"Tramas de Amistade"

Riflessioni e opinioni di un antropologo sulla realtà della Sardegna

e su alcune trasformazioni dell’identità della sua gente.

di Salvatore Corrias

Bachisio Bandinu, bittese, nato nel ...., antropologo, studioso di questioni e cose che riguardano la storia e la società sarda, è da sempre attento alle problematiche più attuali che riguardano l’isola, quali il turismo (ha pubblicato "Costa Smeralda", "Narciso in vacanza"), i miti della produzione e del consumismo ("Il Re è un feticcio") la realtà giovanile ("Lettera a un giovane sardo"), il mondo pastorale ("Visiones. I sogni dei pastori").

Siamo andati ad incontrarlo per conoscere e cercare di capire, avvalendoci della sua lettura antropologica e insieme sociologica, pedagogica e semiologica, gli elementi particolari e distintivi della nostra identità, le trasformazioni e le contraddizioni di un mondo tanto piccolo quanto sempre più disposto al confronto col diverso, lo strano e straniero, verso cui conduce, inesorabilmente, il mare che lo circonda.

Graffiti. Prof. Bandinu, lei ha scritto che una caratterizzazione particolare, storica e antropologica, dell’essere sardi, è una forma del tempo distinta da quella della "modernitate": la durata e la memoria contro l’inestensione e la temporalità. Qual è il posto che occupa, nella sua memoria personale, il trascorso da "giovane sardo", in particolare quella dello studente?

Bandinu. La mia esperienza di studente si situava in una società agro pastorale, ben definita, con codici precisi, con valori conosciuti. La comunità del mio paese era produttrice di cultura, nel senso di produzione economica, sociale, culturale. Come studente, tuttavia, io appartenevo anche all’altra cultura, la cultura della scuola, de "sos istudiatos" (allora la comunità, era divisa in "sos rusticos" e in "sos istudiatos": chi andava a studiare era possessore di due codici, il codice d’appartenenza antropologica, della cultura paesana, e il codice della cultura ufficiale, scolastica). Tuttavia, tra questi due codici, la maggior influenza la esercitava, stranamente, sembrerebbe, il codice della cultura antropologica, perché quel codice costruiva la personalità di base dello studente. Per cui lo studente apparteneva antropologicamente alla cultura agropastorale, come nel mio caso, per me che appartenevo ad una comunità agropastorale come quella di Bitti. Tuttavia ci si impadroniva anche dell’altro codice culturale, quello della cultura tout court; avveniva il confronto, possibile, tra i due codici, ma, ripeto, la personalità di base, la struttura profonda era radicata nella cultura d’appartenenza. Oggi la realtà é molto diversa, oggi, io credo che i giovani vivano diversamente la realtà che io ho vissuto perché non esiste più quella cultura integrale e totale, come era allora la cultura della comunità paesana, come la ha analizzata Michelangelo Pira ne La Rivolta dell’oggetto: la famiglia costituiva uno stato a sé che faceva politica interna e politica estera con le altre famiglie ed era una fonte normativa sovrana, organizzava codici di comportamento, valori. Oggi non esiste più quest’universo, nemmeno a livello di nucleo, in quanto le orbite che prima ruotavano intorno al nucleo, differenziate da esso, oggi quel nucleo, originario, arcaico, locale, lo hanno attraversato e sbrindellato, sfilacciandone le arterie. Non c’è più una cultura locale che abbia un suo pur minimo senso di autonomia: la cultura globale dei mass-media, della merceologia, dell’oggetto-segno, della pubblicità, dell’intrattenimento e della musica non si è strutturata in una visione locale in quanto non c’è stato un procedimento attivo dei ragazzi del luogo tale da metabolizzare questa cultura globale e da creare un rapporto corretto, dialettico con essa. La cultura globale, a sua volta, invece, essendo fortissima, ha attraversato la cultura locale sfilacciandola e togliendole ogni possibilità di codificazione. Si hanno, pertanto, brandelli di codice della cultura locale ma anche brandelli di codice della cultura globale: il ragazzo di oggi si trova in difficoltà perché vive, spesso in modo non dialettico ma contrappositivo e negativo, il rapporto tra l’appartenenza alla cultura tradizionale e l’incidenza, l’invadenza della cultura, diciamo, moderna. Bisogna operare, dunque, una dialettica positiva tra queste due culture, altrimenti si vive negativamente sia l’una che l’altra.

