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Capitolo Primo

La linguistica teorica ne'

 “Il Progresso delle Scienze, delle Lettere e delle Arti

[ cap1 ] cap2 ] cap3 ]

 

1.1.     Presentazione

1.2.     Discussioni sulla lingua: la scuola del Puoti

1.3.     Il linguaggio della prosa e della poesia

1.4.     Attività grammaticale e lessicografica

1.5.     Le origini del linguaggio

 

1.1. Presentazione.

  Il 5 Marzo 1832  veniva  pubblicato, nella Napoli di Ferdinando II, il primo quaderno di u n  nuovo  periodico  Il Progresso Delle Scienze, delle Lettere e delle Arti [1]. 

Ideatore e primo direttore fu il ventiquattrenne Giuseppe Ricciardi, figlio di Francesco Ricciardi colto liberal democratico ministro di grazia e giustizia durante il decennio murattiano e nel corso del breve governo costituzionale di Ferdinando I.

La vita letteraria della città era ormai rappresentata dal purismo puotiano, ma col Puoti non sembra che Ricciardi mantenesse rapporti diretti, anche perché casa Ricciardi era essa stessa un ritrovo culturale.

Lo scopo principale del giovane direttore era quello di convogliare le energie intellettuali del regno, soprattutto della capitale.

“Sarebbe stata mia mente - scrive il Ricciardi [2] - il porgere agl’Italiani una specie di quadro sinottico, o prodromo dei progressi fatti fra noi dalle scienze, dalle lettere e dalle arti [...] Ogni scienza, ogni ramo di letteratura, ogni arte bella avrebbesi avuto il suo sunto, il suo quadro”; e aggiunge: “il mio scopo nel dar fuori Il Progresso fu quello di aprire a’ miei conterranei, ma alla gioventù soprattutto, una lizza da potervi far mostra del proprio ingegno, e di cercare un nodo fra gli uomini più cospicui in fatto di lettere, sparpagliati fino a quel giorno[3].

Non sembrano essere programmi politici, anche perché molto vigile era la censura borbonica, ma programmi di divulgazione culturale che forse rimandano al moderatismo  politico della classe borghese.

Tuttavia la direzione del Ricciardi cessa il tredici settembre del 1834 [4], giorno in cui fu tratto in arresto dalla polizia borbonica; infatti, il quinto e sesto quaderno del ‘34, ovvero il volume nono, non recano sul frontespizio le iniziali del Ricciardi.

Il primo volume del 1835 (volume X, anno IV) reca le iniziali del nuovo direttore, Ludovico Bianchini, che lo fu fino al 1843; dal 1838, tuttavia, fu vice direttore Di Cesare e da quell’anno ha inizio la seconda serie del periodico.

Dal 1843 al ‘46 la rivista passò al De Virgilii, che diede inizio ad una terza ed ultima serie.

Nel periodo in cui fu direttore il Ricciardi, oltre ad una maggiore risonanza e vivacità polemica del giornale, Il Progresso uscì regolarmente ed in costante espansione; approfittando della morte dell’Antologia, avvenuta il ventisei Marzo 1833, il Ricciardi oltre che assorbire alcuni collaboratori della rivista Toscana (Montanelli, Centofanti, Tommaseo, ec.) tentò la diffusione del suo periodico in quella regione tramite il Vieusseux ed in Piemonte tramite l’editore Pompa [5]. Con la censura, l’arresto del Ricciardi e la successiva direzione Bianchini, la rivista decadde. La moderazione a cui si richiamava il nuovo direttore è ben espressa da un intervento  di Saverio Baldacchini all’inizio del volume XIII (1836), nel quale esprimeva l’auspicio che “anche nelle lettere” si ripristinasse ordine e disciplina “come negli Stati”.

Esprimere opinioni su tali posizioni esula e dal compito e dai limiti che mi sono proposto; valga soltanto a sottolineare il progressivo scadimento del giornale napoletano.

