anni cominciai a tornare a casa da solo. A dire il vero mi riaccompagnava a casa mio fratello, più grande di me di due anni; lui però mancava spesso ai suoi doveri. Infatti, sulla via del ritorno era capace di dimenticarsi di me all'improvviso pe r correre da solo a giocare. Rimanevo impalato ad aspettarlo, ma, non vedendolo ritornare, ero costretto ad andare a casa senza di lui. Per ricordare più facilmente la strada del ritorno, l'avevo divisa in due tratti. Prima dovevo andare avanti senza mai g irare fino all’ospedale; una volta lì, mi sarebbe stato facile ricordare la strada che conduceva a casa: sarei dovuto entrare nel vicolo di fronte all'ospedale e, costeggiandolo, percorrerlo tutto fino alla fine.

I miei successivi ricordi sono di quando io e mio fratello rimanevamo a casa. Il papà e la mamma, quando uscivano per andare al lavoro, ci chiudevano a chiave dentro casa. Noi stavamo spesso affacciati alla finestra per guardare fuori. Abitavamo nella parte finale di un vicolo, ma in realtà era come vivere in campagna. Stavamo a fissare a lungo i contadini che coltivavano i campi e i loro figli che andavano e venivano lungo i terrapieni tra un campo e l'altro, trasportando ceste piene d’erba tagliata. Al nostro spettacolo preferito assistevamo però verso sera, quando i contadini terminavano di lavorare. Prima un uomo in piedi sul terrapieno gridava: “abbiamo finito di lavorare per oggi!”; poi i contadini che erano nei campi, uno dopo l’altro, lo raggiungevano. Da lì, anche alcuni di loro si mettevano a gridare che il lavoro di quella giornata era terminato. In genere ad urlare erano le donne. Nel susseguirsi di grida vicine e lontane, io e mio fratello osservavamo i contadini camminare sul terrapieno, a gruppi di due o tre, con la zappa in spalla e con i bilancieri vuoti. Poi le donne cominciavano a chiamare a squarciagola i loro figli che si mettevano a correre con le ceste in mano; spesso qualcuno di loro cadeva a terra perché correva troppo velocemente.

Ho la sensazione che i miei genitori non fossero mai a casa; talvolta io e mio fratello siamo rimasti per sere intere da soli e senza poter uscire perché la porta era chiusa a chiave. L'unico nostro divertimento era spostare da un posto all’altro della cas a sedie e altri oggetti. Poi ci mettevamo anche a lottare; quando mio fratello mi colpiva io, che avevo sempre la peggio, scoppiavo in lacrime e aspettavo, piangendo, che papà e mamma tornassero a casa e lo punissero. Il momento più duro era quando, non vedendoli ritornare, me ne andavo a dormire senza quasi più voce per il gran piangere.

In quel periodo mia madre lavorava spesso in ospedale fino a tardi; verso sera passava a casa per darci da mangiare quello che aveva comprato per noi alla mensa dell'ospedale e poi tornava in gran fretta al lavoro. A volte non riuscivo a vedere mio padre p er giorni interi; la mamma diceva che era occupato in sala operatoria. Capitava spesso che egli tornasse a casa soltanto dopo che noi eravamo andati a dormire e, prima che fossimo svegli, era stato già richiamato all’ospedale. Da piccolo, quasi tutte le se re nel sonno sentivo qualcuno sotto casa gridare: "Dottor Hua, dottor Hua. ... un’emergenza”.

Una volta che mio fratello ebbe l’età per andare a scuola, non poté essere più chiuso dentro casa ed anch’io, di conseguenza, ottenni la stessa libertà. Con la chiave di casa appesa al collo e lo zaino in spalla, mio fratello iniziò con me la sua carriera scolastica. Durante le lezioni, io rimanevo fuori della classe a giocare da solo; quando erano terminate, mio fratello mi riaccompagnava a casa. Alcune volte mi fece entrare in classe con lui; seguivamo le lezioni seduti entrambi sulla stessa sedia. Un giorno la maestra si avvicinò per sgridare mio fratello ordinandogli di non portare più il suo fratellino a lezione. Io mi spaventai a morte, mio fratello, invece, rimase calmo come se non fosse successo nulla. Alcuni giorni dopo, infatti, avrebbe voluto riportarmi in classe. Io non ne volli proprio sapere; mi bastò pensare a quella maestra per perdere il coraggio di tornare in aula.

Nel periodo in cui frequentavo la scuola elementare, alcuni miei compagni parlavano spesso dei cattivi odori che si sentono in ospedale. Io, però, non ero come loro; a me piaceva l’odore dell’alcool e della formalina. Ero cresciuto in quell’ambiente ed ero abituato ai suoi odori. Quando i miei genitori ed i loro colleghi terminavano di lavorare, si dovevano strofinare le mani con l’alcool ed anch’io avevo imparato a farlo.