G. In base alla sua esperienza e alla conoscenza della società sarda, qual è la sua opinione sulla realtà giovanile, quali forme di integrazione e quali esperienze di aggregazione potrebbero realizzarsi per una crescita omogenea e per uno scambio culturale tra "villaggio locale" (spazio di provenienza di molti studenti) e "villaggio globale" (luogo di destinazione degli stessi), data per legittima questa distinzione.

B. Non direi che la cultura locale sia del tutto appartenente ai paesi e quella globale appartenente alla città, anche se questa potrebbe essere una distinzione legittima. Anche l’esperienza urbana cagliaritana è cultura locale rispetto alla vera cultura globale, a quella che è mossa dai grandi capitali economici, dai grandi networks, dalle grandi produzioni dell’oggetto-segno, della merce-messaggio, del prodotto culturale. Io vedrei, invece, più globalmente la Sardegna, pur differenziata tra zone interne e zone urbane: la differenza c’è ma tutto sommato oggi è minima perché è comunque tutta cultura locale, dentro l’assetto della cultura globale. Il fatto è che noi siamo ad un tempo, inesorabilmente, inscindibilmente, locali e globali, viviamo la tradizione e la modernizzazione: anche gli studenti vivono contemporaneamente, a Cagliari, a Nuoro, a Orgosolo, esperienze locali ed esperienze globali in una stessa tessitura. Come aggregare i giovani, come creare una possibilità di una comunicazione giovanile in Sardegna che si introduca positivamente all’interno di una comunicazione globale: è impensabile un ritorno al passato, sono logiche aberranti, non si ritorna a su connottu, il tempo è inesorabile, poi io non ho mai capito che tipo di ritorno sarebbe e dove si dovrebbe tornare, i valori del passato costituiscono un nucleo immaginario. In realtà la scommessa è del presente: come gestire questo presente e come vederlo in prospettiva futura, del passato interessa ciò che nel presente permane; anch’io vivo il mio passato, pure intenso e fortissimo, come dimensione del presente, nel senso che questo mio passato fa i conti col mio presente e col mio immediato futuro, mi serve come patrimonio, bagaglio culturale ed esperenziale che fa i conti con le inquietudini del presente, con le forme del tempo d’oggi. In questo senso, secondo me, i giovani non devono tornare al passato o ad una immaginaria Sardegna lontana, ma non devono nemmeno essere ingenuamente disponibili ad una continua colonizzazione del globale, del gioco capitalistico merceologico, delle multinazionali che producono cultura e che non hanno preoccupazioni pedagogiche ma che si preoccupano solo di come fare del giovane un utente, un consumatore. E’ un discorso che non vi pongo in termini moralistici, ma in termini pedagogici, formativi, psicologici, semiologici. Come può il giovane, oggi, con lavoro e con fatica, inventare una sua presenza critica: quest’isola non ha un bordo di chiusura ma ha un bordo di apertura, proprio perché è un’isola è disposta al mare, alla comunicazione, all’aria, alla telematica; non c’è più il senso di insularità del passato, legata agli spostamenti del corpo: io, oggi, utilizzando internet, posso comunicare più velocemente tra Milano e Tokio che non tra Cagliari e Quartu S.Elena perché devo fare un’ora di fila in Viale Marconi. L’isolamento, che prima era nell’ordine spaziale oggi non esiste più perché lo spazio non si pone più come frattura, oggi siamo nella società del tempo, del rettile del tempo, dell’articolazione e della scansione temporale. Il rischio che corre il giovane è di accettare acriticamente il globale e di esserne veicolato totalmente nella formazione dei gusti musicali, sportivi, del vestiario, dell’alimentazione, della sessualità, in tutte le scelte che riguardano la sua vita: il giovane deve riuscire a filtrare la comunicazione globale, a porsi in un consumo critico degli oggetti e della merce, con una coscienza di libertà sua, di soggettività, rifiutando ogni feticismo della merce, resistendo alla tentazione narcisistica di rispecchiarsi in essa. Ma la comunicazione globale è positiva, è bene che ci siano gli oggetti, Dio ci scampi da un ritorno alla povertà del passato! Il problema è capire qual è la grammatica che articola la comunicazione dell’uomo con l’oggetto. E’ la grammatica del grande capitale. Bisogna essere soggetti attivi, anche nel processo di consumo. Il giovane è dissidente per se stesso perché vive nell’inquietudine dell’ideale e perché è animato da un grande valore di giustizia e di desiderio di fratellanza, ma il giovane oggi è disarmato proprio perché questo sistema della comunicazione segnica lo ha abituato alla liberalità, l’oggetto-segno non è coercitivo. Questa struttura semiologica, questo ordinamento di segni dell’apparato mondiale della merce si è posta come grande pedagogia educante e ha creato per i giovani delle chances infinite: siamo nell’ordine della moda. A che cosa ti ribelli, dunque, tu giovane, e quali sarebbero i motivi della tua ribellione, se tutto ciò è già interno al gioco della grande funzione merceologica dell’oggetto-segno: è questo il grande pericolo, che i giovani sono disarmati. Ma come riarmarsi? Cioè come contrapporre al super capitale economico della merceologia consumistica un grande capitale di rifiuto, di ribellione, di alternativa? Bisogna osare, creare nel piccolo, in loco, non per sconvolgere l’assetto mondiale (ci vorrebbe ben altro), un’identità non del passato, ma territoriale, che faccia da filtro tra esperienza locale ed esperienza globale.

