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Capitolo Terzo

La linguistica nel  

Giornale Napoletano di Filosofia e Lettere, Scienze Morali e Politiche.

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cap1 ] cap2 ] [ cap3 ]

 

3.1.        Presentazione

3.2.        Situazione dei metodi storico-comp.della linguistica

3.3.        Giacomo Lignana e Michele Kerbaker

3.4.        I Neogrammatici nel Giornale Napoletano

3.1.     Presentazione

  Il “Programma” del Giornale Napoletano di Filoso­fia e Lettere, Scienze Morali e Politiche[1] viene presen­tato il ventuno Gennaio 1875 ed è firmato dal direttore Francesco Fiorentino e dal capo della redazione Carlo M. Tallarigo.

Lo scopo principale della direzione è “non solo di render conto del movimento intellettuale di questa parte meridionale d’Italia, ma di accelerarne, secondo nostro potere, il non rapido progredire. E tra le discipline ab­biamo prescelto le Scienze filosofiche  e le Lettere  in tutta l’ampiezza del loro significato come quelle che toccano più da presso  la vita veramente umana. Qui, dove meno abbondano gli stimoli d’immediati interessi, e dove pure si contiene la più nobile parte di nostra na­tura, qui abbiamo preferito d’indirizzare la nostra atti­vità”[2]; e se le Scienze filosofiche e le Lettere sono trat­tate in tutta l’ampiezza del loro significato, un’attenzione particolare è rivolta agli studi linguistici.

Come già si è accennato precedentemente (Cap. II, § 2.2) il primo articolo del primo volume[3] (Le origini; Dialogo tra Geppino e il Nonno) è di Luigi Settembrini ed è un dialogo che si articola intorno all’origine dell’uomo  e del lin­guaggio. Il dialogo, come riferisce Croce[4], è “l’ultimo scritto” di Settembrini e contiene una “professione di miscredenza contro la filologia comparata”[5]; alla do­manda del nipote (Geppino), che vuole delle spiegazioni sulla gran varietà della razza indogermanica, il nonno (Settembrini) risponde: “immaginare una scaturigine di uomini che dal pianalto dell’Aria discenda da una parte sino all’India, e dall’altra parte passando l’Ural si versi su l’Europa vuota e deserta, e la percorra, e la popoli sino al Peloponneso, a la Sicilia, a Gibilterra, a la Sco­zia, è una sciocchezza biblica: ed è poi per lo meno un’impertinenza dire che dalla Germania sieno venuti gli uomini a popolare la Grecia e l’Italia. Buona gente i te­deschi, studiosi, colti, laboriosi, ma come tutti i nuovi arricchiti hanno la debolezza di crearsi un blasone per agguagliarsi ai vecchi nobili, e fanno ridere”[6].

Molto curioso è stato riscontrare che nello stesso fa­scicolo è presente uno studio di mitologia comparata di Michele Kerbaker (Sâvitrî e Alcesti)[7], il quale, come ve­dremo, contribuirà in maniera decisiva alla “svolta”, in senso comparativo (insieme a Lignana), degli studi lin­guistici.

 

  3.2. I motivi che rallentarono il diffondersi dei nuovi metodi storico-comparativi della linguistica.

    

  Com’è noto, Napoli si era tenuta lontana dal movi­mento degli studi di grammatica comparata che si erano  rapidamente diffusi dalla Germania in Europa; e persone come Carlo Troya, Cataldo Jannelli [8], Luigi Settembrini, Vincenzo Padula[9], non vide mai di buon occhio la paren­tela delle lingue indoeuropee [10].

Persino il conte Giacomo Leopardi, come ci informa il Croce, derise alcuni dei risultati più belli e sicuri della nuova scienza con i noti versi dei Paralipomeni [11].

Le ragioni o le cause di questa forte diffidenza nei confronti della “filologia” tedesca sono vari e, di conse­guenza, molto arduo risulta venirne a capo coerente­mente e con chiarezza.

Sicuramente, nell’analisi complessiva dei fatti, biso­gnerà considerare sia l’influenza che la formazione di indirizzo cristiano esercitò sulle personalità di uomini come Jannelli, Troya o Padula, sia l’acceso anticlericali­smo e il forte sentimento “d’italianità” che sempre con­traddistinsero il patriota Settembrini.

Per quanto riguarda Troya [12], (ma il discorso po­trebbe valere anche per Settembrini [13]) l’eccessiva esal­tazione della civiltà dell’India e la sola idea che le anti­che popolazioni europee siano potute giungere dall’Asia, dovettero recargli un deciso rigetto che precluse, allo storico napoletano, la possibilità di conoscere alcuni dei risultati più importanti cui era raggiunta la linguistica comparta tedesca; “si ostinò nell’affermare che i Goti non erano Germani e con tali errori fondamentali, rese presso che inutile agli studii una buona metà della sua grandiosa Storia d’Italia”[14].

Dunque la scarsa dimestichezza con la lingua tedesca [15], l’elemento patriottico nazionalistico e la convin­zione della poligenesi della lingua[16] ancora non permettono di giungere ad una chiara com­prensione degli ostacoli incontrati dalla nuova disci­plina; sarebbe molto semplicistico pensare che le sole ra­gioni si debbano rinvenire (scartato l’elemento cattolico cristiano che, come abbiamo già visto, non avrebbe creato nessun impedimento) nel fatto che la lingua tede­sca fosse ignorata dalla gran parte degli uomini di cul­tura o pensare che uno sciocco campanilismo potesse limitare la mente di uomini come Troya o Settembrini (che in tante altre occasioni hanno dimostrato esatta­mente il contrario).

Vero è, però, che entrambi avvertirono negli studi linguistici una minaccia molto seria che avrebbe potuto compromettere una intera tradizione di studi classici; nell’indoeuropeistica, ma soprattutto in chi la predicava, si scorgeva l’arrogante pretesa di voler screditare ogni certezza storica avvertendo fortemente il rischio che le più autentiche e importanti fonti classiche della nostra storia fossero ignobilmente falsificate[17].

