INTRODUZIONE
ORIGINI
DEL DIALETTO
I
DIALETTI MERIDIONALI
IL
DIALETTO LACEDONIESE
LA
PRONUNCIA DEL DIALETTO
LA
CACUMINALE
ESITO
DI ALCUNI NESSI CONSONANTICI
Mi è sembrato opportuno e doveroso esordire
segnalando i due lavori sul dialetto di Lacedonia del signor Antonio
Vigorita[1]
che hanno avuto
il merito di imporre una sorta di dibattito e, almeno, un certo
interesse intorno a tale argomento, emarginato e mai considerato dalla
pur nutrita schiera di ‘uomini di cultura’
che la sera, ormai solo nei dì di festa, affollano
Piazza Francesco De Sanctis.
Le poche iniziative di recupero
della parlata locale rischiano di essere circoscritte alla
curiosità di pochi e al folclore di una visione nostalgica.
In diverse direzioni, e da molto tempo, s’invoca,
confusamente, la rivalutazione del dialetto:
c'è chi pensa che la scelta dell’una o
dell’altra lingua sia una questione ideologica;
chi afferma che il dialetto basterebbe insegnarlo a scuola -
come l'inglese o come una qualsiasi altra lingua -;
e chi, sospirando, dice: “com'era
bello il dialetto di
una volta”
!
Spesso gli operatori culturali locali, e non solo a Lacedonia, lamentano
la scarsa partecipazione della gente alle loro iniziative sul
recupero della vera parlata locale, senza rendersi
conto che in questo recupero formale la comunità non
riconosce sé stessa e, nel migliore dei casi, risulterà
essere semplicemente incuriosita, rischiando, in questo modo,
di ridurre una lingua a un repertorio di termini e a
un'accozzaglia di proverbi.
Tutti gli interventi inerenti al dialetto che non partano dal concetto di
questo come strumento di comunicazione e di cultura, ma lo
concepiscano come una sorta di patrimonio degli incolti su cui
mettere le mani, rischiano di ottenere il totale disinteresse
della comunità, accusata di scarsa partecipazione.
È del tutto normale che un ragazzo di dodici anni non sappia cosa sia la
‘varda’ visto
che ‘ciucci’ non se ne vedono più
da ormai tanto tempo.
È impossibile far vivere artificialmente il dialetto di cinquant’anni
fa, per decisione di pochi; un dialetto non può essere
considerato come un reperto da museo. È assurdo affermare che
il dialetto di una volta si è perso, che a Lacedonia ormai il
dialetto “classico” non si parla più e che il suo
posto è stato preso da una lingua italiana imbarbarita.
A Lacedonia il dialetto è quanto mai vivo, in
quanto viva è la cultura di cui esso è espressione; è una presenza
costante, una lingua viva di comunicazione alla quale
nessuno è estraneo.
Ma, spesso, capita che chi parla non è in grado di dominarlo: quando
lo parla non se ne rende conto; quando non lo vuole parlare esso salta
fuori, magari imbastardito, ma inequivocabile; e anche quando è
convinto di parlare italiano, bene che vada parlerà un italiano
regionale, e questo può capitare a un lacedoniese così come a un
ligure o a un fiorentino.
Talvolta chi parla è consapevole che il dialetto ha
avuto dei mutamenti nel corso degli anni e che egli stesso non lo
parla più come prima; avrà accantonato alcuni termini e ne avrà
acquisiti degli altri. Alcune volte riesce anche a rendersi conto di
non parlare sempre allo stesso modo, ma di variare l’uso della
lingua in rapporto al
ambiente in cui si trova a comunicare (in famiglia o con amici; fuori
con estranei dialettofoni o con italofoni; può variare anche nel caso
in cui assuma un
atteggiamento formale o
informale; a
seconda che
sia rilassato
o nervoso, di
buon umore o preoccupato. L’interscambio di codice tra dialetto
e italiano, perlopiù inconscio e incontrollato, produce in chi
parla un gran numero di enunciati misti, e quindi, di
conseguenza, insicurezza linguistica; ciò induce spesso, in chi deve
comunicare, uno stato di vergogna e, spesso, innesca uno dei
processi peggiori che possa capitare a una persona: liberarsi
della propria identità culturale e sociale, ripudiandola con vergogna.