 

1.2.  Discussioni sulla lingua: la scuola del Puoti.       

  Nonostante l’esplicito richiamo del titolo del periodico ad una intonazione scientifica della divulgazione, molta importanza fu data al settore umanistico del sapere; anzi, proprio grazie a questo richiamo, gli articoli inerenti alla lingua ed al linguaggio in generale destano un particolare interesse.

Molto scrissero di storia, di letteratura e di italiana eloquenza [6] giovani come Paolo Emilio Imbriani, Michele Baldacchini e Cesare Dalbono che, usciti tutti dalla scuola del Puoti, saranno alla ribalta della vita culturale e politica del ‘48 [7].

E’ importante sottolineare che, nonostante l’educazione filologico-puotiana, questo gruppo di giovani non rimase insensibile alle suggestioni romantiche, avvertendo in esse quel richiamo ad un linguaggio poetico che fosse impegno umano e morale e che era, in fondo, lo stesso richiamo grazie al quale condussero quella tenace lotta antiarcadica che contraddistinse il purismo napoletano.

Non ripeterò in questa sede come la scuola del Puoti, con il suo culto per gli scrittori del Trecento, soprattutto, e del Cinquecento, sapesse insorgere contro la frivolezza arcadica, abbatterla e dare l’avvio ad un corso di studi filologicamente impegnato (anche se chiuso nel recinto di una tradizione letteraria ed aristocratica), ma cercherò di far emergere le linee ed i caratteri distintivi della scuola per meglio definirla nell’ambito del purismo in generale.

Nessun articolo, inerente alla lingua, del marchese Basilio Puoti compare nelle pagine de Il Progresso, ma in ogni articolo, in ogni recensione ed in tutti gli interventi che sfiorano la tanto dibattuta questione della lingua emergono, direttamente o indirettamente, le sue posizioni.

Nel 1832 Raffaele Liberatore [8], in un suo articolo [9], riportava alcune valutazioni critiche fatte direttamente dal Puoti sullo stile usato in una lettera filologico-critica dall’abruzzese Raffaele D’Ortensio; il marchese, dopo aver gentilmente ringraziato il signor Raffaello “della gentil lettera” ed avergli comunicato che, in tempi molto brevi, avrebbe dovuto annoverarlo tra gli “eleganti e forbiti scrittori”, continuando scrive:

 “quanto allo stile ed alla lingua [...] non debbo celarvi alcune vostre teccherrelle [...]. Io mi penso che voi medesimo ravvisate, ora più che la lunghezza di questo periodo, lo stento con che procede, e l’impaccio che danno alla mente del lettore quell’inciso - Sendo voi, a modo,...-, e  l’altro - che staccando...-, e l’altro ancora - onde piglia ...- per niente dirvi del verbo inchinare cacciato in fine di tutto il periodo. No mio egregio signor Raffaello non è in questo che si vuole imitare il Boccaccio[10].

 Eppure leggendo i diversi manuali della storia, della lingua e letteratura italiana, difficilmente il lettore, sia pur attento, potrà separare il purismo puotiano dalla lista dell’estrema destra dei classicisti e, molto facilmente, penserà che il Puoti e i suoi seguaci furono spietatamente ligi al principio di imitazione.

A tal riguardo, in chiusura dell’articolo poc’anzi citato, Raffaele Liberatore difendeva la scuola del Puoti dalla accusa di sterile purismo, scrivendo:

 “la sua scuola adunque, non è la scuola degli arcaismi, non inculca la cieca imitazione del Boccaccio, non è fondata su quell’esclusiva e superstiziosa venerazione del Trecento che altri vorrebbe malamente darci ad intendere[11]

e questa è un’opinione che è possibile rinvenire nelle menti più aperte dell’ambiente culturale dell’Ottocento partenopeo: scuola di civiltà per l’Imbriani [12], d’italianità secondo Luigi Settembrini [13]; ma chi meglio seppe capire gli effettivi meriti ed i veri difetti della scuola, forse, fu il De Sanctis; il critico Irpino individuò gli spetti negativi, nell’assoluta assenza di un qualsiasi argomento che impegnasse, in modo autentico, i giovani alla coscienza del presente, e quelli positivi nell’aver liberato la cultura dell’ipoteca secolare del Seminario[14].

