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CAPITOLO SECONDO

Verso la linguistica comparativa

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cap1 ] [ cap2 ] cap3 ]

 

2.1.    Presentazione

2.2.    Quadro storico della cultura partenopea prima dell’unità d’Italia

2.3.     L’attività pubblicistica.

2.4.     Importanza del Museo nella cultura napoletana dell’Ottocento  

2.5.     Il concetto di lingua in Luigi Settembrini.

2.6.     Settembrini e la sua visione dinamica della lingua

2.1. Presentazione.

Lo scopo principale che mi sono prefisso scrivendo questo secondo capitolo è quello di mettere a fuoco alcuni fenomeni (sia storici che culturali) che hanno pervaso la vita intellettuale della città di Napoli riportandola ad essere informata e partecipe di importanti discussioni scientifiche che avvenivano nei vari ambienti culturali europei; e se gran parte del merito è dell’enorme attività pubblicistica, sviluppatasi dal 1830 al 1848, solo con l’unità d’Italia, nell’ambito degli studi linguistici, si avverte una decisiva inversione di tendenza ben testimoniata nel Giornale Napoletano di Filosofia e lettere, Scienze Morali e Politiche (1875-1885) fondato dal prof. Fiorentino ma fortemente voluto, fra gli altri, da L.Settembrini; e proprio di Luigi Settembrini sono alcune teorie sulla lingua molto interessanti in quanto non sono molto distanti da quelle che, da lì a poco, formulerà, in modo rigorosamente scientifico, l’Ascoli.

2.2. Quadro storico della cultura partenopea prima dell’unità d’Italia

  La cultura preunitaria napoletana si sviluppa (come già accennato nel 1° cap.) intorno al 1830.

Durante l’epoca della Restaurazione, quando i napoletani (ad accezione di Galluppi) non conoscono ancora gli indirizzi filosofici tedeschi, nel campo della filosofia hanno una certa importanza le dispute intorno al sensismo e la ripresa delle questioni ereditate dal gruppo degli ideologi settecenteschi.

Nel 1830, però, con l’avvento al trono di Federico II e con l’apertura della scuola linguistica del Puoti, si manifestano nel meridione i primi sintomi di un “serio risveglio culturale”.

Napoli diviene nuovamente, come nel Settecento, uno dei più grandi centri di ricerche scientifiche e letterarie. Gli esuli napoletani, che durante la Restaurazione avevano chiesto ospitalità in Toscana all’accademia del Vieusseux, approfittano di questo “intervallo di tolleranza concesso dalla reazione borbonica allo sviluppo intellettuale”[1].

Scrive infatti Francesco De Sanctis: “Qualche cosa di nuovo cominciò a farsi veramente sentire, quando entrò in iscena una generazione più giovane, quella del 1830.

Il cielo s’era un po’ rasserenato, la Rivoluzione Francese aveva rialzato gli spiriti in Italia, si parlava un po’ alto di lega dei principi; dopo l’odiato Francesco I veniva Ferdinando II, giovane, pieno il capo di miglioramenti, che dava segno di un nuovo indirizzo politico prendendo in moglie una principessa di casa Savoia; quasi accennando ad una lega tra la parte settentrionale e la meridionale d’Italia.

Non cessò la reazione, ma temperò, sopportò di più la libertà d’insegnamento [...]. Avemmo dunque un movimento liberale dal trenta  al quarantotto; cioè la libertà era in ciò; che il freno era un po’ allentato; la fisionomia delle cose rimaneva reazionaria”[2].

In Italia, e soprattutto a Napoli, la cultura abbandonava l’illuminismo insieme alla dottrina dell’utilitarismo e del razionalismo puro della rivoluzione francese, e “si rinfrescò e rifece tutto su nuovi principi”[3].

Essa si rinnovava con la “nuova concezione storica” che si opponeva a quella volteriana e a quella illuministica, e che formatasi in Germania, giungeva a Napoli, attraverso la Francia e la Lombardia.

