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Il dialetto di Lacedonia

queste pagine sono curate dal prof.Domenico Quatrale

mimmoquatrale@iol.it

INTRODUZIONE

ORIGINI DEL DIALETTO

I  DIALETTI  MERIDIONALI

IL DIALETTO LACEDONIESE

LA PRONUNCIA DEL DIALETTO

LA CACUMINALE

ESITO DI ALCUNI NESSI CONSONANTICI

 

 

INTRODUZIONE

 

Mi è sembrato opportuno e doveroso esordire segnalando i due lavori sul dialetto di Lacedonia del signor Antonio Vigorita[1] che hanno  avuto il merito di imporre una sorta di dibattito e, almeno, un certo interesse intorno a tale argomento, emarginato e mai considerato dalla pur nutrita schiera di ‘uomini di cultura’  che la sera, ormai solo nei dì di festa, affollano Piazza Francesco De Sanctis.

Le poche iniziative di recupero  della parlata locale rischiano di essere circoscritte alla curiosità di pochi e al folclore di una visione nostalgica.

In diverse direzioni, e da molto tempo, s’invoca, confusamente, la rivalutazione del dialetto:  

c'è chi pensa che la scelta dell’una o dell’altra lingua sia una questione ideologica;

chi afferma che il dialetto basterebbe insegnarlo a scuola - come l'inglese o come una qualsiasi altra lingua -;

e  chi, sospirando, dice: “com'era bello  il  dialetto  di  una  volta” !

Spesso gli operatori culturali locali, e non solo a Lacedonia, lamentano la scarsa partecipazione della gente alle loro iniziative sul recupero della vera parlata locale, senza rendersi conto che in questo recupero formale la comunità non riconosce sé stessa e, nel migliore dei casi, risulterà essere semplicemente incuriosita, rischiando, in questo modo, di ridurre una lingua a un repertorio di termini e a un'accozzaglia di proverbi.

Tutti gli interventi inerenti al dialetto che non partano dal concetto di questo come strumento di comunicazione e di cultura, ma lo concepiscano come una sorta di patrimonio degli incolti su cui mettere le mani, rischiano di ottenere il totale disinteresse della comunità, accusata di scarsa partecipazione.

È del tutto normale che un ragazzo di dodici anni non sappia cosa sia la ‘varda’  visto che ‘ciucci’ non se ne vedono più  da ormai tanto tempo.

È impossibile far vivere artificialmente il dialetto di cinquant’anni fa, per decisione di pochi; un dialetto non può essere considerato come un reperto da museo. È assurdo affermare che il dialetto di una volta si è perso, che a Lacedonia ormai il dialetto “classico” non si parla più e che il suo posto è stato preso da una lingua italiana imbarbarita. 

A Lacedonia il dialetto è quanto mai vivo, in quanto viva è la cultura di cui esso è espressione; è una presenza costante, una lingua viva di comunicazione alla quale  nessuno è estraneo.
Ma, spesso, capita che chi parla non è in grado di dominarlo: quando lo parla non se ne rende conto; quando non lo vuole parlare esso salta fuori, magari imbastardito, ma inequivocabile; e anche quando è convinto di parlare italiano, bene che vada parlerà un italiano regionale, e questo può capitare a un lacedoniese così come a un ligure o a un fiorentino.

Talvolta chi parla è consapevole che il dialetto ha avuto dei mutamenti nel corso degli anni e che egli stesso non lo parla più come prima; avrà accantonato alcuni termini e ne avrà acquisiti degli altri. Alcune volte riesce anche a rendersi conto di non parlare sempre allo stesso modo, ma di variare l’uso della lingua  in rapporto al ambiente in cui si trova a comunicare (in famiglia o con amici; fuori con estranei dialettofoni o con italofoni; può variare anche nel caso in cui assuma  un  atteggiamento  formale  o  informale;  a  seconda  che  sia  rilassato  o  nervoso, di  buon umore o preoccupato. L’interscambio di codice tra dialetto e italiano, perlopiù inconscio e incontrollato, produce in chi parla un gran numero di enunciati misti, e quindi, di conseguenza, insicurezza linguistica; ciò induce spesso, in chi deve comunicare, uno stato di vergogna e, spesso, innesca uno dei  processi peggiori che possa capitare a una persona: liberarsi della propria identità culturale e sociale, ripudiandola con vergogna.
Del resto, accade anche il processo contrario, che vede l'interlocutore che normalmente parla italiano, parlare una sorta di dialetto di fronte a un dialettofono, per non sentirsi a disagio.