E’ più che lecito, dunque, affermare che il purismo del Puoti e dei suoi allievi segua più la scia moderata percorsa dal Monti e dal Perticari, che non quella (quasi feticistica) del Cesari, per cui “tutti in quel benedetto tempo del Trecento parlavano e scrivevano bene; anzi, i discepoli del marchese furono abituati, molto scrupolosamente, a “sceverare il poco oro dalla molta mondiglia [...] in molte scritture del Trecento”[15].

La scuola del Puoti, dunque, rifugge dagli abusi di termini rispolverati e mostra maggiori aperture, distinguendo nettamente la lingua dallo stile; e se dal lato lessicale è propensa ad accogliere varie espressioni linguistiche[16], per lo stile si mostra fedele all’andamento della prosa antica. Tuttavia, le discussioni inerenti alla lingua, presentate progressivamente dal periodico, riguardano, quasi esclusivamente, la lingua letteraria ed in esse è pressoché impossibile rinvenire qualsiasi accenno di denuncia politica, anche se frequenti sono i richiami espliciti ad una unità letteraria ed in generale culturale “dalla cima delle Alpi alla punta del Lilibeo”[17]; la critica può essere colta solo indirettamente, nel quadro d’insieme, nel rimedio proposto o nelle note di una recensione.

  1.3. Il linguaggio della prosa e della poesia.

  L’illuminismo e il francesismo avevano lasciato un forte marchio nella lingua (non solo letteraria) ed il repentino diffondersi di voci e costrutti transalpini portò gran parte di letterati ad una forte reazione. “L’opera fu questa della ristorazione della sua letteratura, e specialmente della sua favella prima per la stemperata licenza del Seicento, poscia per la suggezione in che eravamo caduti a’ forestieri miseramente guasta e corrotta”[18].

Ed alla ristorazione della favella tenne un occhio particolare la redazione del Progresso, testimoniando, in armonia con le altre parti d’Italia, questo suo impegno con pagine molto incisive.

La situazione della prosa e della poesia, com’era avvertita nei primi decenni dell’Ottocento, in quell’ambiente, è ben attestata in un articolo di Michele Baldacchini, che in proposito scrive: “la prosa nel decimottavo secolo in Italia non ha avuto la stessa sorte che la poesia: la quale se non sempre nei concetti e nello stile, nella lingua almeno ritenne forme più proprie e native. Il che della prosa non si può dire. Perocché e lingua e stile tutto negli scrittori di quel tempo appare guasto e corrotto, per la servile imitazione degli autori forestieri, massime de’ francesi [...]. Dal qual universal naufragio solo si salvò il Gozzi e qualch’altro. Queste erano le condizioni del dire sciolto in Italia quando per opera principalmente del Parini, dell’Alfieri e del Monti la nostra poesia ripigliava il suo antico splendore. I quali autori altresì posero il loro ingegno in dettare opere in prosa; ma, per verità, quando in versi non scrissero molto inferiori riuscirono di loro stessi. Quindi la gloria dell’averci restituita la vera prosa italiana a Carlo Botta, ad Antonio Cesari, a Pietro Giordani, a Giulio Perticari e a qualch’altro”[19].

Del resto, una tradizione secolare dava al linguaggio poetico una grande compattezza mentre fra la prosa quotidiana in generale e quella di un Puoti, di un Botta o di un Giordani, intercorrevano svariate gradazioni.