In questa direzione ben si comprendono le aspre pa­role, velate da una sottile ironia, che Luigi Settembrini riserva ai filologi tedeschi: “via, lasciateci sapere qualcosa di quella lingua segreta e misteriosa che Odino e Brama parlarono fra loro prima della grande separa­zione. Io dirò quello che gli Egiziani dicevano ai Greci: Voi siete bambini nati ieri, e credete di saperne più dei vecchi, e di voler insegnare a noi quello che da noi avete appreso. Io vi ricordo che quando in Italia e nell’Ellade era già stabilita e onorata l’agricoltura e fiorivano città, per la gran selva del settentrione anda­vano errando poche tribù selvagge che vivevano di cac­cia e di pesca e di rapina: vi ricordo che la vostra storia comincia da Tacito, quando la nostra era già vecchia. Infine se proprio ci tenete ad essere indo-germanici, siate pure indo-germanici, e lasciate stare noi altri che nascemmo qui sul suolo d’Italia, su le due spalle degli Appennini, e siamo figlioli dei ciclopi.”[18]; ed ancora, parlando del Mommsen dice che “nella sua Storia Ro­mana, scritta con molta dottrina, ma con molta superbia ancora, e però con molta ingiustizia e talvolta con inso­lenze di lanzichenecco, va cercando chi furono i Japygi, a qual ramo della schiatta indo-germanica appartengono, e dice che la lingua loro è interamente perduta, che si sono trovate alcune iscrizioni che non si intendono e si tengono per japygie, ed egli vi trova un genitivo che ac­cenna alla forma del genitivo sanscrito e del genitivo gionico. Di tutte queste belle cose non ce n’è niente. Japygia che devesi pronunciare Japugia, o meglio Japujia, e Apulia, e Japyges, Japujes, sono i Pugliesi, come si chiamano anche oggi i quali pronunciano così Pujia e Pujisi. E Japujia vuol dire molle e piana: e in molti dialetti di Puglia e di Calabria si dice neve puja, bambina puja, la carne di un bambino è puja puja. E an­che oggi i montanari della Lucania e del Sannio dicono che i Marinesi, cioè i Pugliesi della marina, sono genti molli. Vedi dunque che noi con le parole nostre tro­viamo i nomi dei nostri paesi, e ne conosciamo anche il significato senza andare nell’India e nell’Asia me­diana”[19].

Eppure questo ultimo scritto risale al febbraio 1875, ovvero quattordici anni dopo la venuta, come professore ordinario di Filologia nell’Università di Napoli di Gia­como Lignana. Come già detto, è proprio grazie al suo insegnamento[20] (e, come vedremo in seguito, del Kerbaker) che gli studi di orientalistica e di linguistica comparata ebbero il giusto riconoscimento nell’ambiente culturale napoletano: “le lezioni del Lignana destavano molta curiosità e molto interesse. Erano bei giorni quelli per l’Università di Napoli: quando professori e studenti si lanciavano alla conquista di discipline e di metodi, dai quali fin allora, per le nostre condizioni politiche eravamo stati tenuti lontani. Al rinnovamento politico seguiva lo scientifico”[21].

 

  3.3.     Giacomo Lignana e Michele Kerbaker

 

Giacomo Lignana nacque a Tronzano Vercellese nel 1829; conseguì la laurea in Lettere e Filosofia a Torino dove conobbe e diventò amico di Alessandro D’Ancona e di Bertrando Spaventa. Nel 1860 fu eletto al Parla­mento rifiutando la nomina di professore di Filologia indo-germanica a Bologna e quella di Grammatica e di Lingue orientali alla R. Accademia di Milano per venire ad insegnare, nel  1861, su sua richiesta, nell’ateneo na­poletano[22].

Quando Lignana giunse a Napoli “questi studi erano del tutto ignoti. Noi avevamo un gruppo di archeologi e latinisti valorosi, come l’Avellino, il Jannelli, il Guanciali, il Mirabelli, dai metodi e dalle vedute anti­quate”[23].

Il Lignana, rispetto a questa schiera di intellettuali si colloca “in quel gruppo di studiosi e professori ita­liani, che dalla metà di questo secolo in poi s’adoprarono ad introdurre e a far penetrare nella co­scienza italiana i risultati e i metodi della nuova scuola linguistica e filologica germanica”[24].

Secondo il professore di Tronzano tutta la filologia anteriore al Bopp non riuscì a determinare né un princi­pio né un metodo e neppure ad affermarsi con autonomia nell’ambito delle scienze; solo con la grammatica com­parata del Bopp si ebbero vere e proprie conquiste lin­guistiche: “la dimostrazione definitiva di queste affinità ariane che abbracciano tutte le lingue Indo-europee è contenuta in un’opera che fonda una nuova epoca negli studi linguistici, la grammatica di Bopp [...]. Un solo tipo di parola si estende adunque dalla estremità della penisola Indiana fino all’Islanda. Quasi tutti i popoli che abitano l’Europa, e le regioni mediane dell’Asia sono partite da un solo centro, sono derivati da una sola fa­miglia, e tutte le lingue parlate da questi popoli si dedu­cono per una serie quasi sempre continua e verificabile per mezzo della esperienza glottica da una sola forma primitiva, che comunque non ci sia più conservata è tuttavia possibile reintegrare coll’analisi comparata e sulla cui primitiva esistenza non può cadere alcun dub­bio”[25].

Questa grande considerazione, che il Lignana, nu­triva, nei riguardi della linguistica (in particolar modo per quella di Bopp) è spiegabile considerando la ten­denza, che emerse intorno agli anni Quaranta e conti­nuata fin dopo il Sessanta[26], di coltivare la glottologia più della filologia che, se in Italia progrediva a piccoli passi, nel resto dell’Europa, ma soprattutto in Germania, aveva fatto passi da gigante sia dal punto di vista for­male che da quello storico sintattico. In questo arco di tempo (ma soprattutto dopo l’Unità) vi fu una cospicua pubblicazione di articoli inerenti alla linguistica, le ri­viste ospitarono sempre più traduzioni di opere tede­sche, inglesi, francesi, di linguistica indo-europea (non escluso, come vedremo il Giornale Napoletano).

Di conseguenza si ebbe il graduale assorbimento nella linguistica della filologia ed il Lignana si colloca come uno dei fautori più risoluti di questa tendenza[27].

Allo stesso modo di Humboldt [28] era fermamente convinto “che la parola piuttosto che un fatto sia un continuo farsi [...] ad ogni momento nella specie, nei popoli, nell’individuo e questo continuo farsi della pa­rola nello spirito, e dello spirito nella parola, che gene­ralmente non si avverte, produce ed accumula modifica­zioni, che secondo la loro intensità, ed estensione de­terminano quello che poi si chiama un’epoca nella storia delle lingue”[29].

Proprio seguendo Humboldt, Lignana elaborerà una vera e propria filosofia del linguaggio. In un intervento dal titolo “Applicazione del criterio filologico al pro­blema storico della filosofia” dichiara che “il filosofare e il parlare sono ai due poli dello svolgimento storico della coscienza” ed individua “la condizione preliminare della filosofia” nella facoltà di “astrarre dalla parola”; e poiché “il parlare è generalizzare, generalizzare è astrarre”; ma “astrarre non è operazione identica in tutte le lingue dell’umanità” visto che vi può essere vera astrazione solo “dove l’essenziale, il solo essenziale del concetto è conservato”[30].

Per Lignana la parola consiste di materia e di forma[31] ed è indispensabile che in essa entrambe siano ben uniti.

Non tutte le lingue però, contengono sia la materia che la forma; certe sono dotate solo di materia (come la cinese) altre solo di forma (come le lingue americane) altre ancora dal contatto di materia e forme (come la lingua egizia) ed alcune (come le lingue indo-europee) dalla materia saldamente unita alla forma[32].

