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Queste
'righe' sono estratte dal libro del
prof. Luigi Chicone
Raffaele
Fusco
Il terremoto e il
Vulture
e
Un episodio del terremoto
finito
di stampare il 31 marzo 1972
INTRODUZIONE
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"Il lavoro di ricerca intorno a Raffaele
Fusco, poeta popolare lacedoniese, risale a diversi anni fa.
Ricordo che incominciai ad interessarmi ai suoi scritti in versi dalla
ormai lontana estate del 1963.
Una sera di Agosto alla luce di un lampione
comunale, seduti sul muricciolo di cinta dell’Istituto Magistrale Francesco
De Sanctis, l’amico Enzo Di Geronimo lesse a me e ad altri una
composizione scritta in vernacolo dal titolo 'Lu
puorc'.
Quei versi mi parvero interessanti; e da allora, prepotente, si
accese in me un grande desiderio: ricercare notizie sulla vita del Fusco e
raccogliere i suoi manoscritti. Figura
semplice, umile il nostro fu un autodidatta; e per far si che la sua vita non
trascorresse monotona, mentre
scontava la condanna a sedici anni per omicidio, desideroso di apprendere, si
immerse nel gran mare dello scibile attingendo sufficienti nozioni di filosofia
e letteratura italiana. “Li conobbi Manzoni – scrive il Fusco – e ne lessi tutte le opere.
E i
Promessi Sposi fu quella che mi innamorò; non una volta l’ ho letta, ma due, tre, quattro volte e più la
leggevo e più diventavo un forte ammiratore di quel grande autore.
Il
Fusco non aveva velleità poetiche; egli stesso lo dichiara nel componimento Addio alla poesia:
… ma non
ho il
diritto
che vero
poeta io
sia.
Poeta: è una
parola ! ! !
Poeta: tal nome io non lordo.
Egli
scrisse senza presunzione; provava gran piacere nel forgiar versi. Nello stesso
componimento si
legge:
Ver è che trovavo gusto
Come poeta maestro
Ma pensavo pur giusto
Ch’ero povero poetastro.
Il suo scrivere
naturale e semplice è inondato di una umanità
profondamente sentita; basta
leggere
Il terremoto e
il Vulture, La zingarella, In morte di Assunta,
L’agricoltore, Il fabbro,
Il pastore, e
tanti poemetti di cui il Fusco era solito fare più copie e regalarle agli
amici. Un poeta pubblicista, per la sua volontà di scrivere per gli altri, di
scrivere per documento: perciò poeta sociale; così lo definì
Aldo Vella nel
suo interessante commento al poemetto in vernacolo Lu
puorc, in occasione della commemorazione del
Nostro che la sezione
lacedoniese del Centro Studi E..Mattei fece il
21 agosto 1964 nel salone Bonavita. La
produzione in versi del Fusco è ricca di motivi autobiografìci, morali,
sociali, politici; dal rimpianto per la gioventù consumata nelle case penali,
all’esaltazione della libertà; dall'opposizione intransigente alla politica
fascista, all'auspico di un'era di pace e di fratellanza, “la
Primavera e la Guerra”.
La
sua umanità si insinua delicatamente tra le quartine e le terzine per poi
esplodere e diffondersi in tutta l'atmosfera
circostante, con quel tono che
non riesce sgradevole all’orecchio. In
campo letterario rimane un isolato,perché nessuna corrente letteraria l' ha mai
influenzato; però egli nella sua forzata solitudine ha profondamente
riflettuto, e, meglio di ogni altro ha saputo interpretare e tramandarci il suo
mondo, comprendere le amarezze, le privazioni, la povertà dei suoi simili che
vivevano nello stesso ambiente, le gioie che gli umili e poveri contadini
lacedoniesi di alcuni decenni fa provavano, quando si prevedeva un buon raccolto
o si era in festa, perché si doveva ammazzare il maiale che come dice l'amico
Vella è il simbolo di una genuina e
caduca felicità in cui un popolo di diseredati si rifugia, almeno per un
momento dimentico dei propri secolari dolori, del proprio destino di eterni
servi della gleba.
Nel poemetto "Il terremoto e il
Vulture" rievoca un episodio
dolorosissimo della storia di Lacedonia che fu orribilmente sconvolta da una
improvvisa ed imprevedibile forza della natura, che gettò nella disperazione
e nel lutto la popolazione. La
semplicità dei versi di questo poemetto, ha una forza descrittiva tale da
provocare, ancora oggi, specialmente nei superstiti di quella fatale notte del
22-23 Luglio 1930, brividi di paura e momenti di commozione. Con la
pubblicazione di questo modesto studio spero di fare cosa gradita a tutti i
lacedoniese, in special modo agli amici del Fusco che ancora ricordano e tappe
più salienti della sua vita le
riunioni segrete (era un fervente antifascista), le cene durante le quali non
mancavano versi improvvisati.
