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Polittico di Cima da Conegliano

PASQUALE DORIA

Brigantaggio, la Basilicata non era una Sherwood affacciata sul Mediterraneo

La Gazzetta del Mezzogiorno
24 Febbraio 2005

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Prof. Ettore Cinnella, docente di storia contemporanea all'Università di Pisa, autore di un testo decisivo sulla realtà della rivoluzione russa.MATERA - Idealizzare la storia è sempre rischioso, perchè distorce il passato e finisce per condizionare il presente. Un pericolo che sicuramente non corre il prof. Ettore Cinnella. Il docente di Storia contemporanea e di Storia europea orientale all'Università di Pisa è molto legato alla sua terra, a Miglionico, dove è nato 58 anni fa e dove risiede buona parte dei familiari. «Ci torno volentieri, anche più volte all'anno - racconta in un momento di pausa - e benchè dai tempi degli studi universitari alla "Normale" abbia vissuto quasi sempre a Pisa, a un certo punto, mi sarebbe piaciuto insegnare all'Ateneo di Bari. Ma - aggiunge con tono ironico - non mi hanno voluto».
La passione nei confronti delle discipline storiche iniziò a maturare già da ragazzo. «C'è qualcosa che mi ha particolarmente attratto - rivela Cinnella - è stata la storia degli umili, degli oppressi, dei movimenti di liberazione, delle rivolte. In questa propensione la Basilicata forse non è estranea. E poi, la vicenda umana di Rocco Scotellaro mi ha accompagnato a lungo. In fondo, ero e mi sento socialista».
Apprezzato negli ambienti della ricerca, la sua notorietà deriva soprattutto dal volume che lo ha fatto conoscere al grande pubblico, «La tragedia della rivoluzione russa (1917-1921)», stampato per i tipi della Luni Editrice nel 2000 e recentemente proposto in edicola nelle collane di storia universale da un noto quotidiano nazionale.
«Una faticaccia - commenta il professore, facendosi strada nei ricordi che risalgono al 1970. «Vinsi una borsa di studio - continua - ma la lingua russa, passo dopo passo, ho dovuto impararla per conto mio. Nei primi tempi, in Unione sovietica, potevo lavorare solo frequentando le biblioteche. Poi, quando è caduto il muro di Berlino ci sono tornato ancheLe taglie della commissione provinciale per la repressione del brigantaggio due volte all'anno. In particolare, sono potuto entrare nel sancta sanctorum, l'archivio centrale del Partito comunista».
Quello che emerge dal lavoro di Cinnella, oggetto di attente recensioni sulla stampa specializzata e a larga diffusione, è che le facce della rivoluzione russa sono molteplici e non così scontate come spesso vengono descritte. Di solito, si pensa all'ultima fase, all'ottobre del 1917, oppure a quella di poco precedente, a ciò che accadde tra febbraio e marzo dello stesso anno. Un arco di tempo ridotto a pochi mesi. In altri casi, invece, abbandonate le sintesi esasperate, è possibile imbattersi di colpo in diluizioni temporali altrettanto fuorvianti, in ricostruzioni che vanno dall'Ottocento alla morte di Lenin. Questa proposizione degli avvenimenti, in qualche modo, corregge letture superficiali che fanno riferimento alle crisi rivoluzionarie come a rotture improvvise e dirompenti.
L'incedere della storia segue traiettorie molto più aggrovigliate. Allo stesso tempo, proprio per quel che riguarda il passato della Russia, solitamente si rischia di perdere di vista l'esplosione del 1905 che, secondo Cinnella, corrisponde ad uno dei più grandiosi e complessi momenti rivoluzionari della storia moderna e contemporanea. Tanto che quell'intreccio tra radicalismo e liberalismo, a suo giudizio, attende ancora di essere analizzato fino in fondo nei suoi molteplici aspetti. Insomma, sono deboli le tesi della pubblicista bolscevica, spesso acriticamente prese per buone, perchè prescindono proprio dal ruolo secondario del bolscevismo che, come evidenzia Cinnella, non aveva nè le radici popolari nè l'acuta visione complessiva del partito socialrivoluzionario. Di contro, c'è ben altro soprattutto prima e anche al di là «dei dieci giorni che sconvolsero il mondo»; anzi, si può ben dire che la rivoluzione continuò fino a luglio del 1921.
Cinella ha lavorato sulla base di una vastissima documentazione. Ma questo, in qualche modo, è già alle spalle. E a proposito di fonti, afferma di aver trovato piena soddisfazione Una stampa popolare in cui si nota un gruppo di briganti in azione. Le loro azioni risultarono più sanguinose nei centri abitati che nelle campagne, dove erano accolti con maggiore simpatianella frequentazione della Biblioteca provinciale e dell'Archivio di Stato di Matera. Così, conversando, lentamente, viene fuori l'argomento sul quale sta lavorando. Si tratta del brigantaggio postunitario. Anche in questo caso - è bastato poco per capirlo - il docente universitario non si lascerà certamente prendere nella rete di facili suggestioni. Non ha nulla da spartire con deleterie forme di spettacolarizzazione che si alimentano del mito dei paladini dei poveri, tipo Robin Hood, quasi che la Basilicata fosse una leggendaria Sherwood affacciata sul Mediterraneo. «No, non è così - riprende - i briganti non avevano nessuna coscienza sociale e nessuna prospettiva politica. Nessuna visione dello Stato e nessuna volontà di rovesciare un potere sostituendolo con uno più giusto. Erano dei tanti piccoli Masaniello. Come diceva Carmine Crocco, in fondo, a lui sarebbe bastato diventare un piccolo duca. Certo il problema sociale c'era, eccome. Lo stesso vale per la questione delle terre. E poi, l'illusione garibaldina, il servizio militare obbligatorio, oppure le leggi speciali, il pugno di ferro dei Piemontesi e altri fattori ancora riconducono a responsabilità precise circa il modo in cui furono fomentati gli animi, specialmente nelle campagne, che erano i luoghi in cui i briganti venivano accolti con maggiore simpatia, perchè si comportavano in modo del tutto diverso che nei centri abitati. E tuttavia, era una reazione contro la modernità. Non c'è molto da dire, in realtà, circa le tesi che guardano al fenomeno come ad una lucida forma di lotta di popolo, si tratta di letture decisamente fuorvianti. Non c'era la mentalità, c'erano piuttosto le ragioni di persone che nel migliore dei casi erano disperate. Storici come Tommaso Pedio hanno meriti grandissimi, ma da questo punto di vista quelle rivolte cieche, quelle ribellioni non possono essere valutate per quello che non sono state. Non c'è nulla da ammirare in un brigante, anche se mi rendo conto che, oggi, essere definito brigante non è una cosa tanto grave, è quasi una definizione bonaria».
 Più che mitizzare c'è, quindi, molto da conoscere. Anche per evitare che nel fondo dell'animo dei lucani, come seppe vedere bene Carlo Levi, continui ad albergare un certo modo di percepire se stessi rispetto al mondo. «Noi non siamo cristiani - essi dicono - Cristo si è fermato ad Eboli. Cristiano vuol dire, nel loro linguaggio, uomo: e la frase proverbiale che ho sentito tante volte ripetere nelle loro bocche non è forse nulla più che l'espressione di uno sconsolato complesso d'inferiorità». Complessi e commenti a parte, il prof. Cinella non lo nasconde, «a pubblicazione avvenuta - conclude - mi piacerebbe essere invitato a Matera per discutere di questo lavoro». Una disponibilità che si spera non cada nel vuoto.

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