Fonti di questo rinnovamento culturale erano anche una “nuova letteratura romantica” e una “nuova concezione filosofica”; quest’ultima, opponendosi al sensismo settecentesco e formatasi soprattutto in Germania, giungeva attraverso i francesi e si approfondiva in seguito con la conoscenza diretta dei testi tedeschi[4].

Ma, come riferisce Croce, “già in Napoli si era levato un Vincenzo Cuoco, critico delle astratte ideologie, teorico dello svolgimento storico dei popoli, assertore del costume paesano e della sua intrinseca virtù; e [...] come il cartesianesimo fece in Napoli rivivere il Campanella e i naturalisti del Rinascimento e il Galilei, il nuovo moto degli studi del secolo decimonono ritrovò il suo antenato indigeno nel Vico, allora per la prima volta compreso e da allora letto, ristampato, commentato e da tutti citato”[5].

Lo storicismo romantico fece sua l’idea vichiana della conversione del vero col fatto e rieducò una fitta schiera di giovani da Bertrando Spaventa a Francesco De Sanctis.

Ad opera della scuola cattolico-liberale o neo-guelfa, rappresentata da Carlo Troya e dal monaco benedettino Luigi Tosti, si ebbe a Napoli anche il rinnovamento della storiografia.

Lo storicismo italiano, in genere, rispondeva al bisogno di ritrovare nel suo passato e nelle sue tradizioni la personalità nazionale dell’Italia e le prove della sua unità spirituale. Gli studi del Troya sui Longobardi e quelli del Ranieri sulla storia d’Italia dal V al VI secolo esemplificano i due tipi di storicismo nazionalista, guelfo e ghibellino; l’uno addita nei Longobardi la ferocia della conquista mitigata solamente dalla Chiesa; l’altra addita nei Papi i nemici dell’unità.

Ed è proprio lo storicismo che alimenta la tendenza del purismo linguistico, che si richiama al valore nazionale della lingua; per questo insegnamento, come si è già detto, Puoti apre una scuola gratuita.

Ma dopo alcuni anni il purismo puotiano non soddisfa più i motivi ideali da cui era partito e i suoi stessi seguaci diventano suoi oppositori, come il Pisanelli, Ajello, Cusani, Gatti, A. C. De Meis, Francesco De Sanctis e Settembrini che andranno oltre l’accademismo della scuola dedita all’erudizione e alla grammatica.

Le giovani generazioni abbandonano sia il vuoto cosmopolitismo sia il culto esclusivo della lingua e i modelli culturali arcaici, interessandosi sempre più alle lingue straniere.

 

2.3. L’attività pubblicistica

  Per mezzo di molti periodici e riviste (come il Progresso, il Museo, la Rivista Napoletana, le Ore Solitarie, ecc.) l’ambiente napoletano è messo in contatto con la cultura europea e in particolare con quella francese.

D’altronde, chiunque abbia anche solo poche nozioni sulla cultura napoletana dell’Ottocento è ben consapevole della posizione preminente che occupa tra il 1830 e gli ultimi decenni del secolo l’attività pubblicistica.

La stampa periodica napoletana si sviluppa a dismisura “fino a contare proporzionalmente un numero di fogli (che si approssima alla quarantina) superiore a quello di qualsiasi altro centro italiano o europeo”[6].

Non sono solo giornali o settimanali di intrattenimento “pur sempre preziosi per chi voglia scoprire i germi della cultura allora nascente, ma di vere e proprie riviste scientifiche: non c’è più scienza, non c’è più disciplina - artistica, letteraria, sociale, industriale - che non disponga di sue riviste specializzate”[7].

Ed è proprio specificamente nelle riviste che si realizza “quel connubio fra discipline”[8] che diventerà un fenomeno caratteristico della rinascita intellettuale di Napoli. Non è dunque per caso, né senza fondati motivi, se il piano di studi che mi trovo a svolgere si soffermi su due periodici dell’Ottocento. Il Progresso (1832 - 1846)e il Giornale Napoletano (1875 - 1885).