Non appena terminava la scuola, andavo subito in ospedale e rimanevo lì a bighellonare fino all'ora di pranzo. Per me era ormai diventato del tutto normale vedere i secchi ricolmi di materiale sanguinante che in gran quantità venivano portati fuori della sala operatoria. Ho ancora impressa l'immagine di mio padre che usciva dalla sala operatoria: il suo petto era tutto sporco di sangue, la mascherina era appesa alle orecchie e mentre camminava si toglieva i guanti insanguinati.

Quando ero in quarta elementare, ci trasferimmo a vivere definitivamente in ospedale. poiché la mia casa era proprio di fronte all’obitorio, quasi tutte le sere risuonavano alle mie orecchie pianti disperati. In quegli anni fui ossessionato dalle grida add olorate di uomini, donne, vecchi e bambini; ne udii così tante. Spesso durante la notte mi svegliavo al suono ripetuto di quei lamenti. Mi capitò anche di vedere di giorno i parenti di un defunto che addolorati piangevano all'ingresso dell’obitorio; allora spostavo uno sgabellino fino all’entrata di casa e rimanevo seduto a guardarli mentre piangevano e si consolavano a vicenda. Qualche volta, spinto dalla curiosità, mi avvicinai ad un cadavere per poterlo osservare meglio ma, con mio grande dispiacere, non riuscii mai a vederne il volto; le salme erano, infatti, interamente coperte da un lenzuolo. In una sola occasione vidi la mano scoperta di un morto. era molto magra, leggermente piegata, livida e con qualche sfumatura verdognola.

Devo dire che da bambino non avevo paura né di vedere un morto né tantomeno dell’obitorio. D’estate, quando faceva molto caldo, mi piaceva restare là da solo perché i letti di cemento erano veramente freschi. Ricordo che l’obitorio era sempre pulito, circondato da alberi molto alti e con una finestra sempre spalancata per far circolare l’aria. In estate le foglie e i rami degli alberi si allungavano fino a dentro.

In quel periodo l'unica cosa che m'intimoriva era vedere di notte la luce della luna illuminare le cime degli alberi le cui estremità, scintillando alla luce lunare, si estendevano nel cielo. Questa scena mi faceva sempre trepidare, non so per quale ragione, ma ne ero davvero terrorizzato. L’anno in cui terminai le scuole elementari - doveva essere il 1973 - la biblioteca di Haiyan riaprì al pubblico; mio padre procurò a me e a mio fratello una tessera per prendere a prestito i libri e da quel momento cominciai ad amare la lettura di romanzi ed in particolare di quelli lunghi3. I romanzi di quel periodo li lessi tutti almeno una volta: Giorni luminosi4 e La strada dorata5 di Hao Ran, Niu Tianyang, La storia della battaglia di Hongnan, Il nuovo ponte, La storia della miniera, Stelle rosse brillanti ... Quelli che all’epoca mi piacquero di più furono Stelle rosse brillanti e La storia della miniera.

Nello stesso periodo in cui leggevo questi noiosissimi libri fui affascinato dai dazibao sulle strade. Frequentavo già la scuola media e tutti i giorni, terminate le lezioni, mi trattenevo per più di un’ora ad ammirare i dazibao che incontravo sulla via del ritorno. Negli anni ‘70 tutti i dazibao attaccavano persone piuttosto note che anch’io conoscevo. Con malizia prendevano di mira gli abusi e calunniavano il nemico, scavavano nella vita della gente, inventando anche storie pornografiche accompagnate, al tempo stesso, da caricature il cui contenuto divenne sempre più completo; non mancava nulla, potevano esservi rappresentati persino i rapporti sessuali.

All’epoca dei dazibao il potere immaginativo della gente raggiunse i massimi livelli. Tutti i metodi letterari furono rivisti. Qualsiasi novità, smoderatezza, metafora, satira ... doveva esserci. E’ stato quindi per strada che ho incontrato per la prima volta la letteratura e ho cominciato ad amarla proprio davanti ai dazibao, ogni giorno più numerosi.

Ero già dentista quando iniziai a scrivere sul serio. Finite le scuole medie, infatti, entrai all'ospedale di Haiyan per diventare dentista. I miei compagni, invece, andarono tutti a lavorare in fabbrica. Fu mio padre a predisporre tutto abilmente in modo che io, a differenza dei miei compagni, entrassi in ospedale. Sperava che anch'io vi passassi tutta la vita.