Ancora
oggi c'è tra essi chi sa a memoria qualche suo "verso, una strofa, magari
un sonetto, e tutto ciò in effetti, è la vera testimonianza che la semplicità
del suo linguaggio ha tatto presa nella vita del suo paese, dettando a tutti norme di vita morale e sociale. E'
doveroso da parte mia a questo punto
ringraziare gli amici del Circolo
“Il Risveglio'',
i quali, moralmente e materialmente mi hanno
dato un valido
aiuto per la pubblicazione di questo mio lavoro.
NOTE
BIOGRAFICHE
Raffaele
nacque il 9 aprile 1870 a Lacedonia da Fusco Nicola ed Attamante Serafina.
Era
il quarto di sette figli. I suoi genitori gli fecero apprendere, dopo aver
frequentato la quinta elementare, il mestiere del calzolaio presso Alessandro
Giannetti, padre di zio Angelomaria.
Amava intrattenersi coi gli amici e chiacchierare tra un bicchiere di buon vino
e un boccone di pane e companatico; e furono proprio i fumi del vino a dare una
svolta diversa alla sua focosa giovinezza. Si trovava il Fusco in compagnia di
amici nella cantina dei Franciosi alle spalle della chiesa di San Nicola, a
gustare il buon vino, che da alcuni
giorni era stato messo in vendita. Nel gruppo di amici c'era anche un giovane
abbastanza collerico, che, non tollerando che Raffaele nel gioco della passatella,
l’avesse più volte portato a ''secco'',
durante l'accesa discussione che ne scaturì, lo colpì violentemente con un
bastone alla testa. Volarono minacce ed improperi e gli amici
dovettero faticare per dividerli. Lu
carunares – così chiamavano un certo Peppino, figlio di Angeluzzo -
abbandonò la compagnia e precipitosamente sì recò a casa sua; poco dopo
comparve sulla soglia della cantina con atteggiamento provocatorio sicché tra i
due riprese la discussione; ad un tratto il Fusco estrasse dalla tasca una
lama ben affilata, e lo colpì più
volte. Dopo
il folle gesto, si dette alla fuga per la campagna; errò per tutta la notte,
trovando rifugio nelle grotte. In cuor suo sperava di non averlo ucciso, ma la
speranza cadde, quando le campane della Cattedrale,dopo aver suonato il
mattutino ‘suonarono a morto’.
Poco
più tardi lo raggiunse un suo compare, che l'aveva cercato per tutta la notte;
costui gli consigliò di trovare temporaneamente rifugio in qualche casa
colonica dove i suoi fratelli sarebbero andati a fargli visita. Il
Fusco riferì al suo compare di non voler fare la vita del latitante e che
l’indomani si sarebbe presentato al maresciallo dei carabinieri. Il giorno dopo, infatti, si presentò in caserma e confessò
[…]. Rimase per trenta giorni nel carcere di Lacedonia, poi fu trasferito in
quello di Avellino. Prima del
processo il Fusco prese visione di una copia della requisitoria; l’accusa era
pesante: omicidio volontario, punibile con l’art.364 del Codice Penale. Tutti
i testimoni, come gli aveva riferito la madre, si mostrarono contrari.
Nell’aula, il giorno del processo, il Fusco scorse la
sua mamma e la sua famiglia
Che
a pezzenti somiglia.
Si
sono appartati a quel posto,
per
non altercarsi con gli avversari a costo,
ascoltano
tutto con dolore atroce:
portano
la croce
[ Dal poema autobiografico Il
recluso e la prigione ]
La
sentenza recitava:
In nome di Sua maestà
Umberto Primo per
grazia di
Dio e
volontà della Nazione …
la Corte condanna tal
di tale (Raffaele Fusco) a
spese e danni e a sedici anni.
Il
direttore gli permise di tenere nella cella diversi libri: lesse argomenti di
vario interesse e diventò un autodidatta. Dopo
vari trasferimenti di carcere (Napoli, Porto Longone -oggi Porto Azzurro, isola
d’Elba-) arrivò a Piombino dove
scontò gli ultimi sedici anni. Finalmente
giunse il giorno della scarcerazione; in salute stava discretamente bene,
moralmente invece si sentiva un morto.
Il
mondo è fatto per chi lavora in pace,
per
l’uomo quieto, che vede, che sente, e tace
Chi
fa la lite e non lavora e frequenta le cantine
Fa
mala fine.
Con
questa profonda considerazione termina il lungo poema autobiografico.
Tornato a Lacedonia andò ad abitare in via Rua Grande, 23.
In seguito al terremoto del 23 luglio 1930 la sua casa crollò e fu
costretto a trovar rifugio altrove nell’attesa che fosse riparata.