Per quanto riguarda la sua formazione sappiamo che intorno al 1847 partiva da Torino per recarsi all’Università di Bonn, e che a Bonn insegnavano il Lassen e lo Spiegel[33]; in Germania Lignana poté conoscere ed apprezzare quel movimento che reagì ad Hegel in nome del ‘ritorno a Kant’, sostenuto fra gli altri da Humboldt ed Herbart, riportando con sé in Italia “l’eco di tali movimenti di pensiero, ottenendo però da questa sua opera di colporteur l’ostilità del mondo culturale accademico non soltanto napoletano”[34]; infatti il tre aprile il Croce, conformandosi alla norma accademica che imponeva al socio subentrante il ricordo del predecessore lesse all’Accademia Pontaniana la commemorazione di Giacomo Lignana; in essa, fra l’altro, gli viene riconosciuto sia il merito di aver pronunciato “parole vivaci, che destarono molto rumore”[35], sia quello di aver introdotto l’herbartismo in Italia[36]. Giacomo Lignana insegnò nell’ateneo partenopeo per un decennio[37], alla fine del quale “indagato per l’ostilità manifestatagli non solo dai colleghi ma anche dai propri discepoli, nonché dai Gesuiti e dalle accademie napoletane, chiese ed ottenne il trasferimento a Roma[38]. Qui a Roma mantenne lo stesso insegnamento che aveva a Napoli e il 25 febbraio 1871 dava inizio agli studi ‘Lingue e Letterature Comparate’ con il discorso di inaugurazione intitolato “Le trasformazioni delle specie e le tre epoche delle lingue e letterature europee”[39]. Nella prima parte di questa prolusione confronta le teorie ‘filologiche’ del Bopp con quelle naturalistiche del Darwin concludendo che se entrambi hanno distrutto il concetto dell’immutabilità della specie laddove il Darwin è convinto che tutte le specie organiche derivino da una sola, il Bopp limita la sua teoria della trasformazione della specie al solo gruppo delle lingue arie; nella seconda parte divide e determina le tre epoche delle lingue[40].

Ma se nel 1871 il Lignana partiva per Roma, nel 1872 fu nominato professore di Linguistica ed incaricato dell’insegnamento del sanscrito, nella R. Università di Napoli, Michele Kerbaker.

I due professori sono facilmente accostabili sia per aver insegnato le stesse discipline nella stessa università, sia perché entrambi furono molto restii nel raccogliere in modo organico il loro lavoro.

Un suo discepolo, il prof. Cimmino[41], ci dice che il Kerbaker, “sempre nell’intento di ottenere con maggiore armonia la fedeltà del testo originale e la bontà della traduzione poetica, aveva preso a rifare interi episodi già da lui prima tradotti e pubblicati; e fra gli altri quello della ‘Storia di Nalo’, stampato fin dal 1878, altamente lodato dall’Ascoli e dal Carducci”[42].

Una pubblicazione organica degli scritti del Kerbaker manca; si deve al D’Ovidio la stampa dell’inno “Agli Asvini”[43], molti altri inni sono presenti nello stesso “Giornale Napoletano”, altre traduzioni sono contenute negli Atti della R. Accademia, altri ancora nella raccolta “Poeti stranieri” di Morandi e Ciampoli[44].

La posizione del Kerbaker è importantissima in quanto quasi tutti gli intellettuali napoletani, e non solo, fecero gran tesoro delle sue traduzioni.

Benedetto Croce lo inserisce con chi “ci ricongiunse all’Europa viva” ovvero in “quella schiera di studiosi che si chiamavano il Gorresio, il Flechia, l’Ascoli e poi il Kerbaker, il Teza, il De Gubernatis”[45].

Se le parole del Cimmino[46] non ci ingannano il Kerbaker fu “il più forte e il più profondo conoscitore della poesia vedica, in Italia, rimane pur tale nella memoria e nell’ammirazione degli amici del suo tempo e dei suoi antichi discepoli; ma le fronde sparse delle sue impareggiabili versioni - ch’egli non volle mai riunire insieme - restano pur sempre esposte al vento dell’oblio, che ingiustamente e inesorabilmente travolge ed annienta ogni cosa!”[47].

Fu amico di Pietro Merlo tanto che quest’ultimo nell’aprile 1888 (a novembre dello stesso anno sarebbe morto tragicamente) tenendo una conferenza al Circolo Filologico di Milano[48] concludendo diceva: “Ed ora vorrei saper io cantare le lodi non del Soma né di Parjanya, ma del mio illustre amico M. Kerbaker, i cui mirabili versi mi valsero così bene ad alleviarmi il tedio de’ miei commenti. Niente di più difficile che tradurre la poesia. Non si tratta solo di mutar veste ma di una vera metamorfosi; e durante la difficile operazione quasi sempre soccombe [...]. Ma nelle traduzione di M. Kerbaker ch’ebbe già vive lodi dal Carducci [...], par piuttosto che il ricamo venga sempre ad assumere squisitezza maggiore di lavoro.

Or io sono lieto di poter annunziare che tutti questi bei fiori d’oriente, [...] li potrete presto ammirare riuniti insieme elegantemente per cura de’ successori Le Monnier”[49]. Ma la raccolta che con così grande entusiasmo veniva orgogliosamente annunziata dal Merlo, non fu mai realizzata nonostante Francesco D’Ovidio e Bonaventura Zumbini avessero esortato più volte il Kerbaker ad affidare il manoscritto degli “Inni vedici” alla casa editrice Le Monnier[50].

D’altronde i saggi e le presentazioni di M. Kerbaker contenuti nel “Giornale Napoletano”[51] permettono (anche se non rigorosamente) di rinvenire i motivi essenziali che caratterizzarono i metodi e i lavori del prof. Kerbaker.

Sicuramente fu un profondo conoscitore della lingua e della cultura indiana ma il suo ingegno ed i suoi sforzi si concentrarono principalmente nell’interpretare quanto più fedelmente possibile i concetti che man mano trovava espressi nei vari poeti indiani.

Le sue traduzioni degli inni e dei poemi epici indiani sono caratterizzate dalla massima cura per il concetto volgarizzato; questo è sempre accompagnato da preziosissime testimonianze filologiche, ovvero “dai rispettivi richiami ai passi originali del testo”[52], e da un ricchissimo complesso di note che, oltre a giustificare l’opera del traduttore, costituiscono una vera miniera per chi è alla ricerca di notizie di carattere mitologico e cosmogonico inerente alle varie divinità vediche.

Ma il fattore decisivo che determinò la stima ed il generale consenso dei suoi lavori si deve individuare, sicuramente, nel fatto che il Kerbaker nelle sue traduzioni preferì quasi sempre la forma poetica a quella prosastica: “la versione metrica”, ci dice, “ha questo vantaggio sulla versione sciolta, che più istantemente costringe il traduttore a rendere lo spirito anziché la lettera dell’originale, e, sotto un certo rispetto, lo obbliga ad essere più fedele ove si dia la pena di cercare nell’idioma moderno le espressioni equipollenti all’antico, che certo non possono risultare dalla materiale corrispondenza dei vocaboli”[53].