Fra gli interventi degli allievi del Puoti e quelli dei classicisti, come Rocco o Mirabelli, sembra intercorrere un filo comune: tutti sono mirati al solo fine di rendere la lingua letteraria fortemente decorosa e degna di rappresentare tutto il glorioso patrimonio culturale delle popolazioni italiane; ed ecco che allora: “si vide [...] da per tutto spolverar di Crusche, un ricercar di Decameroni, e di Divine Commedie; un continuo agitarsi e dibattersi in ricerche ed in quistioni d’Italiane scritture, e d’Italiana lingua [...]. L’Italia Lombarda era la prima  a risentirsi ed a levar la voce. Seconda veniva la Romagna [...]. La nostra Napoli, se non prima per tempo certo non ultima per zelo, si affrettava ancor essa ad entrar nel mostrato cammino. Anzi, se l’amore di patria non ci inganna, noi non troviamo che i nuovi studi avessero altrove ottenute più cortesi e benevole accoglienze, che nelle vive ed immaginose fantasie de’ nostri Napolitani, dalle quali né la forza de’ perversi esempi, né le lunghe sventure potettero mai svellare il germe dell’antica greca eleganza”[20].

E fra tante presentazioni e recensioni di volgarizzamenti, fra tante discussioni intorno alle voci ed ai costrutti degli scrittori del Trecento e del Cinquecento c’era chi, come Giuseppe Campagna, felicemente, considerava che: “la lingua e lo stile sono più o meno buoni secondo che esprimono i concetti nel modo più o meno conveniente alle condizioni di chi parla; ed il discernere finalmente le condizioni di chi parla non è lingua, non è stile, ma è scienza”[21].

Tuttavia le discussioni, che man mano vengono proposte dal giornale, sembrano essere un affare privato fra i seguaci del Puoti ed i classicisti e molto presto si intuisce che i primi furono più disponibili dei secondi nel prestar attenzione alle istanze romantiche; infatti, l’Imbriani parla sì della scurrilità dell’Hugo e della poca dignità e poesia del Delavigne [22], ma quando parla del Manzoni la polemica lascia il posto all’ossequio: egli è riconosciuto “seguace della scuola tedesca e legislatore di essa in Italia”, ma anche colui che ha mostrato “non avere la letteratura ne’ suoi principî confini di mare e di monti e esser bello tutto che dipinge la natura nelle sue svariate forme”[23].

Dinanzi a tutto ciò che appare come nobilmente tradizionale, nel Manzoni (soprattutto la concezione cristiana dell’esistenza), ogni divergenza scompare e tutto si ricompone nell’unica sfera del “vero col bello sì nella sostanza e sì nella forma” poiché è “ufficio d’ogni arte di insinuare il vero per mezzo del bello”[24]; e sulla stessa frequenza è sintonizzato Campagna, che nel 1839 affermava che: “la bella letteratura si compone di eloquenza e poesia. Uffizio di entrambe queste è: mostrare e persuadere agli uomini la verità perché se ne giovino” ed ancora, poco prima, invitava a non reputare strano “un ragionamento intorno alle umane lettere, senza fare le consuete distinzioni tra letteratura antica e moderna, classica e romantica, morta e nascitura” poiché “siffatte distinzioni provengono dal non saper vedere oltre la scorza”[25], e concludendo l’articolo ci suggerisce che “a migliorare le presenti condizioni della bella letteratura in Italia, farebbe mestieri che l’eloquenza e la poesia venissero considerate e studiate come scienza morale, e quindi insegnate alla gioventù non dai grammatici o dai retori, ma dai Filosofi”[26].