Infatti, nel campo strettamente linguistico, (come vedremo più specificamente nel prossimo capitolo) una chiara coscienza dei progressi che sono stati fatti in Europa e in particolar modo in Germania è ben evidente nel Giornale Napoletano di Filosofia e Lettere, Scienze Morali e Politiche; gli articoli che riguardano il linguaggio sono molti e molto interessanti; i collaboratori (come Fiorentino, Settembrini, Teza, Fumi, Ceci, ecc.) sono tutt’altro che personalità di secondo piano nell’ambito della vita culturale dell’Italia unita.

Se infatti gli interventi inerenti alla lingua e al linguaggio che sono contenuti nelle pagine de Il Progresso mostrano soltanto delle labili tracce del progresso fatto nell’ambito degli studi linguistici in Europa, quelli contenuti nel Giornale Napoletano mostrano chiaramente come questa lacuna sia stata colmata e come gli argomenti in essi contenuti siano al passo coi tempi.

 

2.4. Importanza del Museo nella cultura napoletana dell’Ottocento

Prima di iniziare a discorrere del Giornale Napoletano mi è sembrato doveroso informare i lettori dell’enorme influenza che ebbe l’operato di un periodico come il Museo[9], e dei suoi collaboratori, sullo sviluppo della cultura napoletana dell’Ottocento.

Infatti il processo che ha portato la cultura partenopea ad affiancarsi e a confrontarsi con quella europea passa anche, e soprattutto, per le pagine del Museo. Anche se i problemi riguardanti la lingua e il linguaggio sono quasi del tutto assenti (motivo per cui questo periodico non è stato oggetto specifico della mia ricerca) nel campo filosofico matura, proprio nelle pagine del Museo, la negazione e d’insieme il superamento, ad un più alto livello, dell’eclettismo come metodo[10].

Fondatori e responsabili ufficiali della rivista sono due giovanissimi intellettuali: Stanislao Gatti e Stefano Cusani[11] che già hanno collaborato al Progresso, all’Omnibus, alla Temi napolitana ed altri periodici che erano vicini al movimento eclettico. Gran parte del merito è loro se le sparse intuizioni eclettiche assumono una forma più compiuta e più sistematica avviandosi “verso le esigenze del criticismo e della cultura tedesca”[12].

Infatti, sia per l’interessamento di Galluppi sia per l’interessamento dei giovani eclettici napoletani (come Gatti, De Vincenzi e Cusani) il filosofo Cousin, acquista in breve la fama e, per mezzo delle sue opere, la cultura napoletana, che per tradizione era legata alla lingua e alle idee francesi, s’impregna delle tendenze dominanti nell’eclettismo e prende i primi contatti con gli sviluppi del pensiero tedesco.

Ma la conoscenza della cultura tedesca ha in Napoli così come in Italia le sue difficoltà.

La borghesia delle regioni dominate dallo straniero non partecipa alla vita civile ed intellettuale dei centri cittadini per non aver contatti con l’oppressore e, fatto ancora più decisivo, sono ancora troppo pochi gli intellettuali che hanno una conoscenza dirette della lingua tedesca.

Nella città di Napoli un labile contributo fu certamente portato da Cousin, ma lo studio su testi tedeschi originali fu condotto, più che da Galluppi,  dal suo avversario Colecchi e dal gruppo del Museo che, perfettamente, conosceva le principali lingue europee e in particolare la letteratura filosofica tedesca.

Le dottrine tedesche (in particolare quelle hegeliane) che furono introdotte a Napoli fin dal 1843, dunque, non sono ancora troppo conosciute[13], e questo ancora fino al 1850, anno in cui Spaventa da Torino così si lamentava: “Quanto a Hegel io non conosco che una versione italiana della prima edizione della Filosofia della storia, ma nessuna della Enciclopedia delle scienze filosofiche, [...] della Logica ed altre  opere, che sono le principali. Anzi debbo qui avvertire che gli stessi Francesi, i quali in questi ultimi anni si sono molto occupati della filosofia alemagna, e che hanno tradotto le opere di Kant, [...] Fichte [...] Schelling non abbiamo fatto ancora il medesimo delle opere di Hegel”[14].