La riproduzione estetica del concetto originale deve essere ricavata valutando le frasi “non già nelle loro singole parti, ma nel loro valore completo e complessivo [...] ed ancora, associando all’espressione poetica il grande prestigio dell’armonia”[54].

E’ proprio in virtù del suo desiderio, quasi ossessivo, di rendere nelle traduzioni “meglio lo spirito che la lettera”[55], che il Kerbaker si avvale della mitologia comparata in quanto i miti “in processo di tempo si appropriarono veramente di molti elementi della vita reale ed ideale dei popoli, in mezzo a cui si svolsero”[56].

Inoltre è fermamente convinto che “lo stesso principio che ci conduce a scoprire l’interiore organismo delle favelle indoeuropee in una lingua comune ed originaria, ci deve scorgere a cercare lo strato più profondo delle leggende mitologiche nella mitologia primitiva dei popoli arjani”[57]. Infatti, grazie “alle rivelazioni della nuova scienza linguistica” il mito non può essere considerato più “né un’impostura, né un sogno di mente inferma, né un ornamento poetico, né un capriccio volgare, ma sebbene è un discorso vero e serio nel tempo in cui fu composto, i cui termini hanno perduto il loro primitivo significato”[58]; ne consegue che la lingua “è costretta ad ordinare e ripartire con giusta economia tutta questa confusa farragine di elementi lessicali, assegnando alle diverse voci il loro proprio ed esclusivo significato, limitandone l’uso e le funzioni e liberandole dalla tirannia dell’etimo.

Si comprende ora come, in virtù di questa grande metamorfosi linguistica, le rappresentazioni poetiche, di una data epoca smarriscano dopo un notevole intervallo di tempo, il loro vero senso letterale e divengano pressoché inintelligibili ed enimmatiche alle generazioni posteriori, che pure usano gli stessi elementi radicali”[59].

Dunque, volendo trarre alcune considerazioni, mi sembra lecito affermare che il merito maggiore che possa essere attribuito al Kerbaker sia quello d’aver mirabilmente sintetizzato il suo scrupolosissimo lavoro di filologo con la capacità di rappresentare con grande vigore l’essenza poetica contenuta nei versi indiani; con altrettanta sicurezza e senza alcun riserbo possiamo accettare le parole del Cimmino, secondo cui Michele Kerbaker “fu un vero apostolo degli studii indiani in Italia”[60]; e se in Italia fu un ‘vero apostolo’ nell’ambiente culturale napoletano fu un vero maestro[61]; infatti nella sua pluridecennale (1872-1914) carriera d’insegnante nell’ateneo napoletano istruì tantissimi giovani meridionali, illustrando e spiegando i vantaggi ottenibili con l’applicazione dei metodi comparativi che, entrati quasi in punta di piedi con le prime lezioni del Lignana, si affermarono e si consolidarono solo con M. Kerbaker[62].

 

3.4.     I Neogrammatici nel Giornale Napoletano

 

 

La prefazione di Karl Brugmann ed Hermann Osthoff alle ‘ Morphologische Untersuchungen’ (1978) segnava l’atto di nascita del nuovo indirizzo di studi che fu detto ‘junggrammatiker’.

Le pagine del Giornale Napoletano sono anch’esse testimoni di quelle famose questioni che seguirono la divulgazione dei postulati della nuova scienza; due sono gli interventi[63] che esplicitamente fanno riferimento al nuovo indirizzo, uno del Fumi e l’altro del Ceci.

La controversia si manifestò in modo netto negli anni che corrono fra il 1876 e il 1878.

E’ nel 1876, infatti, che Karl Brugmann dette inizio alla famosa questione con la pubblicazione di due articoli sull’indoeuropeo[64] (nel primo si ricostruivano le cosiddette sonanti nasali o nasali vocaliche /n/, /m/; nel secondo si discutevano alcuni problemi morfologici e si ricostruiva il vocalismo indoeuropeo in maniera totalmente diversa da quella accettata da Schleicher e da Curtius).

Due, tra le altre, furono le accuse principali che vennero mosse agli articoli: in primo luogo il Brugmann con la sua ricostruzione del vocalismo indoeuropeo contraddiceva quella del Curtius e, fatto forse ancor più grave, i principi che via via andava esponendo erano sorretti da continue dichiarazioni inerenti ai corretti metodi da applicare alla ricerca storico comparativa, il che, implicitamente, lasciava sottintendere che gli studi precedenti fossero sorretti da metodi inaffidabili[65].

A molti, questo atteggiamento sembrò essere estremamente arrogante; altri, invece, ritennero opportuno di non degnare alcuna considerazione a quegli argomenti, reputandoli, semplicemente, come una fastidiosa ripetizione di concetti già noti.

Nel 1878 però Brugmann, insieme ad Osthoff (già professore ad Heidelber) pubblicò una rivista: ‘Morpholigische Untersuchungen’, che, nell’ambito della disputa, ebbe un ruolo molto importante.

La prefazione, come già accennato, del primo numero (firmato appunto dal Brugmann e dall’Osthoff) è considerato il vero manifesto del movimento neogrammatico.

Ogni frase è permeata da una sorta di enfasi quasi rivoluzionaria (sempre nell’ambito degli studi linguistici) che ben presto irritò quasi tutta la generazione precedente.

I due autori dichiarano di aver subito l’influenza di W. Scherer e di H. Steinthal ma indicarono il Leskien come l’ispiratore dei loro principi basilari[66].

I postulati fondamentali della nuova scuola, che ebbe fra i suoi teorici, oltre ai due studiosi già citati, anche Bertold Delbriück ed Hermann Paul, possono essere indicati innanzi tutto nell’origine psicologica, e non anatomico-fisiologica, come aveva sostenuto lo Schleicher, dei mutamenti fonetici, i quali devono la loro origine dall’innovazione inconscia di un singolo individuo estendendosi poi, sempre in modo inconscio, alla collettività dei parlanti; inoltre, la regolarità di questi mutamenti, che colpiscono un determinato suono ogni volta che ricorre in una determinata posizione, è tale da permettere che questi vengano qualificati come ‘leggi’ (le eccezioni sono dovute alle cosiddette false analogie o all’interferenza tra leggi diverse, non dalla mancata influenza delle stesse leggi); infine, indicarono come fondamentale lo studio delle lingue viventi, che permette un esame molto più esteso ed esatto e di applicare, successivamente, i risultati ottenuti in tale direzione alle lingue cosiddette morte[67].