Per dominare queste situazioni è sufficiente  conoscere i rapporti dinamici reali che governano i vari codici linguistici; sarà conseguente un uso consapevole della nostra lingua, senza stati di disagio, e una presa d’atto, senza conflitti, di quello che si è, col giusto orgoglio di appartenere alla cultura di cui si è espressione e con l'eventuale, cosciente, processo di miglioramento delle proprie capacità comunicative nella direzione voluta, senza vergogna e condanne.
 Un bilinguismo consapevole, accettato e riconosciuto sarà l’unico strumento a nostra disposizione che ci permetterà di usare, con padronanza e a nostro piacimento, sia il dialetto che l'italiano; questa, sicuramente, è la condizione linguistica che ogni comunità dovrebbe raggiungere
.

 

ORIGINI DEL DIALETTO

E' ormai risaputo che le lingue romanze o neolatine appartengono alla famiglia delle lingue indoeuropee; già molto tempo fa si sapeva che queste lingue derivarono dal latino, ma non si notarono però le fasi che condussero le singole lingue romanze a formarsi staccandosi progressivamente dalla koinè, cioè  dal latino comune, del volgo.  Cicerone distingueva il 'sermo urbanus' dal 'volgaris sermo' o 'sermo rusticus',   parlato dalla stragrande maggioranza del popolo che non conosceva la lingua letteraria. Nell' 813 il concilio di Tours decise che le prediche andavano fatte  usando la rustica romana lingua, il che vuol dire che le nuove lingue romanze già si riconoscono come nuove unità linguistiche. Nel dominio linguistico italiano si distinsero subito (e ancora oggi sono distinguibili) tre grandi gruppi dialettali:

 

1.    dialetti alto italiani (che comprendono i dialetti gallo italici, il veneto col friulano e il ladino, e l'istrioto)

2.    dialetti centro meridionali (esclusi i toscani)

3.    dialetti toscani (compresi i dialetti della Corsica)

 

E' ovvio che stando Lacedonia in provincia di Avellino (Campania), e precisamente in Alta Irpinia, il suo dialetto andrà collocato nel grande gruppo dei dialetti centro meridionali. Di notevole interesse è il fatto che geograficamente il suo comune confina sia con la Basilicata che con la Puglia.

 

I  DIALETTI  MERIDIONALI

 

Possono essere divisi in quattro grandi sezioni:

a) dialetti marchigiano -umbro- romaneschi (laziali)

b) dialetti abruzzese -pugliese sett. -molisano - campano-lucano

c) dialetti salentino e calabro-siculo

d) dialetti sardi

Queste quattro grandi sezioni, pur essendo molto varie, presentano alcuni tratti comuni attribuibili, forse, al sostrato italico, come le assimilazioni   nd > nn (come in monno -laziale- o in  munn -campano e pugliese sett.- e ancora in munnu -calabro-siculo-salentino- [per mondo], e ancora quanno per quando) e mb > mm (come piommo o kiummo per piombo; - da notare anche il passaggio di /pl/ latino, in /k/ (es. il latino plus > kiù , e anche  kkiù italiano: piùallo stesso modo  planum e plenum diventano kian e kin ). 

Entro questa grande area linguistica è possibile fissare numerose distinzioni minori. Una caratteristica dei dialetti laziali e marchigiano umbri è la completa assenza di vocali  indistinte [ ] la cui presenza, al contrario,  caratterizza i dialetti parlati  dall'Abruzzo fino ai confini del Salento , e dal basso Lazio fin oltre Cosenza, in modo maggiore in Puglia, nel barese. 

Un altro carattere molto importante dei dialetti centro meridionali, e dunque anche di quello lacedoniese, è la metafonesi  o armonizzazione vocalica   [da μέτα > trasformazione, e  φονήσις > parlata, idioma]. E' una variazione vocalica causata da determinati fonemi vocalici di  sillaba seguente.