Del resto, accade anche il processo contrario, che vede
l'interlocutore che normalmente parla italiano, parlare una sorta di
dialetto di fronte a un dialettofono, per non sentirsi a disagio.
Per dominare queste situazioni è sufficiente
conoscere i rapporti dinamici reali che governano i vari codici
linguistici; sarà conseguente un uso consapevole della nostra lingua,
senza stati di disagio, e una presa d’atto, senza conflitti, di
quello che si è, col giusto orgoglio di appartenere alla cultura di
cui si è espressione e con l'eventuale, cosciente, processo di
miglioramento delle proprie capacità comunicative nella direzione
voluta, senza vergogna e condanne.
Un bilinguismo
consapevole, accettato e riconosciuto sarà l’unico strumento a
nostra disposizione che ci permetterà di usare, con padronanza e a
nostro piacimento, sia il dialetto che l'italiano; questa,
sicuramente, è la condizione linguistica che ogni comunità dovrebbe
raggiungere.
E' ormai risaputo che le lingue romanze o neolatine appartengono alla
famiglia delle lingue indoeuropee; già molto tempo fa si sapeva che
queste lingue derivarono dal latino, ma non si notarono però le fasi
che condussero le singole lingue romanze a formarsi staccandosi
progressivamente dalla koinè, cioè dal latino comune,
del volgo. Cicerone distingueva il 'sermo urbanus' dal
'volgaris sermo' o 'sermo rusticus', parlato
dalla stragrande maggioranza del popolo che non conosceva la lingua
letteraria. Nell' 813 il concilio di Tours decise che le prediche
andavano fatte usando la rustica romana lingua, il che
vuol dire che le nuove lingue romanze già si riconoscono come nuove
unità linguistiche. Nel dominio linguistico italiano si distinsero
subito (e ancora oggi sono distinguibili) tre grandi gruppi
dialettali:
1.
dialetti alto italiani (che comprendono i dialetti gallo italici, il veneto col
friulano e il ladino, e l'istrioto)
2.
dialetti centro meridionali (esclusi i toscani)
3.
dialetti toscani (compresi i dialetti della Corsica)
E' ovvio che stando Lacedonia
in provincia di Avellino (Campania), e precisamente in Alta
Irpinia, il suo dialetto andrà collocato nel grande gruppo dei
dialetti centro meridionali. Di notevole interesse è il fatto che
geograficamente il suo comune confina sia con la Basilicata che con
la Puglia.
Possono
essere divisi in quattro grandi sezioni:
a) dialetti marchigiano -umbro- romaneschi (laziali)
b) dialetti abruzzese -pugliese sett. -molisano -
campano-lucano
c) dialetti salentino e calabro-siculo
d) dialetti sardi
Queste quattro grandi sezioni, pur essendo molto
varie, presentano alcuni tratti comuni attribuibili, forse, al
sostrato italico, come le assimilazioni nd
> nn (come in monno -laziale- o in
munn¶ -campano
e pugliese sett.- e ancora in munnu
-calabro-siculo-salentino- [per mondo], e ancora quanno
per quando) e mb > mm (come piommo
o kiummo per piombo; - da notare anche il passaggio di
/pl/ latino, in /k/ (es. il
latino plus > kiù , e anche
kkiù ►italiano: più;
allo stesso modo planum e plenum diventano kian¶
e kin¶
).
Entro questa grande area linguistica è possibile
fissare numerose distinzioni minori. Una caratteristica dei
dialetti laziali e marchigiano umbri è la completa assenza di
vocali indistinte [¶
]
la cui presenza, al contrario, caratterizza i dialetti
parlati dall'Abruzzo fino ai confini del Salento , e dal
basso Lazio fin oltre Cosenza, in modo maggiore in Puglia, nel
barese.