 

1.4.         Attività grammaticale e lessicografica.

  Le attenzioni verso il campo grammaticale sono rivolte alle accese discussioni fra i fautori del metodo “che vuolsi chiamar pedagogico” e i promotori dello “odierno filosofico”[27]. E’ del 1833 una recensione fatta da Emmanuele Rocco alle Regole elementari della Lingua Italiana compilate nello studio di Basilio Puoti[28]; in essa il recensore, dopo aver sottolineato che dagli antichi quella grammaticale “fu detta arte, se non perché consiste più nelle operazioni della mente le quali si manifestano al di fuori, che nelle apprensioni dell’intelletto le quali s’ingenerano dentro da sé”; si dichiara fortemente convinto che “più si appara per esempi che per precetti, ciò è dire più per pratica che per teoria”, in modo particolare nella lingua italiana “la quale mal si sottopone a regole universali”[29].

Con ciò, il Rocco, non intende estromettere del tutto la filosofia dalla grammatica, anzi “è la filosofia che deve essere guida a chi imprenda a scrivere una grammatica, ma si che non si paja”; pertanto, “fra l’antico metodo che vuolsi chiamar pedagogico [...] e lo smodato odierno filosofico, fa di bisogno battere la strada di mezzo”[30].

E la via di mezzo è stata battuta dal Puoti in quanto la sua grammatica, poiché composta “colle filosofiche ragioni, nulla ha di incomprensibile per chi non per ancora è iniziato agli arcani della filosofia”[31]ma ciò nonostante vi sono, secondo il recensore, “alcune cose che la fanno men bella”[32], come l’aver escluso dalle parti della grammatica “la retta pronuncia, o vuoi ortoepia, che meglio direbbesi ortofonia;”[33], cosa questa che a giudicar dai toni fortemente polemici, penso avesse quasi scandalizzato il Rocco, il quale giustamente rilevava che i nove-decimi degli italiani era nelle condizioni di non poter apprendere la lingua dalla balia. Molto incerto è, nella grafia, (come in tutte le parti d’Italia) l’uso di jota per esprimere l’/i/ semiconsonantico, e se il Puoti l’elimina, sia come vocale che come consonante, il Rocco si meraviglia molto di non averlo trovato nell’alfabeto, considerando che un qualsiasi ragazzo “prendendo in mano un libro  posto a stampa dal 1500 in giù” vi troverà “adoperato questo carattere”[34] a lui sconosciuto.

Continuando, con toni sempre più polemici[35], il recensore ci avverte di tralasciare “di parlare sulle cose disputabili, cioè quelle per le quali non ancora l’universale consenso ha fermata una certa opinione (come le inesattezze che si trovano nella troppo intrigata distinzione de’ verbi). Soltanto vogliamo dire di tre inavvertenze [...]. Molte volte si nominano alcune cose che i fanciulli non ancora appresero, (come quando a p. 21 si discorre del genere delle lettere che viene definito a p. 28); [...]. Le spiegazioni di molte voci, poste nelle note, ed in lingua napolitana, ci parve cosa molto superflua; e perché lo spiegare le voci è ufficio del Vocabolario, [...]; e perché [...] essendo la grammatica destinata a dar regole della lingua italiana, avremmo voluto che avesse l’A. mirato all’utile generale di tutti gli Italiani”; ed infine alcuni modi di dire sono accostati “d’accanto a di altri che veramente sono errori da fuggirsi, quali avessimo per avemmo, avessivo per aveste, fossimo per fummo, andiede per andò, [...] ed altri simili che sono mende grammaticali su cui verun dubbio non ci cade”[36].

Una lotta personale sembra aver ingaggiato il Rocco col Puoti sull’uso di onde seguito dal congiuntivo o dall’infinito in luogo di per, affinché, al fine di.

Infatti, non solo in questa recensione è rinvenibile una accusa esplicita al Puoti che insegna a non usarlo, ma anche in un’ampia nota di una presentazione del 1834 [37] il Rocco supporta le sue convinzioni riportando molti esempi di classici autori, fra i quali il Bembo ed il Tasso, che avrebbero dovuto legittimarne l’uso.

Molta più attenzione che all’attività grammaticale è prestata a quella lessicografica; del 1834 sono alcune riflessioni, sempre del Rocco, “Sul Vocabolario della lingua italiana, già compilato dagli Accademici della Crusca, ed ora nuovamente corretto ed accresciuto da Giuseppe Manuzzi”[38].