Questo fenomeno, nei lacedoniesi, come in tutti gli abitanti di quei paesi in cui il fenomeno esiste, è del tutto automatico, quindi inconscio:  foneticamente consiste in una anticipazione del grado di apertura della vocale atona seguente, per lo più finale. Questo fenomeno nel nostro dialetto è determinato dai fonemi   /e/ -aperto-  e   /o/-apertotonici  che  per influenza di  /i/ -lungo-   e   /u/ -breve-   si  frangono in  dittonghi  /ie/   e   /o = uo/;  dal  latino  ventu  si  ha   vient,   da  mortu  si  ha  muort.   - Nell'Italia  settentrionale  il  fenomeno è causato soltanto da /i/ lungo)-  

La metafonesi ha valore morfologico; essa  serve, per lo più, ad indicare un opposizione di genere es.>  lu russ > il rosso    la ross > la rossalu spus > lo sposo;  la  spos > la sposa; solo raramente servirà come opposizione di numero.

 

IL DIALETTO LACEDONIESE

Il vero dialetto lacedoniese è quello che affonda le sue radici nell'antichità, nel terreno classico, nelle sue derivazioni dirette dall'osco, dal greco e dal latino, conservato  molto bene in quel fantastico ricettacolo che è il mondo rurale e contadino, ed arricchito, nel corso dei secoli da voci francesi, catalane, aragonesi, germaniche e persino arabe.

Il vocabolo grasta è quasi una inalterata trasmissione del vocabolo greco γάστρα; Se il latino gastra significava, indistintamente, sia vaso che coccio[2]  in greco, così come nel lacedoniese, γάστρα è inequivocabilmente il vaso per coltivare piante e i fiori[3]

Il latino mappa[4] è ben conservato nel termine lacedoniese "mappina" nel significato di 'straccio' pronto ad ogni uso; in senso figurato è usato per indicare uno stato fisico non proprio dei migliori > m'send na' mappin ►mi sento uno straccio; o anche, e in modo maggiore, per indicare un forte ceffone in faccia > mo' t' chiav nu mappin inda' la facc ►adesso ti incastro 'una mappina' nella faccia,  che non potrà essere tradotto semplicemente "adesso ti do uno schiaffo", poiché implica l'idea, o meglio la figura mentale, della 'cosa' stropicciata, tumefatta, forgiata con violenza; (ti lascio la faccia in modo tale che sembri uno straccio); ed ancora: l'agg cumbnat na mappin ►l'ho ridotto uno straccio, sia fisicamente, dopo un litigio, che in senso figurato, in seguito ad un alterco verbale nutrito da ingiurie e calunnie.

L'italiano, a differenza del dialetto, nella maggior parte dei casi non accoglie l'eredità classica e mutua da altre lingue gli stessi vocaboli, o ne è privo e deve far ricorso alla perifrasi:

cerasa > gr. κέρασος = ciliegia;                         

làĝna > gr.  λάγαnα = pasta lavorata al matterello

sprelonga > gr. σπέλλυγγα = piatto ovale;      

spòrta >lat. sporta = cesta

msal > lat. mensale = tovaglia da tavola;

abbunato > lat.  bonatus = privo di malizia, quasi scemo.

precoca > lat.  praecoca = pesca gialla;

mnuzzaglia > lat.  minutaglia =cose minute, di nessun valore

Agli esempi di derivazione classica vanno accostati quelli derivanti da influenze linguistiche posteriori

cànnacca >dall'arabo 'kannaaka' = collana di perle;

giarl > aragonese 'giarra' = brocca;

vlanz >catalano 'balanza= bilancia;

pcuozz >francese ‘bigoz’ = uomo da sacrestia

buatta > francese ‘boitîte’= barattolo

 

 

LA PRONUNCIA DEL DIALETTO

 

 

Il dialetto lacedoniese regola la sua pronuncia in base all'accento tonico della parola.

Possono essere distinti due gruppi di vocali.

Il 1°:  /a/, /i/, /u/;             e il 2°: /e/, /o/. 