L’eco di questa polemica, come già accennato, è rinvenibile anche nelle pagine del Giornale Napoletano. Di Fausto Gherardo Fumi è un intervento[68] il cui scopo principale è quello di far conoscere i nuovi indirizzi che erano nati, e andavano maturandosi, in Germania. Secondo il professore di Montepulciano la ricostruzione del linguaggio protoariano è sempre stato l’intento principale dell’intera linguistica comparativa; ma un errore di fondo ha dominato tali ricerche; e cioè si è sempre ritenuto di derivare il processo evolutivo delle forme glottiche dalle “figure ipotetiche di protoglosse” e dalle “più antiche forme storiche dell’indiano, dell’irano, del greco ecc., la cui vita anteriore non può riandarsi se non per congettura e per ricostruzione, ma si - conformi all’adagio ex noto ad ignotum - sopra quegli sviluppi linguistici, la cui vita anteriore può seguirsi più lungamente nei documenti e la cui origine ci è immediatamente conosciuta”; pertanto, “il linguista comparatore - ci informa il Fumi - se vuol giungere a ben concepire come il linguaggio vada sviluppandosi, deve ritrarre lo sguardo dalle fasi originarie e volgerlo alle attuali di esso e liberarsi affatto una volta per sempre che lo stato più recente delle lingue arie abbia a interessarlo come ariologo sol quando gli offra un materiale adatto alla ricostruzione del protariano”[69].

E’ altresì convinto che “in tutte le parlate vive del popolo le conformazioni fonetiche proprie del dialetto penetrano sempre in tutto quanto il materiale glottico e parlando son mantenute da tutti quelli che usano lo stesso volgare con più rigore che non si presuma studiando le lingue antiche note solamente per le scritture; e tal rigore va spesso fino alle più delicate sfumature fonetiche”[70].

Si può affermare, tutto sommato, che la posizione di Fausto Gherardo Fumi rispetto alle nuove tesi dei neogrammatici, sia quella di una generale imparzialità[71] ma, certamente, i giovani linguisti sono visti dal Fumi con una certa condiscendenza, intravedendo, come si è visto, in quelle indicazioni alcuni elementi positivi; è fermamente persuaso del fatto che le leggi fonetiche siano uno strumento preziosissimo per qualsiasi linguista, ma non crede alla loro ineccepibilità; per ciò che riguarda l’analogia, Fumi ci avverte che “non tutte le innovazioni debbano dirsi analogiche [...]; certune lo sembrano eppur possono essere continuazioni sporadiche [...], insomma frammenti di flessione corrosa incastrati [...]. Questo dicono veramente anche i neogrammatici ma lo praticano soltanto quando lor torna comodo”[72].

Ma se il Fumi assume una posizione imparziale dinanzi alle nuove teorie neogrammaticali Luigi Ceci lascia intendere chiaramente di accogliere i nuovi postulati rivelandosi decisamente come un neogrammatico.

“Noi siamo profondamente convinti - scrive il Ceci -[73] che nello stato attuale delle cognizioni si apra colla così detta «Iunggrammatische Richtung» una nuova e splendida fase per la Glottologia Indogermanica”. Mi permetto di affermare, ma solo perché ho trovato un riscontro molto autorevole[74], che il Ceci, rispetto al Fumi aveva una conoscenza più profonda degli assiomi sollevati dal gruppo dei neogrammatici, ritraendone di conseguenza maggiori profitti.

Le argomentazioni che propone il Fumi sono molto più generiche (quasi ricercasse un compromesso a tutti i costi) di quelle esposte dal Ceci il quale, con estrema lucidità e sicurezza osservava che “il programma dei Neogrammatici - non sarà male che io vi insista - non è uscito dalla testa di Osthoff e di Brugmann come Pallade armata dalla testa di Giove; ma lo storico deve pur riconoscere come per opera dei due eminenti Professori di Heidelberg e di Leipzing le varie proposizioni presentate insieme nella loro logica connessione siano apparse nel loro vero aspetto”. Inoltre, è molto importante notare che, il Ceci, nell’esporre le sue opinioni intorno ai neogrammatici, scelga proprio il commento al libro del Delbrück[75] visto che lo studioso tedesco “è uno dei convertiti alla «junggrammatische Reichtung» non caposcuola dei Novatori; e codesto fatto giova non poco alla calma della discussione ed alla conseguente equità dei giudizi che manca talvolta negli scritti «ad es.» dell’Osthoff del Brugmann”[76]. Con questa puntualizzazione sembra quasi che il Ceci voglia tentare di divulgare le tesi dei neogrammatici evitando il prevenuto rigetto verso di queste che, generalmente, era nutrito da molti tra linguisti e critici del tempo. Ed il Ceci veramente aveva piena fiducia e riposto tanto entusiasmo in quei nuovi postulati, tanto che lo stesso Ascoli[77] , cercando di indurre il giovane Ceci su di una posizione più critica, usa parole molto rispettose, quasi cercasse di non offenderlo.

3.1.        Presentazione. 205

3.2.        I motivi che rallentarono il diffondersi dei nuovi metodi storico-comparativi della linguistica.. 206

3.3.        Giacomo Lignana e Michele Kerbaker. 208

3.4.        I Neogrammatici nel Giornale Napoletano.. 214

 



[1] Il Giornale Napoletano di Filosofia e Lettere, Scienze Morali e Politiche (d’ora in poi nelle note «G.N.F.L.»), pubblicato dal 1875, si compone di fascicoli bimestrali; tre fascicoli costituiscono un volume, due volumi una annata. Nel 1879 ha inizio una nuova serie che prosegue fino al 1885.

[2] In  «G.N.F.L.»  vol. I, 1875; “Programma”

[3] In «G.N.F.L.», vol. I, 1875; p.p. 1-22

[4] Croce B.. Commemorazione di Giacomo Lignana, in “Atti dell’Accademia Pontaniana (d’ora in poi A.A.P.), vol. XXII, 1892; p.p. 5-24.

[5] Ivi, p. 7.

[6] In «G.N.F.L.», vol. I, 1875; p. 13.

[7] In «G.N.FL.», vol. I, 1875; p.p. 125-161

[8] Sociologo, studioso di lingue antiche, prefetto della Reale Biblioteca di Napoli, membro della Reale Accademia ercolanese; fu fautore del metodo  critico nello studio della storia, continuò le opere del Giannone e del Vico; operò sempre in una prospettiva di isolamento culturale restando estraneo ai nuovi indirizzi metodologici e mostrando sempre un’idea mediata  e superficiale degli studi linguistici condotti in Europa e specialmente in Germania. Merita di essere ricordato che la teoria dello Jannelli intorno ad una presunta affinità dell’osco con l’ebraico fu accolta con molto entusiasmo nell’ambiente culturale partenopeo: cfr. P. Serafini, rec. a C Jannelli, “Veterum Oscorum Inscriptiones et tabulae eugubinae; Latina interpretazione tentatae: tum specimina etymologica adjecta a Cataldo Jannelio” in «Progr.», 37, 1845; p.p. 90-102; 235-224; ed anche P. Serafini, “Principi ermeneutici per le iscrizioni nelle antiche lingue”; in «Progr.», 38, 1846, p.p. 308-310; si veda anche L. Carfora, “Degli studi orientali in Italia; in «Progr.», 19, 1838; p.p. 85-94.

