Vincitore nel 1996 al festival di Berlino della sezione
'Prize of The readers of the Berliner Zeitung', questo film del giovane
Iwai Shunji è sfacciatamente lezioso, di quella sfacciataggine
che tocca comunque solo in minima parte l''umus' dell'opera e la sua qualità
"oggettiva".
Leziosaggine naif in qualche modo, che rende la pellicola scusabile e,
forse, anche più appetibile, perché qui si parla di temi
fortemente sentiti, universali, quali il sentirsi profondamente straniero,
la solitudine, il suicidio, la morte, la dannazione, il perdono; temi
che si trovano comunque già in parte (se non tutti) nell'opera
più conosciuta, e riuscita, che farà lo stesso Iwai l'anno
dopo: Love letter.
Mentre in quest'ultima pellicola però lo stile ben si sposa con
i contenuti, in Pic-Nic il tutto "stride" ineluttabilmente,
la forma sembra non corrispondere al contenuto in una schizofrenia stilistica
e narrativa: si narrano momenti troppo intimi e bui per essere rappresentati
,come in parte viene fatto, con la leggiadra ma insistente e patinata
vena di sentimentalismo ben presente per tutta la durata della pellicola.
E questa impressione viene accentuata con il pur bel lato 'horror-perturbante'
consumato tra il giovane recluso Tsumugi, e la sua personalissima ossessione/prigione:
il fantasma del suo professore che il ragazzo stesso uccise in un torrenziale
giorno di pioggia, in un paio di scene ben congegnate e realizzate che
però si inseriscono un poco forzosamente nella stilistica cupo
"patinata" di tutto il resto della pellicola.
Per tutto il film una canzoncina cantata da chierichetti di una chiesa
si sente: fischiettata, sillabata, mugugnata in sottofondo, diegeticamente
ed extradiegeticamente alla trama.
Per qualche istante, Iwai, ci fa credere veramente allo strano, disperato,
dolce pic-nic/fuga del titolo, per un attimo fatalmente breve il regista
riesce a farci credere che il cinema possa essere davvero una senza speranza
ed infinita passeggiata su dei muretti di tre stranieri/pazzi in terra
natia, senza mai scendere al suolo, senza mai toccare terra, in precario
equilibrio, da lassù in fondo si vede molto meglio, e quando si
deve scendere, è solo al fine di spararsi un colpo in testa definitivo,
prima della fine del mondo.
Un film pregno di difetti e di intime qualità che solo una cultura
ed una cinematografia come quella giapponese nel bene e nel male poteva
produrre.
La domanda affatto retorica che sorge è: tutto questo può
essere sufficiente?
Davide Tarò
davidetaro@libero.it
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