Addio
casa in cui son nato,
Dolce
asilo, grato albergo mio;
Addio
ogni oggetto amato
Abbandono
tutto e dico:addio !
[Così scrisse nella poesia Terremoto
e guerra].
Prima
dell’inverno poté rientrare nella casa paterna rimessa a nuovo anche grazie
all’interessamento del podestà Cerchione di cui divenne amico di fiducia. Con
l’avvento del fascismo la sua casa fu assiduamente frequentata da giovani, ed
erano molti, antifascisti. Il Fusco, che con Mussolini, prima della fondazione
dei Fasci, era addirittura in corrispondenza epistolare, si sentì tradito in
quanto questo suo amico politico aveva abbandonato le idee repubblicane ed
anticlericali, facendo in tal modo il gioco dei più abbienti che appoggiavano
gli squadristi per liquidare il socialismo. Quando apprese che Mussolini aveva
fatto la marcia su Roma così il
Fusco scrisse:
La
marcia su Roma del Fascismo,
Forma
un gesto di ver buffonismo .
…Da
questa marcia il buffone,
Crede
d'essere un Napoleone!
...II
Duce somiglia a don Chisciotto!
[Dalla poesia: La
Marcia su Roma]
Per
queste idee contrarie alla politica nazionale il Fusco fu costantemente
sorvegliato dalle autorità fasciste locali, le quali aspettavano l'occasione
per mandano al confine. Avvisato
dall'Arciprete Domenico Monaco e anche da Vincenzo De Gregorio, prevenne la
mossa dei fascisti, autoconfinandosi. La mattina presto - racconta Brigida Di
Ninno - insieme ad Antonio Russo, caricammo sul traino di Rocco Quatrale
zio Raffaele con quelle poche
cose che gli potevano essere utili e ci avviammo verso la casa colonica di
Gaetano Megliola, suo nipote, in contrada ‘Forna’. Qui Raffaele si fermò
fino al 1936 e, durante la sua permanenza nella mia ''masseria'' - riferisce
Gaetano Megliola - quasi sempre venivano a fargli visita gli amici. Nella poesia
Il solitario composta durante il forzato esilio il Fusco scrive:
Qui
non trovo dei nemici,
Non
ascolto calunnie infamanti…
A
diretto contatto con la natura la sua vena poetica si rafforzò; scrisse molti
componimenti in versi facendone omaggio agli amici; infatti nella poesia sopra
citata, più innanzi si legge:
…Ai
miei amici e benefattori
Questi
lavori in omaggio
Invierò,
quali umili fiori…
Di
tanto in tanto egli veniva in paese specie durante la festa di San Filippo.
torna sopra
Alla
festa io son venuto
del
nostro caro Protettore,
Salutar gli amici ho voluto
Con
affetto e con cuore
[Dalla poesia: Omaggio
agli amici]
Vennero
gli anni della guerra. Il Fusco, ormai vecchio e stanco, tornato nella sua casa
paterna ebbe la forza di scrivere ancora; ed a proposito della guerra
e di Mussolini che la volle
scrisse:
Sta
guerra è del terremoto peggio
Il
furbo sciacallo
Sa
imbrogliare il pappagallo.
Accende
il fuoco e sta lontano
Usa
chiacchiere e non mano!
Arma
e provoca il cimento,
Accende
la miccia, sta contento,
Attizza,
ravviva forte il fuoco ,
Ma
sta distante, sta col cuoco!
…………………………
Il
pazzo che pace turba è demonio;
Deve
rinchiudersi in manicomio!
Col finir della guerra anche anche la vita terrena di Raffaele stava lentamente
spegnendosi. Ma non appena seppe della caduta del fascismo scrisse La
fine del
manicomio ! rallegrandosi che gli illustri uomini esiliati stavano
facendo ritorno in patria.
Nel 1945 fu colpito da una
paralisi, che lo condannò a giacere nel letto; tuttavia trovò la forza
di scrivere ancora componendo Tribolazioni in cui afferma:
Sono, però stanco di soffrire
Voglio quanto prima morire
…Pronto sono, senza ritegno.
Alla morte io mi rassegno,
Con volontà dico: io vengo!
Durante
la sofferenza più volte si guardò intorno e più volte amaramente dovette
constatare che dei suoi numerosi amici non si vedeva neppure l’ombra:
Al letto ho però pur
notato,
che nel
bisogno sei abbandonato,
che
l’amico lo trovi al tuo lato
sol se
stai in buono stato…
Stanco
di soffrire ebbe anche momenti di sconforto:
Basta ora io vorrei morire,
Non mi sento più di sofrire;
…venga morte presto a levarmi
Venga parca…di sorpresa e non piano piano
Si spense il 21 novembre 1946 alle ore cinque, nella casa paterna posta
in via Rua Grande 23.
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