Nelle pagine del «Progr.» analizza interessanti elementi della cultura egizia, in particolare quelli della scrittura geroglifica con “Alcune quistioni sui Geroglifici degli Egizi, da servire da estratto a quella parte dell’opera del sig. Jannelli [Fundamenta Hermeneutica Hierographie criptiee veterum Gentium, sive Hermeneuticees Hierograficae libri tres etc Neapoli 1830] che tratta di essi.” in «Progr.», 4, 1833; p.p. 89-110; e con “Riflessioni di Cataldo Jannelli accademico ercolanese su due lettere del sig. Francesco Salvolini intorno ai Geroglifici cronografici degli egizi” in «Progr.», 7, 1834; p.p. 53-82.

[9] Però in un intervento del 1867, Dalla scienza del linguaggio; opera di Max Mûller, il Pagano  scrive: “Il metodo con cui si classifica e si studia una lingua è inapplicabile ad un’altra. La classificazione delle lingue indoeuropee ha giustificato in parte, non in tutto, la grammatica comparata. Essa deve appoggiarsi alla storia; e pria di darle luce deve riceverne”. (Prose Giornalistiche, Napoli 1878; p.417.

[10] Santamaria D., Bernardino Biondelli e la linguistica preascoliana, edit. Cadmo, Roma 1981; p. 56

[11] Croce B., op. cit., 1892; p. 6. Così i versi riportati direttamente dal Croce. “Ma un tedesco filologo di quelli / Che voglion che il legnaggio e l’idioma / Tedesco, e il Greco, un dì furon fratelli / Anzi un solo in principio” (Paralipomeni, I, 16).

[12] Santamaria D., Interessi linguistici in storici ed eruditi del primo Ottocento italiano; Edizioni Scientifiche Italiane, 1993; p.p. 90-105

[13] In «G.N.F.L.» vol. I, 1875; p.p. 17-18.

[14] Croce B., op. cit., 1892 p; p. 7

[15] Vedi Cap. II, § 2.4.

[16] In «G.N.F.L.», vol. I, 1875; p. 10: “dopo i tanti studi fatti sulle schiatte umane e su le lingue, la monogenia del genere umano non è un opinione che paia ragionevole”.

[17] Santamaria D., op. cit., 1993; p.p. 96-97

[18] In «G.N.F.L.», vol. I, 1875; p. 19.

[19] Ivi, p. 21. Questo dialogo del Settembrini, - febbraio 1875 -, infastidì non poco il D’Ovidio che in una lettera al direttore del «G.N.F.L.» così lamentava il suo dissenso: “certo, la scienza nostra non ha nulla da temere dagli assalti di un uomo di così piccola mente quale è il buon Settembrini. Ma io penso al male che quelle sfuriate, piene d’ignoranza crassa e di leggerezza meravigliosa devono necessariamente portare ai giovani. La parola del Settembrini, facilmente insinuantesi per quella sua tersa fluidità, per quella sua graziosa semplicità e bonomia; la superficialità sicura e sbrigativa delle sue idee, che tanto appaga la poltroneria della mente del lettore; l’autorità e il prestigio che all’autore è assicurato dalla meritatissima riverenza che si ha per suo animo nobilmente impetuoso, schietto e sdegnoso, e per il suo onorato martirio politico; l’essere l’articolo suo posto come esordio del Giornale, e l’apparire quindi, benché nol sia, l’espressione quasi collettiva, il programma, di tutta la Redazione; tutto insomma assicurerà alla leggerezza del Settembrini uno spaccio presso le menti dei giovani, un infiltramento nelle loro opinioni, che riuscirà certamente dannoso. Noi soprattutto del mezzogiorno, ove c’è la tendenza speculativa, filosofica di risolvere tutte le questioni con l’intuizione e col raziocinio astratto, a priori, abbiamo bisogno di accreditare il lavoro, la serietà della ricerca il culto della competenza; se no resteremo sempre quel che siamo e non siamo certo antesignani dei buoni studi, precisi in complesso. E bisogna anche calcolare lo scredito che quella così ingenua pompa d’arroganza soddisfatta di sé medesima, quella pedanteria ranagliana alleggerita nelle forme epperciò più pericolosa, ci porterà nel resto d’Italia e all’estero”. [Carteggio Fiorentino, busta B3. La citazione della lettera del D’Ovidio è tratta da Brambilla A., Appunti sul carteggio Carducci - D’Ovidio, in «A.S.N.S.P.», serie 3a, vol. XX, 1, 1990 nota n. 8 p. 293]. “La preoccupazione del D’Ovidio, dice Brambilla (ivi, n. 8, p. 293) anche se estesa agli studiosi dell’Italia intera, risultava però soprattutto giustificata all’interno del mondo napoletano [...] ed aveva il suo obiettivo polemico nell’ormai logoro patriottismo letterario di cui Luigi Settembrini, morto nel 1876, era stato forse il rappresentante più autorevole”. Vedi anche Salsano P. e Zingarelli N., Francesco D’Ovidio, in i “Critici”, vol. II, ed. Marzorati, Milano, 1970; p.p. 1017-1044.

[20] Non va dimenticato, però, l’enorme contributo di Francesco D’Ovidio. Il Ministro della Pubblica Istruzione Bonghi convertì l’insegnamento di ‘Lingue e Letterature comparate’ in quello di ‘Storia comparata delle lingue classiche e neo-latine’, affiancando a quest’ultimo anche l’insegnamento di ‘Storia comparata delle letterature neo-latine’, separando, in questo modo, lo studio delle lingue da quello delle letterature (R.D. n.2743 dell’11 ottobre 1875); fra coloro che rifiutarono con più decisione tale riforma vi fu F. De Sanctis che non convertì il suo insegnamento di ‘Letteratura comparata’ in ‘Storia comparata delle letterature neo-latine’. Come straordinario di tale insegnamento (che includeva però sia le lingue che le letterature neo-latine), venne nominato (in seguito al rifiuto del De Sanctis) Francesco D’Ovidio il quale tenne la cattedra dal 1876 al 1925, anno della sua morte. [cfr. Dovetto F., La polemica sulla denominazione dell’insegnamento linguistico dall’unità al 1936 con particolare riguardo ai suoi aspetti napoletani, in  «AGI», vol. LXXVI, fasc. I, 1991, p.p. 107-108]; inoltre, va ricordato che nella ‘Prefazione’ ai ‘Saggi Critici’ [Edit. Morano, Napoli 1879.] il D’Ovidio, consapevole di contribuire al progresso degli studi senza alcun complesso di inferiorità nei confronti delle nazioni più progredite fossero esse la Francia o la Germania, ci dice che «la paura del germanesimo, in ogni ordine di studj, va sempre più cedendo il campo anche in quest’ultimo angolo d’Italia [Napoli], dove pur s’intende ormai che la grande stima ed invidia nostra per le condizioni felicissime degli studi filologici e storici in Germania, non si scompagna mai dalle speranze e dalla fede di poter raggiungere, emulare, e anche superare in parte, quandochessia, la gente che ne è fatta segno; laddove gli antagonisti, proclamando, per ultima ragione, che la nostra gioventù non possa reggere al lavoro quanto può la gioventù straniera, proclamare implicitamente la inferiorità indefettibile della nostra patria» [Le parole del D’Ovidio sono tratte da Brambilla A. op. cit. 1990; p.233]

[21] Croce B., op. cit. 1892; p. 10.