Tuttavia una piccola cerchia di cultori come Settembrini, Tari, Silvio e Bertrando Spaventa, Turchiarulo, Ajello, De Sanctis, cercano di superare queste difficoltà con l’apprendimento della lingua tedesca, spesso autodidattico e addirittura compiuto in carcere; lo stesso Gatti, oltre ad essere stato un buon conoscitore di lingue antiche e moderne, come il greco, il sanscrito, il francese, lo spagnolo e l’inglese, conobbe, almeno da un certo punto in poi del suo sviluppo filosofico, anche il tedesco.

Se la difficoltà più grande per la conoscenza della cultura tedesca è la lingua, polizia e censura non furono da meno; fino a quando la propaganda liberale della cultura si era svolta intorno alle scuole del Puoti e Galluppi, attenendosi all’uso prudente dei loro moduli di compromesso, rispettivamente puristi e coscienzialisti, la censura borbonica limitò al minimo i suoi interventi. Non più così avviene quando ci si accorge che nel “Gruppo del Museo” vi è stata una svolta idealistica[15]; rigorosissima diviene la sorveglianza: i testi, le ricerche, gli studi, l’editoria in genere subiscono un duro colpo; particolarmente colpiti saranno i periodici: molti fogli vengono soppressi, altri costretti ad interrompere per un certo periodo le pubblicazioni, altri ancora stroncati sul nascere e tutti comunque si troveranno, in seguito alle continue minacce, ai divieti e ai severi ammonimenti, nelle condizioni di cambiar rotta velocemente.

In questo stato sono costretti a svolgere la loro attività gli intellettuali napoletani fino a quando il fallimento della rivoluzione nazionale e il colpo di stato di Ferdinando II, nel Marzo del 1849, impedisce loro ogni possibilità di ricerca scientifica e culturale.

Quelli che sono sfuggiti al carcere trovano rifugio nell’Italia del Nord.

 

  2.5. Il concetto di lingua in Luigi Settembrini.

  Ed al carcere non sfuggì un letterato e patriota come Luigi Settembrini. Nella sua notevole attività intellettuale una parte non certamente secondaria è occupata dallo studio sulla formazione e l’evoluzione della nostra lingua.

Questa problematica è considerata dal Settembrini strettamente connessa al concetto di letteratura in quanto, per lo scrittore patriota, “lo studio della letteratura è lo studio della vita rappresentata da forme fantastiche nella parola”[16].

Ne consegue che la letteratura è “arte nella parola”; anzi la letteratura è “prima fra tutte le arti, perché la parola è la prima veste del pensiero”[17].

Un altro concetto importante va puntualizzato per poter comprendere pienamente il significato di lingua in Luigi Settembrini ed è quello di nazione.

Questa a differenza dello Stato, che è un “legame esterno”, è un’entità che è tale per “un fatto di natura”, formata solo esteriormente da una “espressione geografica” ma interiormente da “il sangue, il pensiero, la religione, la lingua, le glorie, le sventure comuni, le tradizioni”[18].

Settembrini distingue nel linguaggio una “parte esteriore” che è formata dalla “gran massa delle parole unite tra loro con certi legami che si chiamano forme grammaticali”, ed un’altra determinata dal rapporto che naturalmente si istituisce tra la parola e il pensiero, “perché crediamo che la parola sia generata dal pensiero, sia esso pensiero esistente o parvente: crediamo che le leggi della parola sono quelle del pensiero e che ogni mutamento che apparisce nella parola deriva necessariamente da un mutamento del pensiero”[19].

E’ un rapporto, come ben s’intende, basato sulla priorità del pensiero e sul ruolo fondamentale che svolge sia per la generazione delle parole e delle loro leggi sia per le alterazioni dei loro significati.

Appare chiaro che in un simile impianto teorico il limite risieda nel fatto che si giustifica qualunque alterazione linguistica in virtù di un pensiero nuovo che muta un ordine antico[20], ma tralasciando questo, che giustamente può sembrare un punto debole, e analizzando i caratteri generali di una lingua emergono importanti intuizioni.