Un altro carattere molto importante dei dialetti
centro meridionali, e dunque anche di quello lacedoniese, è la
metafonesi o armonizzazione vocalica
[da μέτα
>
trasformazione,
e φονήσις > parlata,
idioma]. E' una variazione vocalica causata da determinati fonemi
vocalici di sillaba seguente.
Questo fenomeno, nei lacedoniesi, come in tutti gli
abitanti di quei paesi in cui il fenomeno esiste, è del tutto
automatico, quindi inconscio: foneticamente consiste
in una anticipazione del grado di apertura della vocale atona
seguente, per lo più finale. Questo fenomeno nel nostro
dialetto è determinato dai fonemi /e/ -aperto-
e /o/-aperto- tonici che
per influenza di /i/ -lungo-
e /u/ -breve-
si frangono in dittonghi /e =
ie/ e /o = uo/;
dal latino ventu si ha
vient, da mortu si
ha muort. - Nell'Italia
settentrionale il fenomeno è causato soltanto da /i/
lungo)-
La metafonesi ha valore morfologico; essa
serve, per lo più, ad indicare un opposizione di genere
es.> lu russ¶
>
il rosso la ross¶
>
la rossa; lu spus¶
>
lo sposo; la
spos¶
>
la
sposa; ; solo raramente servirà come opposizione
di numero.
Il vero dialetto lacedoniese è quello che affonda
le sue radici nell'antichità, nel terreno classico, nelle sue
derivazioni dirette dall'osco, dal greco e dal latino,
conservato molto bene in quel fantastico ricettacolo che
è il mondo rurale e contadino, ed arricchito, nel corso dei
secoli da voci francesi, catalane, aragonesi, germaniche e
persino arabe.
Il vocabolo grasta è quasi una
inalterata trasmissione del vocabolo greco γάστρα;
Se
il latino gastra significava, indistintamente,
sia vaso che coccio
in greco, così come nel lacedoniese, γάστρα
è inequivocabilmente il vaso per coltivare piante e i
fiori
Il latino mappa è ben conservato nel termine lacedoniese
"mappina" nel significato di
'straccio' pronto ad ogni uso; in senso figurato è usato per
indicare uno stato fisico non proprio dei migliori >
m'send na' mappin ►mi sento uno straccio; o
anche, e in modo maggiore, per indicare un forte ceffone in
faccia > mo' t' chiav nu mappin inda' la facc¶ ►adesso ti incastro 'una mappina'
nella faccia, che non potrà essere tradotto
semplicemente "adesso ti do uno schiaffo", poiché
implica l'idea, o meglio la figura mentale, della 'cosa'
stropicciata, tumefatta, forgiata con violenza; (ti lascio la
faccia in modo tale che sembri uno straccio); ed ancora: l'agg¶
cumb¶nat
na mappin¶ ►l'ho
ridotto uno straccio, sia fisicamente, dopo un litigio, che in
senso figurato, in seguito ad un alterco verbale nutrito da
ingiurie e calunnie.
L'italiano, a differenza del dialetto, nella
maggior parte dei casi non accoglie l'eredità classica e
mutua da altre lingue gli stessi vocaboli, o ne è privo e
deve far ricorso alla perifrasi:
cerasa >
gr. κέρασος = ciliegia;
làĝ¶na
> gr. λάγαnα
= pasta lavorata al matterello
sprelonga >
gr. σπέλλυγγα
= piatto ovale;
spòrta >lat. sporta =
cesta
m¶sal¶ >
lat. mensale = tovaglia da tavola;
abbunato > lat. bonatus
= privo di malizia, quasi
scemo.
precoca >
lat. praecoca
= pesca gialla;
m¶nuzzaglia
> lat. minutaglia
=cose minute, di
nessun valore
Agli
esempi di derivazione classica vanno accostati quelli derivanti da
influenze linguistiche posteriori
cànnacca >dall'arabo 'kannaaka'
= collana di perle;
giarl¶
> aragonese 'giarra' = brocca;
v¶lanz¶ >catalano 'balanza'
= bilancia;
p¶cuozz¶
>francese ‘bigoz’ = uomo da sacrestia
buatta > francese ‘boitîte’=
barattolo
Il dialetto lacedoniese regola la sua pronuncia in base
all'accento tonico della parola.