Le critiche, eccetto alcune piccole cose dettate, forse, più dal campanilismo[39], sono sostanzialmente positive; anzi nel presentare il curatore dell’opera il Rocco ci avverte che, fra i filologi italiani, nessuno come il Manuzzi era più indicato a tale impresa, essendo il più paziente ed “acuto scrutatore della lingua de’ nostri classici”[40].

Un’altra testimonianza di particolare importanza c’è data dalla presentazione, di Stefano Cusani, del “Nuovo Dizionario de’ Sinonimi della lingua Italiana di Niccolò Tommaseo”[41]; l’autore si dichiara della stessa opinione dello scrittore dalmata nell’affermare “falsa ricchezza d’una lingua quand’hannosi dieci modi diversi per esprimere un’idea,[...], e poi dieci altre idee mancano d’un nome lor proprio”[42] e, sempre in armonia col Tommaseo, è convinto che in una lingua non vi possono essere veri sinonimi, per la sola ragione che se davvero fossero tali “sarebbero due lingue; perché trovato il segno denotante un’idea, non se ne cerca altro più”[43].

Alcune divergenze si possono notare quando si tratta di stabilire la norma per la distinzione dei vocaboli affini, e se il Tommaseo, dovendo scegliere fra “l’autorità degli antichi e l’uso vivente”, è sempre per quest’ultimo, il Cusani non è ancora pronto “a cacciar in bando l’autorità de’ più solenni scrittori che nel più bel secolo del toscano idioma vissero”[44] per accogliere l’uso che si è affermato spontaneamente.

 

  1.5. Le origini del linguaggio.

  Dal punto di vista generale e filosofico il problema delle origini del linguaggio (dibattuto con pochissimi interventi) è impostato dai collaboratori del Progresso secondo i principi quasi imposti dall’enorme eredità lasciata da Giambattista Vico.

Il richiamo a questa grande mente è , anche se spesso indirettamente, in ogni argomentazione pertinente al linguaggio, pressoché costante. Nei primi decenni dell’Ottocento, anche a Napoli, due erano le soluzioni proposte al problema delle “origini”: quella secondo cui il linguaggio nasce da una convenzione fra gli uomini e quella che considera il linguaggio un fatto del tutto naturale.

Queste due soluzioni (alternatesi dall’origine della filosofia stessa) non sono, in realtà, che due opposti espedienti per assicurare l’intersoggetività ai segni linguistici; che il linguaggio tragga origine dalla convenzione altro non significa che quella intersoggettività è il risultato di un contratto, di un accordo fra gli uomini; e che il linguaggio si generi dalla natura lascia intendere unicamente che quella intersoggettività è garantita dalla relazione del segno linguistico con la cosa (in senso generale) cui esso si riferisce.

E proprio al Vico fa riferimento Stefano Cusani secondo il quale “si può da filosofanti modificare nella manifestazione dei loro concepimenti il significato primitivo d’una parola, e anche mutarlo del tutto; ma queste non sono che particolari modificazioni, e il sistema intero dei vocaboli, la sostanza stessa delle lingue non potrà mai cangiarsi, né il primitivo significato distruggersi”[45]. Dunque, è  convinto che la convenzionalità sia connessa soltanto ai segni linguistici di un determinato linguaggio, ma non certamente ai loro significati; questo significato, questo senso dato alle parole ed ai suoni, “dallo svolgimento spontaneo dell’intelligenza né popoli”[46], non può dirsi totalmente arbitrario e convenzionale, che procede interamente dalla volontà dell’uomo, ma, secondo Cusani, deve necessariamente avere una sua “significazione in sé” che sia essa stessa la “sostanza”[47] delle successive convenzioni.

La filosofia non è creazione di menti elette, ma creatura di tutti, perché è “la manifestazione del pensiero e il pensiero è attribuito dell’uomo”[48].