G. La sua attività di antropologo è orientata verso lo studio del corpo e dell’oggetto, del simbolo e del sintomo, dell’immagine e del segno, della rappresentazione e della riproducibilità. Lei ha scritto, a più riprese, che il sardo rifugge l’immagine, non ama vedersi riflesso perché potrebbe scoprirsi diverso, conosce solo il tangibile, il "corpo senza doppio". E’ questa, in una società di pubblicità e simulazioni, una paura necessariamente distruttiva o può, essa, anche essere costruttiva?

B. La società tradizionale aveva paura dell’immagine perché l’immagine era il morto, la fotografia del morto o il fantasma che appariva in cimitero (come io ho avuto modo di osservare nel mio ultimo libro Visiones). Nella modernizzazione, invece, l’immagine è comparsa in televisione, è diventata festiva, non più mortuaria, seduttiva, piena di vita, in movimento, ammiccante, sessuata, comunicante l’eros. L’immagine, dunque, non è più da temere, non è più il fantasma dell’aldilà. Il rischio è che questa immagine festiva stravolga la realtà del corpo, del vissuto reale, dell’intera percezione nostra, del corpo situato in un territorio, collocato in un sistema percettivo, con le sue sensazioni, le sue immaginazioni, i suoi simbolismi. C’è il rischio che l’immagine si ponga come autonomia totale, che si arrivi ad una società del puro segno, di segni che non sono più rappresentativi di corpi: tramite l’immagine non più ancorata al corpo, il capitale internazionale può benissimo organizzare una super cultura mondiale tutta fondata sull’immagine e dirigere, a livello dell’immaginario e della virtualità, tutto il mondo. E’ una cosa terrificante. Anche nella cultura nuova il corpo deve riaffermare una sua presenza, perché guai se manca la resistenza materiale del mio corpo come dissidenza e come ribellione.

G. Lei ha scritto che "La società è data dall’alleanza tra hardware e software, tecnologie e programmi. La società tradizionale non ha tecnologie e programmi: incapace di produrre cultura come merce, la società tradizionale tende a chiudersi nella rivendicazione dei propri beni culturali "originali", nasce il folklore, che nei concreti rapporti di forza si riduce a una serie di espressioni in funzioni subordinate e marginali rispetto al sistema dominante di informazioni e comunicazioni. Non avendo né mezzi né capitali, né forza-lavoro né mercati si aggrappa a quella forma che può entrare nei circuiti marginali della grande macchina consumistica della modernità". Cosa, ancora, della nostra storia e del nostro costume può essere davvero utile per una crescita e un rinnovamento totali, avvolgenti?