[22] Ippolito P., Giacomo Lignana; in “La cultura classica a Napoli nell’Ottocento”; Pubblicazioni del Dipartimento di Filologia Classica dell’Università degli Studi di Napoli, Napoli 1987; p. 495; vedi anche B. Croce, op. cit. 1892; p.p. 5-24.

[23] Croce B., op. cit. 1892; p. 9.

[24] Ivi, p. 6.

[25] Lignana G., Le trasformazioni delle specie e le tre epoche delle lingue e letterature indo-europee, Roma, Loescher, 1871; p.p. 10-11. 

[26] Vedi Ippolito P., op. cit., Napoli, 1987; p. 498.

[27] Ivi, p. 498.

[28] Vedi Croce B., op. cit. 1982; p. 12 e nota 1 alla stessa pagina.

[29] Lignana G., op. cit., Roma, 1871; p.p. 24-25.

[30] Lignana G., Applicazione del criterio filologico al problema storico della filosofia, in «A.A.P.», vol. IX, 1871; p.p. 166-167.

[31] Sul concetto di ‘materia’ e ‘forma’ in Lignana si vedano le note 32 e 33 del già citato lavoro di Patrizia Ippolito contenuto in, La Cultura classica a Napoli nell’Ottocento,: “La materia, secondo Lignana era il contenuto della rappresentazione. La forma [...] il sistema particolare di relazioni nella lingua di un popolo”; p. 501.

[32] Croce B., op. cit., 1892; p. 14.

[33] Ivi, p. 8.

[34] Dovetto F., Gli inediti di Giacomo Lignana, in «A.A.P.» (n.s.) vol. XXXVIII, 1989; p. 51. (Questo intervento della Dovetto può essere molto interessante per chi voglia condurre ulteriori ricerche su G. Lignana in quanto danno notizia dell’esistenza di un “fondo Pullè” nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze consistente di 83 cassette ed un pacco; nella 35a cassetta sono contenuti quasi tutti i manoscritti di Lignana; altri suoi manoscritti si trovano nella cassetta 27 cartella 80, sempre sotto la collocazione «mss. da ord. 244» [p. 54]).

[35] Croce B., op. cit., 1892; p. 15.

[36] Ivi, p. 8.

[37] Dal 1861 al 1871: nel ‘62 partecipò, in qualità di interprete, alla spedizione italiana in Persia diretta dal De Filippi; (altre brevi interruzioni nell’insegnamento accademico derivarono dal fatto che fu per due volte deputato, nella VII e nella X Legislatura rispettivamente nei collegi di Crescentino e Santhià ma, come ci informa il Croce [Croce B., op. cit. 1892; p. 11], non prendendo mai la parola) tornato dalla Persia nel settembre del ‘62 riprese l’insegnamento universitario con un corso di sanscrito e l’esposizione della grammatica del Bopp e dello Schleiermacher; tenne per un semestre un corso di letteratura novellistica nel quale si comparavano le novelle del folklore delle varie letterature con il Panciarantra; inoltre dedicò “alcune lezioni (in esplicazione della fonologia comparata dal gruppo italico) sul dialetto napoletano, in quanto è continuatore [...] di alcune particolarità fonetiche dell’Osco” (Croce, op. cit. 1892; p. 11). Nel 1864 e ‘65 si dedicò al persiano moderno in relazione ai dialetti eranici anteriori e ai dialetti del Mazanderan e Ghilàn; nel 1864-5 e 1865-6 tenne dei corsi di lingue e letterature slave (seguirono questi corsi il De Vincentis ed Eduardo de Vivo).

Si occupò in prima persona affinché fosse evitata la soppressione dell’antico Collegio dei Cinesi, che fu trasformato nel Collegio Asiatico: nel 1868 fu avviata una scuola di lingue orientali ed europee viventi ed insegnò la lingua dei mongoli. Nel 1881 le sorti del Collegio asiatico (dopo tante traversie) si ripresentarono nelle sue mani essendo stato incaricato dal Ministro dell’Istruzione pubblica di esaminare le condizioni economiche dell’istituto: una legge del Parlamento del 27 settembre 1888 abolì la Congregazione Ripa, e fondò il R. Istituto Orientale.

[38] Dovetto F., op. cit., nota 5, p. 55.

[39] Lignana G., op. cit., Roma, Loescher, 1871.

[40] La prima epoca storica “rappresenta il nostro spirito storico nella totalità ancora indistinta dei suoi momenti teorici; la parola è mito, poesia, relazione e congiunzione, nel medesimo tempo” (Lignana, op. cit. 1871; p. 17). Nella seconda epoca storica, le lingue arie si dividono in tre gruppi, indoiranico, slavogermanico e grecolatino, mentre la terza giunge fino al X secolo dell’era volgare facendo nascere, col progresso dello spirito nella parola, all’epoca moderna; ne deriva che “la lingua moderna è diventata la cifra del pensiero moderno” (Ivi, p. 29).

[41] Fu alunno prima di P. Merlo e successivamente iscritto all’Istituto Orientale dove il Kerbaker era direttore e insegnante di Storia dei popoli dell’Oriente.

[42] Cimmino, Commemorazione di Michele Kerbaker, in «A.A.P.», vol. XXI, n.s., 1916; p.p. 8-9.

[43] Agli Asvini. Inno vedico di M. Kerbaker, pubblicato da F. D’Ovidio, etc. Napoli, 1887. Leggo nella nota n. 2 a p. 5 in «A.A.P.», vol. XXI, 1916: “E il D’Ovidio, nella lettera ‘al prof. G. B. Gandino’ prima dell’Inno scrive: “Io sapevo benissimo che il Kerbaker suol far tante belle cose e tenerle in serbo senza alcuna smania che vengono in luce: [...] ma aspettavo che per essere anch’egli amico tuo [...] m’avrebbe tanto più volentieri ajutato. Così che io posso qui dar fuori uno di quei suoi Inni Vedici, nei quali il talento del poeta e la dottrina del filologo sono stretti insieme in un mirabile connubio” (p.p. 6-9).

[44] Traggo queste notizie dai già citati «A.A.P.» vol. XXI, 1916; p. 6.

[45] Croce B., op. cit., 1892; p. 8.

[46] Cimmino non fu socio successore del Kerbaker all’Accademia Pontaniana. Questa è una delle poche circostanze in cui il socio successore, Paolo Vetri, cede l’onore della commemorazione, forse perché il Cimmino fu discepolo del Kerbaker.