La lingua per Settembrini deve essere fondata innanzi tutto sulla coesistenza di una lingua comune e di vari dialetti. Tutti i dialetti possono elevarsi tramite il dominio politico a lingua comune il fatto è che a questa mancherà il pregio essenziale di qualsiasi lingua: “la spontaneità”; qualità questa esclusiva dei dialetti. Una lingua, dunque, per rimanere viva deve ricorrere ed attingere continuamente all’uso dei dialetti contemporanei; “deve - afferma il Settembrini - ritemperarsi e non può ritemperarsi se non nei dialetti dov’è la spontaneità che a lei manca”[21].

Con queste affermazioni, derivate sicuramente da teorie evoluzionistiche di tipo positivista secondo cui la lingua, intesa come organismo, è fornita di leggi naturali, il Settembrini, pur senza il rigore che caratterizzerà i teorici del linguaggio, deve essere, secondo il mio modesto parere, considerato unitamente a quella corrente che da lì a pochi anni farà capo all’Ascoli. Voglio intendere che fra le due correnti che, negli anni successivi all’unità d’Italia, portano avanti il dibattito sulla lingua, lo scrittore napoletano aderisce a concetti linguistici[22] tanto più moderni se si tiene conto della sua formazione puristica[23].

 

2.6.   Settembrini e la sua visione dinamica della lingua

  Come abbiamo visto nel precedente paragrafo il Settembrini ha una visione dinamica della lingua ma, prima di continuare il discorso, è bene precisare che la visione dinamica non è solo della lingua ma riguarda tutti gli aspetti del reale. Questo fatto appare chiaro fin dalle prime pagine delle Lezioni  dove viene sottolineato che “tutto il mondo interiore dello spirito ed esteriore della natura esiste perché si muove, vive perché è in continuo divenire: quindi il mondo e l’uomo e le sue opere bisogna studiarli nel loro muoversi, nella vita che vivono, cioè nella storia, la quale contiene con sé tutto il vero, e le forme che esso prende, e le ragioni di esse forme”[24].

La lingua, dunque, nella continua osmosi fra lingua comune e dialetti sembra che sia regolata da un processo di costruzione-distruzione; questo appare chiaro quando il Settembrini tratta l’origine della lingua italiana[25].

Infatti nel considerare le parlate italiche anteriori al latino classico, lo scrittore napoletano in primo luogo ne descrive la lotta, poi l’assorbimento del dialetto vinto nel vincitore, ed infine la conseguente trasformazione di quest’ultimo in latino comune.

Il latino comune sarà più convenzionale visto che dovrà servire per una più larga comunicazione, ma, a sua volta, sarà corroso dall’insorgenza del nuovo pensiero cristiano il quale disgregando le vecchie ideologie, finisce col dar vita a nuovi dialetti[26].

Per ciò che riguarda le differenze fra la lingua parlata e la lingua scritta, dopo aver affermato che la trasformazione dal latino al volgare “fu lunga e insensibile”[27] e compiuta solo “quando troveremo il pensiero nuovo tutto svolto e organizzato, e disparito l’antico”[28], Settembrini sostiene che fin dal VII secolo gli italiani dovevano parlare una lingua molto vicina a quella volgare e scrivere in un latino molto simile al classico “perché il latino era inteso da tutti , e perché credettero sempre di dovere un giorno ripigliare l’impero e la lingua dei Romani”[29].

Molto interesse desta il fatto che per il Settembrini in Italia il volgare, veniva parlato dal sostrato della nazione, intendendo, col termine sostrato, non il significato dinamico ad esso associato con l’accezione ascoliana di qualche anno dopo bensì “la schiatta antica, [...] la più numerosa, e perché vinta si chiamava il volgo”[30].

Non è un caso, dunque, se il primo articolo del Giornale Napoletano porta la firma di Luigi Settembrini e non a caso la materia trattata riguarda proprio l’origine delle lingue, visto che nei fascicoli successivi sono costantemente presenti interventi inerenti alle discussioni linguistiche.