B. Io non sono per il recupero delle tradizioni sarde o per il recupero di un concetto di cultura tradizionale. È una lotta contro il tempo: io credo che tutto ciò che noi chiamiamo tradizionale, patrimonio di cultura sarda, esperienza vissuta dal popolo, si giustifichi nella misura in cui questo patrimonio si pone come operante oggi, facendo i conti con la realtà attuale. Il canto a tenore, per esempio, non mi interessa solo perché è un documento, pure importantissimo, certamente, di un’espressione di canto della tradizione sarda che risale ai tempi più lontani, ma mi interessa in un senso di attualità: che cosa può voler dire cantare a tenore, oggi, nella società multimusicale? C’è un’esperienza di musica classica, un’esperienza di musica operistica, di musica pop, rock, jazz e un’esperienza di musica etnica che io vedo come un tassello nella pluralità delle esperienze musicali, come arricchimento suppletivo, non sostitutivo. Un giovane deve vivere tutte le esperienze musicali e il giovane sardo ha in più un’esperienza aggiuntiva che è quella della musica etnica: il canto a tenore, oggi, è primo nelle classifiche mondiali e tutti gli riconoscono qualità musicali, non folcloristiche, di altissimo livello; per esempio, su bassu e sa contra non appartengono all’ordine vocale, non sono voci ma appartengono proprio all’ordine interno del corpo, all’ordine della faringalizzazione, della laringalizzazione, è un urlo compresso che viene dalle viscere. Le launeddas, per esempio, costituiscono un’esperienza musicale incredibile: tre canne non le ha avute nessuna civiltà, né quella Mesopotamica né quella Scozzese. Evidentemente c’è una profondità di esperienza e di significato musicale che si pone come valore assoluto oggi, non come recupero del passato. Per cui, la festa tradizionale il giovane la deve inventare nella sua dimensione attuale, contemporanea, non "tornando a...", ma alla luce dei suoi gusti, delle sue esperienze, dei suoi valori odierni.

G. Quali sono i suoi modelli culturali, di pensiero e di scrittura?

B. Purtroppo devo dire che non ho dei modelli, nel senso che per mia formazione io tendo ad una dimensione, se non fosse frainteso il termine, di tipo anarchico: io non credo in una modellistica, in una scala di valori graduati, credo in una ricchezza, in una molteplicità, mi piace Leopardi per un verso, Pascoli per un’altra sua dimensione, Baudelaire o Verlaine per un’altra, Montale o Valery per un’altra dimensione ancora. Io credo in una pluralità disseminata, non credo nell’ordine del discorso fissato e graduato, io credo nell’atto libero della parola, io non domino la parola, io mi faccio parlare, vengo parlato, è il linguaggio che parla e io concedo alla parola la sua libertà senza costringerla in un ordine del valore, della gerarchia. Ciò non vuol dire, comunque, che in me non abbiano influenza le mie letture preferite, come, per esempio, nella dimensione poetica, Montale o che non abbia importanza la poesia dialettale sarda, però non me li pongo come modelli perché io non credo in riferimenti modellistici ma credo che ognuno debba liberamente esprimere ciò che sente. Anche la mia scrittura risente di questo fatto, con la differenza che quando io parlo considero la parola come un atto liberante, mentre con la scrittura questo non avviene perché mi è stata posta e imposta dalla scuola ed è nell’ordine del dovere. Io, quando scrivo, sottopongo il testo ad una continua revisione, tre, quattro, cinque volte: Lettera a un giovane sardo era in origine un libro di trecentocinquanta pagine.

G. Cambiamo decisamente gli argomenti: secondo lei, c’è una classe dirigente, un ceto intellettuale dinamico, consapevole e capace, espressione della volontà dei sardi o c’è solo, anche tra i politici, un’incompetenza e un vittimismo diffusi degenerati in opportunismo e inconcludenza nelle scelte determinanti per il benessere comune? Inoltre, quale può essere, per l’elettore sardo, la scelta migliore per le prossime elezioni regionali?

