FILOSOFIA

BERGSON: DURATA E SIMULTANEITà

Alla fine del ‘700, la misurazione scientifica aveva bisogno di concetti assoluti di spazio e di tempo, che rischiavano però di diventare ipotesi metafisiche. Come aveva scritto Newton, "il tempo assoluto, vero e matematico, in sé e per sua natura, senza riferimento ad alcun oggetto esterno, scorre uniformemente"; questo non sembra del tutto coerente con l’impegno newtoniano a restare sul terreno dell’esperienza ("hypotheses non fingo"). Kant era un grande estimatore della fisica newtoniana. Egli

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vuole garantire l’universalità del tempo come anche dello spazio, senza per questo cadere nella metafisica. La sua idea è che tempo e spazio sono forme della nostra sensibilità e non realtà assolute o qualità inerenti alla cosa in sé. Il tempo è quindi trascendentale, cioè condizione necessaria di ogni possibile esperienza e quindi anche di ogni esperimento scientifico. Finché le leggi scientifiche sono ricavate esclusivamente dall’esperienza, ha buon gioco Hume a sostenere che non vi è alcuna certezza scientifica; a rigore, non si può essere sicuri nemmeno che esistano leggi di natura; la causalità e il determinismo della natura sarebbero soltanto un’abitudine mentale. Con la sua "rivoluzione copernicana", Kant rinuncia a cercare le leggi nella natura in sé (nella cosa in sé): la fiducia nell’esistenza di leggi di natura si fonda sul fatto che è la mente umana stessa ad imporre le forme spazio-temporali della sensibilità

e la categoria causa-effetto al mondo fenomenico. La scienza moderna comincia quando gli scienziati "compresero che la ragione vede solo ciò che lei stessa produce secondo il proprio disegno, e che, con princìpi dei suoi giudizi secondo leggi immutabili, deve essa entrare innanzi e costringere la natura a rispondere alle sue domande. […] È necessario dunque che la ragione si presenti alla natura avendo in una mano i princìpi, secondo i quali soltanto è possibile che i fenomeni concordanti abbiano valore di legge, e nell’altra l’esperimento che essa ha immaginato secondo questi princìpi"

(I. Kant, Prefazione alla Critica della ragion pura).

           

Ma all’inizio del XX secolo la fisica di Newton, che pure fungeva ancora da modello per l’ideale scientifico del positivismo, è ampiamente in crisi. Il riferimento ad uno spazio assoluto, confluito nel problema dell’"etere" come supporto ai fenomeni elettromagnetici e luminosi, risulta un inutile ingombro. Con le geometrie non euclidee, può essere messa in dubbio persino la convinzione che lo spazio sia tridimensionale in senso euclideo e debba rispettare i teoremi della geometria classica. Come suggerisce Ernst Mach, la rotazione assoluta del secchio di Newton appare piuttosto in relazione alla massa delle stelle fisse. Insomma, gli stessi fenomeni fisici sembrano debordare dalla gabbia concettuale dello spazio e del tempo newtoniani.

Si potrebbe quindi sostenere che Henri Bergson, nell’attaccare frontalmente il concetto "scientifico" di tempo, in realtà contribuisce ad un lavoro critico che per altre vie anche gli scienziati si accingevano ad affrontare. Il tempo, nota Bergson, non è una grandezza oggettiva, che si possa catturare con gli strumenti di misura della fisica. La sua più vera natura si rivela soltanto all’esperienza della coscienza e del senso interno, sotto forma di "durata", di fluire modulato di esperienze e sentimenti. Misurarlo con calendari ed orologi è una forzatura dettata da necessità pratiche; la rete delle scansioni temporali lascia sfuggire il significato autentico dell’essere nel tempo, del vivere un’esperienza. Il tempo spazializzato (la "linea del tempo" usata per la cronistoria; il movimento apparente del sole nel cielo; l’angolo compiuto

dalle lancette del cronometro) è una vuota astrazione, non corrisponde alla realtà; di conseguenza, la visione scientifica (e positivista) del mondo è falsata fin nelle sue radici, rimanda a schemi e a misurazioni che non fanno presa sul vissuto reale. La durata è un continuum, non una successione di istanti discreti; la pretesa di misurarla attraverso un rapporto matematico costringe invece a suddividerla in quantità, in multipli e sottomultipli, secondo una successione monotona e sempre uguale. La durata, al contrario, non è sempre uguale a se stessa, nei vari momenti dell’esperienza: è ora più densa, ora più diluita a seconda dell’intensità e dell’interesse della vita che fluisce in essa. La durata è quindi soggettiva e non si presta ad una misurazione uguale per tutti; la durata è continua, e non può essere matematizzata.

La critica alla matematizzazione del tempo si trasforma in una critica alla stessa matematica, in particolare al calcolo infinitesimale. Bertrand Russell, in un saggio brillante e polemico, sostiene che Bergson critica una vecchia versione del calcolo infinitesimale, risalente alla discussione tra Newton e Leibniz: la concezione moderna di infinitesimo consentirebbe invece la definizione del continuo, e non la sua approssimazione mediante serie discrete. "Nei lavori di Bergson – scrive Russell nel 1914 – vi sono molte allusioni alla matematica e alla scienza, e a un lettore poco attento potrà sembrare che tali allusioni rafforzino grandemente la sua filosofia. Per quanto riguarda la scienza, specialmente la biologia e la fisiologia, non ne so abbastanza per criticare le sue interpretazioni. Ma per quanto riguarda la matematica, ha deliberatamente scelto gli errori di interpretazione tradizionali, rispetto ai punti di vista più moderni che hanno prevalso fra i matematici dell’ultimo mezzo secolo" (B. Russell, La filosofia di Bergson, pag. 56).