La distanza che intercorre fra il filosofo e l’uomo selvaggio consiste unicamente in “una illustrazione”, in una “chiarezza del pensiero, ma non certo in alcuno elemento di più che sia in loro”[49].

E’ altresì convinto, vichianamente, che “nella lingua di un sistema si nasconde, spesso, la sua propria confutazione”[50]; se alla scuola del Lock rimprovera il fatto di non essersi pronunciata “sulla quistione dell’arbitrario nei segni”[51], al Cadillac ed al Trecy, che affermavano “l’intelligenza stessa esser figlia di una lingua ed una scienza non altro che una lingua ben fatta”[52], non può che “non gridar contro”[53], perché, per Cusani, è “precisamente l’opposto [...], cioè che una scienza ben fatta può solo generare una lingua ben fatta”[54].

Quando le idee sono ordinate, distinte e ben chiare, deriva come “legittima conseguenza la precisione e la chiarezza nelle lingue”[55].

Per lo steso motivo il grado di civiltà delle nazioni è strettamente connesso con le rispettive lingue tanto che “si può studiare nel complesso dei vocaboli di cui compongonsi, e nel fiorire o decadere di essi tutta l’indole nazionale, e l’interna vita de’ popoli. Tanto è per avventura il legame del pensiero alla parola, e la potenza reciproca che esercitano l’uno sull’altra”[56].

1.1.     Presentazione. 145

1.2.     Discussioni sulla lingua: la scuola del Puoti. 147

1.3.     Il linguaggio della prosa e della poesia. 150

1.4.     Attività grammaticale e lessicografica. 152

1.5.     Le origini del linguaggio. 155

 


[1] Il Progresso (d’ora in poi nelle note «Progr.») si compone di quaderni o fascicoli bimestrali: due quaderni, con le pagine numerate progressivamente e senza interruzioni, costituiscono un volume; tre volumi costituiscono un’annata. Alla fine di ciascun volume è posto un “indice ragionato”.

[2] Ricciardi G., Memorie autografe d’un ribelle, Milano, 1873, p. 143.

[3] Ivi, p.p. 146-147.

[4] Il Ricciardi, a causa si una sua assenza da Napoli, che si protrasse dal Maggio 1832 all’Agosto 1833, fu costretto a lasciare la direzione rispettivamente a Raffaele Liberatore, Francesco Paolo Ruggiero, Giuseppi Di Cesare).

[5] Ricciardi G., op. cit, Milano, 1873; p. 151.

[6] In «Progr.» I (1832); p. 129.

[7] L’Imbriani e il Dalbono furono al ministero dell’Istruzione nel gabinetto Troya, il Baldacchini ispettore nelle scuole private

[8] Raffaele Liberatore, neoclassico e purista della scuola del Puoti, fu un attivo letterato dagli interessi poliedrici (che ebbe un importantissimo ruolo nella vita culturale che si svolse a Napoli dal 1806 al 1843). Oltre ad aver pubblicato numerosissimi articoli letterari, che non poco hanno contribuito  allo studio critico di poeti italiani e stranieri, ideò e portò felicemente a termine un’opera molto importante: il Vocabolario della lingua italiana, noto come Vocabolario Tramater (Tramater dal nome della società tipografica Tramater e compagni, che lui stesso istituì), in sei volumi che videro la loro luce in Napoli dal 1829-1840.

Stupisce che R. L. non sia ricordato nelle grandi sintesi di storia della letteratura italiana proprio considerando il valore di questa opera con cui si inseriva nel dibattito sulla questione della lingua, particolarmente sentito in quegli anni. R. L., pur accetando il programma dell’Abate Cesari, intendeva ridare vitalità e mobilità alla lingua. Aderiva perciò alle proposte avanzate da Vincenzo Monti e Giulio Perticari, insistendo sul concetto di unità linguistica e culturale dell’Italia e sull’esigenza di quella libertà artistica che pur accettando la tradizione e la lezione dei classici, la rinnova dall’interno, in considerazione del fatto che la lingua è un organismo vivente e si trasforma nel tempo col progresso della vita e della cultura di tutta la nazione.