B. Del ceto intellettuale fanno parte non solo lo storico e il letterato ma anche l’ingegnere, l’architetto e l’imprenditore in quanto sono tutti produttori di cultura. Anche i prodotti economici sono prodotti culturali, riconoscibili attraverso segni e codici. Il problema sta nel dare riconoscibilità a questi prodotti, codificarli in maniera tale che possano competere con gli oggetti-segno della grande produzione, quella produzione che si avvale di codici mercantili molto forti: è un compito che spetta agli intellettuali e alla classe politica. Facciamo un esempio: un formaggio sardo, unico, come sa frue, non può e non potrà avere un mercato come quello del parmigiano, del grana o dei formaggi del Trentino finché non gli si riconosceranno le qualità intrinseche (quel sapore e quelle proprietà particolari del latte che vengono dalle erbe medicinali e officinali del Gennargentu) indicanti la sua provenienza e finché non gli si attribuiranno dei segni (un semplice rametto di timo abbinato al prodotto, per esempio) che lo contraddistinguano nel contesto della diffusione e della vendita. L’assenza di un ceto intellettuale che sia espressione di una società che produce e l’insipienza dei politici ha fatto sì che, in un più ampio raggio, ciò non accadesse.

Parlare di scelta, poi, è ironico, fa ridere. L’esperienza politica finora è stata negativa, l’opposizione non può, tuttora, costituire una seria alternativa e dunque non è possibile scegliere. Se a livello nazionale la distinzione tra destra e sinistra è, nonostante tutto, tale da permettere all’elettore di optare per l’uno o per l’altro schieramento, altrettanto non si può dire per la Sardegna. Per conto mio, insieme ad alcuni amici, abbiamo creato un movimento di opinione che si chiama Tramas de amistade, per cercare di informare, per essere informati, per stimolare i sardi ad una presenza attiva e creativa.

G. Questo è un periodo in cui l’Italia vive ai margini della guerra e del genocidio: lei pensa che abbia ancora senso la presenza delle basi NATO in Sardegna?

B. Il discorso sulle basi NATO va rivisto, senza grandi polemiche o rotture: le basi erano nate all’interno di un meccanismo difensivo consistente in due blocchi contrapposti che oggi non esistono più e mi chiedo, allora, se di queste basi oggi ci sia ancora bisogno sapendo che la sottrazione territoriale è anche sottrazione economica e turistica. Bisogna, dunque, ragionarci sopra e, abbandonando le tradizionali polemiche, capire se ci sia o meno necessità di queste basi.

G. Il presente di un popolo e di una nazione si può capire solo conoscendo il suo passato. C’è chi ha scritto che "la storia europea è un "pretesto" per parlare della storia sarda, come la storia sarda costituisce un’occasione unica per fare storia europea in una dimensione periferica". Può davvero accadere che la Sardegna, e con essa tutte quelle realtà etniche, storiche, geografiche marginali, sia, in un’epoca di europeismo e globalizzazione, parte integrante di questa Europa e che le vengano riconosciute la propria autonomia e le proprie peculiarità culturali o è meglio rinunciare ad ogni prospettiva di rinnovamento tanto suggestiva quanto, forse, pericolosa per noi sardi?

B. Condivido pienamente l’affermazione. La nostra è una storia parziale, se vogliamo, minima, in relazione al contesto europeo: una storia di cui non si parla nei libri, ma ciò che conta è che è la storia del nostro popolo. Non c’è, infatti, una scala di valori che distingua una storia che vale di più da una che vale di meno. La storia deve porsi a partire dalla storia locale e ogni storia locale è vissuta dalla gente importante, storia vissuta fatta di comunicazione umana. Anche noi dobbiamo viverla così, ma in senso positivo, per costruire il presente senza un ritorno identitario. La storia ci serve per situarci storicamente e dare risposte al presente, senza etnicismo e inutili revanscismi. Noi ci misuriamo con le nostre storie, con la storia comune, a partire dalla nostra specificità.