L’anno in cui studiai alla scuola di medicina fu molto pesante. Le lezioni di fisiologia furono particolarmente impegnative: dovevo ricordare la posizione dei muscoli, dei nervi e dei vari organi. Per me questo tipo di studio era eccessivamente rigido e pe rciò cominciai a rifiutarlo. Mi sarebbe piaciuto un lavoro più indipendente, in cui ci fosse più spazio per l’immaginazione e che desse la possibilità di capire e di seguire le proprie inclinazioni. Parlando seriamente, se avessi fatto il medico, non sarei mai diventato un vero medico, un medico con un titolo riconosciuto. Quando si cura un malato uno deve essere uno, due deve essere due; non si può immaginare il cuore nella coscia così come non si può confondere un dente con il dito di un piede. Quello del medico è un lavoro serio e penso che non sarebbe stato adatto a me.

Inoltre mi sarebbe stato difficile adeguarmi a lavorare tutti i giorni per otto ore ed essere sempre puntuale: questo non avrei mai potuto sopportarlo. Perciò la ragione principale che mi spinse presto a scrivere fu quella di allontanarmi dall’ambiente in cui vivevo. In quel periodo desideravo fortemente di entrare al Palazzo della Cultura del distretto. Mi ero accorto che la maggior parte della gente che lo frequentava gestiva liberamente il proprio tempo e, convinto che il loro lavoro fosse proprio adatto a me, cominciai a scrivere con grande dedizione.

Iniziai nel periodo in cui facevo il dentista e, dopo cinque anni, entrai al Palazzo della Cultura del distretto, realizzando così il mio più gran desiderio. Tutti i cambiamenti che seguirono nella mia vita ebbero a che fare con lo scrivere, compreso il mi o trasferimento da Haiyan a Jiaxing e in seguito da Jiaxing a Pechino.

Anche se sono stato io a lasciare Haiyan, nelle mie opere non l’ho mai lasciata. Vi ho vissuto per più di trent'anni, la conosco bene. Mentre crescevo ho assistito alla crescita delle strade, del fiume. Ogni suo angolo è scolpito nella mia memoria: a volte quando parlo da solo mi sfugge persino qualche parola nel dialetto di Haiyan. La mia ispirazione del passato è derivata da Haiyan ma anche quella futura nascerà da questo luogo. Ora risiedo a Pechino.

Quando per richiesta della casa editrice ho scritto questa mia autobiografia, mi è tornato alla mente un fatto che accadde alcuni anni fa. Subito dopo essere entrato al Palazzo della Cultura del distretto, andai a Hangzhou per partecipare ad un incontro le tterario ed approfittai di quell'occasione per far visita al signor Huang Yuanlao. Costui, tempo prima, appresa la notizia che ero un giovane scrittore della sua stessa città natale - lui si avvicinava all’ottantina - mi aveva scritto una lettera per compl imentarsi con me e per chiedermi che, se mi fossi trovato a Hangzhou, non dimenticassi di andarlo a trovare. Così feci e il signor Huang Lao ne fu felice. Mi chiese dove vivevo a Haiyan ed io gli dissi che abitavo presso il dormitorio dell'ospedale. Allora mi chiese dove si trovava l’ospedale ed io gli dissi che era ad ovest del cinema. Mi chiese anche dove si trovava il cinema ed io gli risposi che era accanto alle scuole medie. Mi domandò persino dove erano le scuole medie di Haiyan.

Dialogammo a lungo e risultò che anche io non conoscevo i luoghi di cui lui mi parlò. Quando mi alzai per salutarlo non eravamo ancora riusciti a trovare un posto che fosse familiare ad entrambi. La stessa Haiyan era stata trasformata dai nostri ricordi in due luoghi completamente diversi. Penso che se tra quarant’anni io ed un giovane di Haiyan ci sedessimo a parlare della nostra Haiyan si presenterebbe la medesima situazione.


Traduzione dal cinese di Adelaide Gemelli



Note


1 Yu Hua Zizhuan (Autobiografia), in Yu Hua zuopinji (Raccolta delle opere di Yu Hua), vol. 3, pp. 381-386
2 Vicolo tipico delle città cinesi formato da edifici allineati con muri e tegole grigi, la cui origine risale a 500 000 anni fa
3 In Cina la produzione narrativa viene anche classificata sulla base della lunghezza dei romanzi: vi sono i romanzi lunghi (Changpian xiaoshuo), i romanzi di media lunghezza (Zhongpian xjaoshuo) e i romanzi di breve lunghezza (Duanpian xjaoshuo).
4 Hao Ran, Yanyang tian (tit. in it. Giorni Luminosi), Pechino, Renmin wenxue chubanshe, 1976.
5 Hao Ran, Jinguang dadao (tit. in it. La strada dorata), Pechino, Renmin wenxue chubanshe, 1972.