[Vedi: Elefante M., Raffaele Liberatore,  in “La cultura classica a Napoli nell’Ottocento”; Pubblicazioni del Dipartimento di Filologia Classica dell’Università degli Studi di Napoli Federico II; Napoli, 1991; p. 317].

[9] In «Progr.», III (1832) p.p. 318-321.

[10] Ivi, p.p. 319-320.  [11] Ivi, p. 321.

[12] In «Progr.», III (1832), p.p. 277-80.

[13] Settembrini L., Ricordanze, ed. Themelly, Milano 1961, p.p. 64 sgg.

[14] De Sanctis F., L’ultimo dei puristi, in “Saggi Critici”, vol. II, ed. Laterza Bari 1952.

[15] In «Progr.» XVIII (1837) p. 161.

[16] Si veda l’intervento del purista e studioso di economia Carlo Mele contenuto in «Progr.», V (1833) p.p. 116-118, nel quale evidenzia come le voci “interesse” ed “interessare” nel senso francese di interessant (aver premura, sollecitudine ecc. per qualche cosa) non solo siano d’uso molto comune, ma anche molto frequenti nei classici fiorentini, come in Giammaria Cecchi.

[17] In «Progr.» XVIII (1837) p. 157.

[18] Ivi, p. 156.

[19] In «Progr», I, 1832; p. 313.

[20] In «Progr.», XVIII, 1837; p.p. 157-158.

[21] In «Progr.», XXII, 1839; p. 72.

[22] In «Progr.», III,  1832; p. 299.

[23] Ivi, p. 297.  [24] Ivi, p. 299.  

[25] In Progr. XXII (1839) p. 57.  

 [26] Ivi, p.p. 77-78.

[27] In «Progr.»,  VI, 1833; p.259.

[28] Ivi, p.p. 258-268. [29] Ivi, p. 259.  [30] Ivi, p. 259.  [31] Ivi, p. 260. [32] Ivi, p. 261. [33] Ivi, p. 262 

34] Ivi, p. 262.

[35] Era noto infatti che fra il Rocco ed il Puoti non corresse buon sangue; leggo nella «Necr.» N. 3 contenuta nel vol. XXIV, 1894 degli Atti dell’Accademia Pontoniana scritta da Oscar Capocci per la morte del Rocco (1894): “Pur rispettando il Puoti per l’incontestato merito filologico, lo criticò giustamente e ne combattette il pedantismo specialmente nei continuatori della sua Scuola. I quali, perciò lo presero in odio; e dopo il 1860 cercarono di metterlo in disparte col prestesto dei suoi sentimenti politici.”

[36] In «Progr.», VI, 1833; p.p. 266-267.

[37] In «Progr.» IX, 1834; p.p. 260-261.

[38] In «Progr.», VIII, 1834; p.p. 273-287.

[39] E. Rocco fu chiamato da R. Liberatore, nel 1828, come collaboratore nella compilazione del Vocabolario Universale della lingua Italiana.

[40] In «Progr.», VIII, 1834; p.p. 274-275.

[41] In «Progr.», XXIII, 1839; p.p. 277-290.

[42] Ivi, p. 287. [43] Ivi, p. 288. [44] Ivi, p. 289.

[45] In «Progr.», XXIII, 1839; p. 278.

[46] Ivi, p. 278. .[47] Ivi, p. 278. .[48] Ivi, p. 279.   [49] Ivi, p. 279. [50] Ivi, p. 280. [51] Ivi, p. 278. .[52] Ivi, p. 280.

[53] Ivi, p. 281. [54] Ivi, p. 282. .[55] Ivi, p. 282.  [56] Ivi, p. 277.

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