[47] Cimmino, op. cit., 1916; p. 6.

[48] L’argomento della conferenza era “La più antica poesia dell’India”. (Cimmino, op. cit., 1916; p. 4.)

[49] La citazione del Merlo è tratta sempre da Cimmino, op. cit., 1916; p. 4 e 5.

[50] Cimmino, op. cit., 1916; p. 5. Vedi anche nota n. 2, p. 5.

[51] Vedi l’apparto degli indici riguardante il «G.N.F.L.».

[52] In «G.N.F.L.», vol. I, 1879; p. 333.

[53] In «G.N.F.L.»; vol. III, n.s., 1880; p.p. 120-121. Vedi anche «G.N.F.L.», vol. I, 1879; p.327.: “Vale più che mai per la parola vedica ciò che fu detto della parola poetica in genere, che, cioè, essa è concreata coll’idioma in cui fu concepita e che perciò a volere che sia da altri ben intesa ed apprezzata [...] il traduttore deve [...] spiegare e definire quei concetti nel vetusto idioma indoârjo si trovano associati ad un dato vocabolo laddove il vocabolo stesso acquistò nell’uso seriore una significazione particolare e determinata, ben diversa dalla primitiva”, e «G.N.L.F.», vol. I, 1879; p.p. 56-93.

[54] In «G.N.F.L.», vol. II, 1875; p.267.

[55] Ivi, p. 267.

[56] In «G.N.F.L.», vol. I, 1875; p. 131. (Vedi anche Kerbaker M., Due atti di un dramma indiano, in «G.N.F.L.», vol. X,  1884; p.p. 1-36 e 178-220).

[57] Ivi, p. 131.

[58] Ivi, p. 132.

[59] Ivi, p. 137. (Vedi anche «G.N.F.L.», vol. V, 1877; p.p. 58-81 e 165-206).

[60] Cimmino, op. cit., 1816; p.12.

[61] Oltre ad essere stata una delle firme più prestigiose del ‘Giornale Napoletano’ fu socio della Società Reale di Napoli (1883); segretario della R. Accademia di Archeologia Lettere e Belle Arti (1883-1914); fu socio anche della R. Accademia, delle Scienze di Torino, della R. Accademia dei Lincei di Roma, del R. Istituto Lombardo di Scienze e Lettere di Milano, della R. Accademia della Crusca di Firenze, dell’Accademia delle Scienze di Bologna ed inoltre fu pure socio ordinario e poi onorario della Società Asiatica Italiana. Nell’Accademia Pontaniana fu nominato socio della Classe di Lettere e Belle Arti, il 29 gennaio 1888. («A.A.P.», vol. XXI, n.s., 1916; p.13.)

[62] Nacque a Torino il 10 settembre 1835 e morì a Napoli il 20 settembre 1914. Si laureò in Lettere e Filosofia nella R. Università di Torino nel 1857. Fu insegnante nel seminario di Biella, poi a Mondovì e di qui a Parma. Da Parma si trasferì a Napoli dove insegnò prima nel R. Liceo “Principe Umberto” e nel 1872 fu nominato professore di Linguistica nella R. Università di Napoli (fu anche direttore dell’Istituto Orientale di Napoli); eccetto brevi spostamenti restò nella città partenopea fino al giorno della sua morte.

[63] Fumi F. G., La glottologia e i neogrammatici, in «G.N.F.L.», vol. IV, n.s., 1880; p.p. 226-242; è continuato in «G.N.F.L.», vol. V, n.s., 1881; p.p. 49-76; e termina in «G.N.F.L.», vol. V, n.s. 1881; p.p. 249-277.

Ceci L., Bortoldo Delbrück e la scienza del linguaggio indogermanico, in «G.N.F.L.», vol. VI, n.s. 1881; p.p. 220-241; continua e termina in «G.N.F.L.», vol. VI, 1882; p.p. 336-373.

[64] Gli articoli furono pubblicati nel periodico “Curtius Studien” in assenza dello stesso Curtius che, al suo ritorno, respinse le congetture del Brugmann e poco più tardi sospese persino la pubblicazione. (Ho tratto queste notizie dalla Morpurgo Davies A., La linguistica dell’Ottocento, Ed. Il Mulino, Bologna 1996; p. 315).

[65] Vedi Morpurgo Davies A., op. cit., 1996; p.p. 315-316.

[66] Vedi Morpurgo Davies A., op. cit., 1996; p. 316.

[67] Timpanaro S., Graziadio Isaia Ascoli, in I Critici, Marzorati Milano, 1970; p. 313; vedi anche Ramat P., Le querelle sulle ‘leggi fonetiche’, in: Un periodo di storia linguistica: I Neogrammatici; Atti del Convegno della Società Italiana di Glottologia, a cura di A. Quattordio Moreschini, Giardini editori e stampatori in Pisa, 1996; p.p. 51-60.

[68] Vedi nota 1.

[69] In «G.N.F.L.», vol. IV, 1980; p.p. 230-231.

[70] Ivi, p. 232.

[71] Si veda «G.N.F.L», vol. V, 1881; p.p. 49-76. Nel primo intervento (vedi nota 1) individua nello Scherer il ‘patriarca’ dei neogrammatici; ed all’inizio del secondo: “non si può negare che il libro dello Scherer sulla storia della lingua tedesca abbia dato una stimolo nuovo e vigoroso agli studi comparativi del linguaggio. Di certo ne è seguita una esagerazione affatto estranea alle idee fondamentali dell’autore”. (Ivi, p. 49).

[72] Ivi, p. 73.

[73] In «G.N.F.L.», vol. VI, n.s. 1881; p. 233; nota n. 1.

[74] Terracini B., Una lettera poco nota di G. I. Ascoli; in “A.G.I.” vol. XLI, 1956, fasc. II; p.p. 139-150. (Il destinatario della lettera avverte il Terracini nel commentarla dopo averla ripubblicata, è il Ceci, e, poco più avanti, a pagina 143: “era accaduto che solo con gli scritti del Ceci [Scritti glottologici, fasc. I, Fir. 1882], si rilevasse come «neogrammatico» facendo buon viso alle nuove dottrine assai più decisamente del Merlo, del Fumi e contro la posizione negativa del D’Ovidio e di altri”).

[75] Einleitung in das Sprachstudium. Ein Beitrag zur Geschichte und Methodik der vergleichenden Sprachforschung von B. Delbrück, Leipzing, Breitkopf u. Härtel, 1880.

[76] In «G.N.F.L.», vol. VI, 1881; p.p. 220-221.

[77] Vedi Terracini B., op. cit. 1956; p. 140. Così l’Ascoli: “Ell’ha veduto, com’io riconosca amplissimamente tutto il bene che già ci è derivato e ci possa derivare dall’opera di quegli studiosi cui piace chiamarsi neogrammatici, e ne viene implicitamente che io condanni ogni irriverente parola che voglia ferire o il complesso o gli assunti particolari della loro attività”

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