Le vocali del primo gruppo, indipendentemente dall'accento tonico, possono essere pronunciate.

Le vocali /e/, e /o/ possono essere pronunciate solo se distinte dall'accento tonico.

Le vocali che si scrivono e non si pronunciano non sono totalmente mute, ma presentano un suono indistinto, paragonabile, forse, a quello che doveva essere il cosiddetto sceva dell'indeuropeo.

Le vocali finali generalmente non sono pronunciate; si verifica il contrario quando 1) su di esse cade l'accento tonico (come nella parola  flc  -felicità-); 2) se formano una legazione vocalica (sunata, la /a/ finale non si pronunziama in 'sunata  nostr' (suonata nostra) la vocale finale /a/ indistinta, che non si pronuncia in "nà sunat",  riappare, e si pronuncia, grazie alla legazione con la /n/ di nostra; 3) nei monosillabi, eccetto in quelli con /e/ atona.

Con  queste  regole  sarà più chiaro il meccanismo di certe variazioni  vocaliche es.:la festa si pronuncia la fest', ma piccola festa, o meglio 'festicella' si pronuncerà fstcell (fstcell, o meglio fstcedhr) - non essendo più tonico l'accento sulla prima /e/, questa non è più pronunciata. 

 

LA CACUMINALE

La cacuminale retroflessa: da notare il passaggio di / ll / a > / dd /, che per la retroflessione dell' ultima /d/ conferirà al nesso consonantico un suono simile

a / dhr /,

ove il suono /r/  sarà dato formando il diaframma di articolazione con le estremità posteriori laterali della lingua che andranno a toccare i molari superiori destri e sinistri, e la punta della lingua leggermente retroflessa sotto il palato anteriore, subito dopo i denti incisivi superiori. Questo è un tratto tipico del dialetto lacedoniese riscontrabile solo nel dialetto di S.Andrea di Conza (ma sicuramente anche in altri dialetti della zona); è molto diffuso in Sicilia, e in alcuni testi dialettali è anche riportato graficamente, siaddhr e siadhr, ma la nostra pronuncia, di questo suono, è più mancata sia rispetto a quella di S.Andrea, sia rispetto ad alcuni dialetti catanesi e ragusani (facendo il militare ho potuto riscontrare in alcuni commilitoni della Sicilia, di cui non ricordo precisamente il paese, lo stesso modo di articolare questo nesso, con una retroflessione meno marcata rispetto alla mia).  

 

ESITO DI ALCUNI NESSI CONSONANTICI   

Oltre al già citato passaggio dell'occlusiva bilabiale /p/ in occlusiva velare /k/ ricordiamo, qui di seguito, l'esito di alcuni nessi consonantici.

 In posizione iniziale:

il /Bl/ latino passa prima a /Bi/ e in una fase successiva diventa /i/ - Blank BiancoIanĝ;   bletulambietolaiet;

il nesso  /Br/  diventa  /Vr/  - Vr/  - braccio vrazz; questo fenomeno ricopre la stessa area di estensione /b//v/.

Internamente le consonanti possono trovarsi in posizione intervocalica o unite ad altre consonanti:

come già accennato il nesso /mb/ si trasforma nella geminata /mm/ per reazione ipercorrettiva;

la /l/ di falce diventa /u/ - falce fauc -;

/bl/ in posizione interna diventa / l’/ - nebla negli- (Nebbia -  in italiano/bl/ interno diventa /bbi/).

 

 

 



[1] Antonio Vigorita, Lacedonia nella tradizione e nel suo vernacolo. Ed.Cautillo, Vallesaccarda  1989;

   Antonio Vigorita, ‘ng’ èra na òta Carogna. WM Stampa  Editoriale srl. Atripalda 1995.

A tutt’oggi queste due opere sono le uniche testimonianze per quanti, curiosi o studiosi, vogliano accostarsi al dialetto lacedoniese.

[2] Satiricon di Petronio LXX, 6 e LXXIX, 8

[3] Ateneo, /199/.

[4] tovagliolo usato oltre che a tavola, anche per portar via i cibi non consumati dall'ospite parassita; si veda il Satiricon di Petronio LX, 7e LXVI, 4

 

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