Possono
essere distinti due gruppi di vocali.
Il
1°:
/a/,
/i/, /u/;
e il 2°: /e/, /o/.
Le vocali del primo gruppo, indipendentemente
dall'accento tonico, possono essere pronunciate.
Le vocali /e/, e /o/ possono essere
pronunciate solo se distinte dall'accento tonico.
Le vocali che si scrivono e non si pronunciano non
sono totalmente mute, ma presentano un suono indistinto, paragonabile,
forse, a quello che doveva essere il cosiddetto sceva
►¶
dell'indeuropeo.
Le vocali finali generalmente non sono pronunciate;
si verifica il contrario quando 1)
su di esse cade l'accento tonico (come nella parola f¶l¶c¶tà
-felicità-);
2)
se formano una legazione vocalica (sunata, la /a/ finale
non si pronunzia, ma in 'sunata nostr¶'
(suonata nostra),
la
vocale finale /a/ indistinta, che non si pronuncia in "nà
sunat¶",
riappare, e si pronuncia, grazie alla legazione con la /n/ di
nostra; 3) nei monosillabi, eccetto in quelli con /e/ atona.
Con queste regole sarà più
chiaro il meccanismo di certe variazioni vocaliche es.:►
la
festa si pronuncia la fest', ma piccola
festa, o meglio 'festicella' si pronuncerà fstcell
(f¶st¶cell¶,
o meglio f¶st¶cedhr¶)
- non
essendo più tonico l'accento sulla prima /e/, questa non è più
pronunciata.
La cacuminale retroflessa:
da
notare il passaggio di / ll / a > / dd /,
che per la retroflessione dell' ultima /d/ conferirà al nesso
consonantico un suono simile
a
/ dhr /,
ove il suono /r/ sarà
dato formando il diaframma di articolazione con le estremità
posteriori laterali della lingua che andranno a toccare i molari
superiori destri e sinistri, e la punta della lingua leggermente
retroflessa sotto il palato anteriore, subito dopo i denti incisivi
superiori. Questo è un tratto tipico del dialetto lacedoniese
riscontrabile solo nel dialetto di S.Andrea di Conza (ma
sicuramente anche in altri dialetti della zona);
è
molto diffuso in Sicilia, e in alcuni testi dialettali è anche
riportato graficamente, sia ►ddhr e sia
►dhr,
ma la nostra pronuncia, di questo suono, è più mancata sia rispetto
a quella di S.Andrea, sia rispetto ad alcuni dialetti catanesi e
ragusani (facendo
il militare ho potuto riscontrare in alcuni commilitoni della Sicilia,
di cui non ricordo precisamente il paese, lo stesso modo di articolare
questo nesso, con una retroflessione meno marcata rispetto alla mia).
Oltre al già citato passaggio dell'occlusiva
bilabiale /p/ in occlusiva velare /k/ ricordiamo, qui di
seguito, l'esito di alcuni nessi consonantici.
In
posizione iniziale:
il /Bl/ latino passa prima a ►/Bi/
e in una fase successiva diventa ►/i/ -
Blank
►Bianco►Ianĝ∂;
bletulam►bietola►iet∂;
il nesso /Br/ diventa /Vr/
- Vr/ - braccio ►vrazz∂; questo
fenomeno ricopre la stessa area di estensione /b/
►/v/.
Internamente le consonanti possono trovarsi in
posizione intervocalica o unite ad altre consonanti:
come già accennato il nesso /mb/ si
trasforma nella geminata /mm/ per reazione
ipercorrettiva;
la /l/ di falce diventa /u/ -
falce ►fauc∂
-;
/bl/ in posizione interna diventa /
l’/ - nebla ►negli∂
-
(Nebbia
- in italiano/bl/ interno diventa /bbi/).
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