 



[1] Oldrini G., Gli hegeliani di Napoli, Augusto Vera e la corrente ortodossa, Feltrinelli, Milano, 1964: 20.

[2] De Sanctis F., La letteratura italiana nel secolo XIX, a cura di F. Catalano, vol. II, ed. Laterza, Bari; 1953: 53-54.

[3] Croce B., Storia del Regno di Napoli, Bari, Laterza, 1958: 261.

[4] Ivi, p. 262.

[5] Ivi, p.p. 262-263. (Si veda anche Labanca L., Giambattista Vico giudicato in Germania, in «G.N.F.L.», vol. VI, 1877; p.p. 321-350).

[6] Si veda la presentazione di Guido Oldrini alla Ristampa anastatica del Museo di Letteratura e filosofia, 1841-1843; Napoli, Generoso Procaccini Editori 1983; p. IX.

[7] Ivi, p. IX.

[8] Ivi, p. IX.

[9] Il Museo di Letteratura e Filosofia inizia la sua attività pubblicistica nel Settembre 1841; dal 1843, a causa della censura, diventa Museo di Scienze e Letteratura e , con una seconda serie, continua la sua attività fino al 1847, anno in cui l’attività del periodico cessa quasi completamente per essere continuata, con una terza e ultima serie, dal 1856 al 1858.

[10] Si veda la presentazione di G. Oldrini, op, cit., Napoli, 1983, p. XIII - XIV.

[11] Per ulteriori informazioni sui fondatori de Il Museo si veda la già citata presentazione di G. Oldrini, Napoli, 1983, p. XIII-XVI.

 

[12] G. Oldrini, Gli hegeliani di Napoli, Augusto Vera e la corrente ortodossa, Feltrinelli, Milano, 1964, p. 23.

[13] Questo vale anche per gli ultimi indirizi della Linguistica comparativa.

[14]Spaventa B., Studi sopra la filosofia di Hegel, Torino, 1959: p. 9. A Spaventa, però sfugge la traduzione della Filosofia del diritto curata già tre anni prima da Antonio Turchiarulo (Napoli, 1848).

[15]Oldrini G., op. cit., Napoli, 1883; p. XXXIX.

[16] Settembrini L., Lezioni di Letteratura italiana dettate all’Università di Napoli da Luigi Settembrini, Napoli, Stabilimento Tipografico Ghio, 1866 vol. I, p. 3.

[17] Ivi, p. 1. [18] Ivi, p. 5.  [19] Ivi, p. 19.

[20] Per lo steso motivo Settembrini spiega il passaggio dal latino al volgare indicando nel Cristianesimo l’elemento  catalizzatore; vedi l’opera già  citata, p. 21.

[21] Ivi, p.p. 26-27.

[22] Sono, grosso modo, gli stessi concetti che porteranno alla formulazione delle famose teorie dell’Ascoli, il quale negli stessi anni (il Proemio all’Archivio Glottologico Italiano è del ‘73) su basi rigorosamente scientifiche, dava, grazie all’indagine minuziosa sui dialetti romanzi, non solo alla parola sostrato la definizione di elemento dinamico essenziale nella formazione dei linguaggi ma, colpendo duramente le teorie manzoniane, poteva indicare che l’italiano doveva essere diffuso tramite direttive politiche e sociali.

[23] Bisogna ricordare che proprio la formazione puristica ha portato nello scrittore un grande interesse per i problemi linguistici senza bloccarlo alle conclusioni della scuola. Non sfuggì neppure al Settembrini l’apparente contraddizione delle sue posizioni rispetto agli insegnamenti del maestro, in quanto alla fine delle lezioni cerca di dimostrare che sia lui che altri discepoli non hanno fatto altro che seguire alla lettera l’insegnamento del Puoti la cui vera sostanza era “scrivere italianamente”.

[24] Settembrini L. op. cit., Napoli 1866, p. 4.

[25] Ivi, p.p. 19-33.  [26] Ivi, p.p. 20-23. [27] Ivi, p. 22.   [28] Ivi, p. 23. [29] Ivi, p. 23.  [30] Ivi, p. 24.

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