Nel 1922, nello scritto Durata e simultaneità, Bergson entra in polemica anche con Einstein. Sembra che buona parte delle sue obiezioni siano dovute a un fraintendimento sul continuo spazio-temporale di Einstein. Tutte le sue critiche si fonderebbero "su una svista logica, o, per meglio dire, su un fraintendimento del vero contenuto della teoria della relatività" (Giulio Brotti, Bergson: la coscienza e il tempo, pag. 137). Tuttavia la sua critica allo spazio assoluto va nella stessa direzione della teoria della relatività. La differenza sta nella parte propositiva: Bergson intende la soggettività in senso individuale e mentale; al contrario i due gemelli del paradosso einsteiniano hanno due tempi diversi indipendentemente da quello che pensano e da quello che sentono. La differenza di età che risulta è un fatto empirico, che si può provare sperimentalmente.

In conclusione, le osservazioni di Bergson sul carattere soggettivo della temporalità colpiscono nel segno in relazione al tempo assoluto della meccanica classica, ma non sono più così pertinenti rispetto alla discussione interna alla fisica novecentesca. Se si prescinde dagli aspetti metafisici della posizione di Bergson (spiritualismo, vitalismo) e dalla sua polemica antiscientifica, la critica alla concezione classica di tempo è utile anche allo scienziato. Bergson mette in guardia contro il pericolo di adottare in modo acritico schemi concettuali "oggettivi" e di ridurre i fenomeni del mondo reale ai rapporti degli strumenti di misura tradizionali. La scienza stessa, nel momento in cui deve operare una rivoluzione teorica importante, deve essere in grado di guardare con sospetto alla "misurazioni", ai "dati oggettivi", agli "esperimenti di laboratorio" o alla "forma rigorosa" della tradizione scientifica preesistente.

[Nota aggiunta il 18 giugno]

In Durata e simultaneità del 1922, nell’analisi dettagliata delle equazioni di Lorentz e della teoria di Einstein, Bergson mostra i limiti della sua concezione. La durata e il tempo sono soggettive ma necessariamente identiche per tutti i soggetti è impossibile che un viaggiatore viva più di un altro. Il paradosso dei gemelli viene reinterpretato prendendo in considerazione il flusso della coscienza e non i dati sperimentali. Poniamo che Paolo, in viaggio su una palla di cannone, ritorni sulla Terra dal gemello Pietro dopo duecento anni di quest’ultimo. Posto così che Pietro ha vissuto per duecento anni, consideriamo ora quanto abbia vissuto Paolo: " Dal momento che ci indirizziamo a Paolo, siamo con lui, adottiamo il suo punto di vista. […] Se, poco fa, guardando all’interno della coscienza di Pietro, assistevamo a un certo flusso, è esattamente lo stesso flusso che stiamo per constatare nella coscienza di Paolo. Se dicevamo che il primo flusso era di duecento anni, sarà di duecento anni anche l’altro flusso. Pietro e Paolo, la Terra e la palla di cannone, avranno vissuto la stessa durata e saranno invecchiati parallelamente"(Durata e simultaneità, pag. 65).

In altri passi insiste sull’esistenza di "un solo Tempo reale" mentre tutti gli altri sarebbero fittizi. "La fisica renderebbe un servizio alla filosofia abbandonando certi modi di parlare che inducono il filosofo in errore, e che rischiano di ingannare il fisico stesso sulla portata metafisica delle sue visioni. […] Bisognerebbe in realtà dire che l’orologio mobile presenta questo ritardo nell’istante preciso in cui tocca, ancora in movimento, il sistema immobile e in cui sta per ritornare. Ma, appena rientrato, segna la stessa ora dell’altro. Perché il Tempo rallentato del sistema movente è solo Tempo attribuito; questo tempo semplicemente attribuito è il tempo segnato dalla lancetta dell’orologio in movimento agli occhi di un fisico semplicemente rappresentato; l’orologio davanti al quale questo fisico è posto è allora solo un orologio fantasmatico, sostituito per tutta la durata del viaggio all’orologio reale: da fantasmatico ridiventa reale nell’istante in cui viene restituito al sistema immobile. Sarebbe d’altronde rimasto reale, durante il viaggio, per un osservatore reale. Non avrebbe accumulato allora nessun ritardo, proprio perché non presenta nessun ritardo quando si ritrova orologio reale, all’arrivo" (op. cit., pagg. 165-166).

Come si vede Bergson non accetta quelli che per noi oggi sono dati sperimentali acquisiti e considera la teoria della relatività come una finzione matematica. In questo modo rischia di riavvicinarsi ad una concezione assoluta del "Tempo reale". L’incomprensione con Einstein resta anche dopo il carteggio e gli incontri del 1922 e del 1924. Anche nel 1934 Bergson ripete: "La realtà dello Spazio-Tempo [della concezione relativista] è puramente matematica, e non la si potrà erigere a realtà metafisica, o a ‘realtà’ pura e semplice, senza attribuire a quest’ultimo termine un significato nuovo. Si chiama in effetti con questo nome, di solito ciò che è dato in un’esperienza, o ciò che potrebbe esserlo: è reale ciò che è constatato o constatabile. Ora, è proprio dell’essenza stessa dello Spazio-Tempo il non poter essere percepito" (Nota a Il pensiero e il movente, 1934, riportato in Durata e simultaneità, pag. 200).

In una lettera ad André Metz, Einstein afferma: "è spiacevole che Bergson si sia sbagliato di grosso, e il suo errore è di ordine puramente fisico, indipendentemente da ogni discussione tra scuole filosofiche"

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