La Fucina N. 22 - DICEMBRE 2000
La Fucina
 
Sommario:  
  I fiori del Newroz (Ali Bicer)
  KURDI: UN POPOLO DIMENTICATO (Cristina Toffanin)
  Il debito deve essere pagato (Univ. José Simeon Canas)
  LA NATO A CAPO DEI DS (GLM)
  FISCHIA IL VENTO (Elia Rosati)
  ISRAELE: LA STORIA E IL MITO (Laura dalle Molle)
  LA VOCE DI UN EBREO GIUSTO (M.Warschawski)
  LA FATA E L'ORCO (G.L. Maddalena)
 

I fiori del Newroz
Anno dopo anno
s'allarga e cresce
la lotta per la libertà
nella mia terra
fra massacri e agguati
intrecciati
amore e morte
nella canna il proiettile è pronto
guarda, il passero nel nido
non potrà più volare
guarda, il cerbiatto ucciso
nel ventre della madre
ogni notte
un'irruzione
ogni notte
tintinnio di baionette
tonfi pesanti di stivali
sanno gl'indirizzi degli esuli
bruciate le case
cadute le pietre tombali
infranto il sonno dei figli
non resterà che un canto funebre
da cantare per ninnananna
eppure si riaprono
ad ogni primavera
schiudono le corolle
lungo i pendii dei monti
sull'orlo dei crepacci
a grappoli fioriscono
torrenti di colori
sono i fiori del Newroz!
di Ali Bicer, nativo di Kirdilim, aveva ventun anni quando, appena diplomato, fu incarcerato a Diyarbakir dopo il colpo di stato.


KURDI: UN POPOLO DIMENTICATO
Il 5 luglio del 2000 nella prigione di stato di Burdur 38 prigionieri politici vengono feriti, 16 versano in gravi condizioni, ma nessuna cura medica viene permessa ed inutili sono i tentativi dei familiari di avere qualche informazione sulla sorte dei loro cari. La causa di questo massacro è il rifiuto di 11 prigionieri al trasferimento presso il carcere di massima sicurezza di tipo F di Izmir. Le sovraffollate prigioni turche sono oggetto di un progetto di riforma che prevede un sistema di celle-bara con un solo detenuto o un numero limitato di essi, in cui i prigionieri vivono in totale isolamento. Tale progetto incontra l'opposizione dei prigionieri e delle loro famiglie secondo cui, in tal modo, si favorirebbero le violazioni dei diritti umani nelle carceri. Negli stessi giorni a Bayrampasa i prigionieri rifiutano il trasferimento e prendono in ostaggio le guardie, a Burdur inizia lo sciopero della fame e viene occupato il corridoio della prigione e una manifestazione di protesta indetta dalla Tayad (Associazione di Solidarietà delle Famiglie dei Prigionieri) viene interrotta dalle forze di polizia di Istanbul, che procedono all'arresto di numerosi familiari ed amici dei prigionieri politici. Nello scorso dicembre si calcolava che circa 1139 detenuti partecipassero allo sciopero in varie forme e che dei 284 in sciopero della fame, 249, arrivati al 61° giorno, fossero prossimi alla morte. Questa situazione non è certo nuova per i detenuti delle carceri turche; infatti, dopo il colpo di stato del 1980, in ogni città sono stati istituiti una prigione ed un tribunale speciali e, nel 1996, quando Mehmet Agar fu nominato Ministro di Giustizia, si è avuto un aumento dell'oppressione, della violenza, dell'esilio, dell'isolamento nelle prigioni, con continui bagni di sangue e nessuna differenza di trattamento per bambini, donne e persone anziane. Alcuni dati: 1996: resistenza generale a Sgmacilar, Umranij, Buca e in altre 35 prigioni -19 maggio:1500 prigionieri iniziano uno sciopero della fame ad oltranza - 24 settembre: nel carcere di Diyarbakir si contano 10 prigionieri del PKK uccisi a sprangate e 23 feriti. 1999: centinaia di persone vengono arrestate a causa della loro attività politica non violenta, molte sono rilasciate dopo un breve fermo di polizia, altre vengono condannate a periodi di carcere. Si infliggono condanne solo per avere criticato, in modo non violento, la politica del governo contro la minoranza curda. Alcuni esempi: Zeynep Baran, presidente della Fondazione di solidarietà con le donne curde, è stata condannata a un anno di detenzione ai sensi dell'articolo 312 perché ha pubblicato un opuscolo in cui presentava le attività della sua organizzazione. Nel mese di giugno il giornalista Ragp Duran ha iniziato a scontare una condanna a 10 mesi di reclusione impostagli nel dicembre 1995 per un'intervista al capo del PKK realizzata nel 1994. In luglio, il Presidente dell'Associazione turca per i diritti umani viene condannato a un anno di detenzione a causa di un discorso pronunciato durante la Giornata Mondiale della Pace; e potremmo continuare a citare centinaia di casi simili. Inoltre, la Turchia continua a non riconoscere il diritto all'obiezione di coscienza al servizio militare, pertanto si può essere condannati per insubordinazione e diserzione. Nel corso del 1999 si sono registrati almeno 10 decessi durante la custodia, probabilmente a causa delle torture subite dalle vittime; 5 uomini risultano scomparsi ed almeno altri 15 sono stati uccisi in circostanze che inducono a pensare a esecuzioni extragiudiziali. 2000: lo stato turco mostra nuovamente il suo volto sanguinario e, con l'operazione "Mercy", tesa a bloccare lo sciopero della fame dei prigionieri politici, provoca un massacro: a Bayrampasa 6 donne sono state bruciate dalla polizia (e non è vero che si sono date fuoco, come affermato in un primo tempo); i prigionieri sono stati attaccati con gas, con armi pesanti usate dagli elicotteri e con mitragliatori e pistole usate dalla polizia. Il 5 luglio a Burdur 67 prigionieri sono stati feriti, uno ha perso un braccio; il 26 settembre a Ulucanlar 10 detenuti sono stati uccisi e 23 feriti. Il regime turco si è, oltretutto, vantato di quest'azione definendola una dimostrazione della "determinazione dello stato". Fino a quando permetteremo tutto questo? La resistenza curda continuerà fino alla vittoria, perché come dice una loro poesia "…La resistenza è la vetta d'un monte interiore / è l'immobilità del terremoto / ha radici profonde come il platano / luci cangianti come lo smeraldo…" (Ai ragazzi del fuoco di Ayse Hulga Ozzumrut, condannata all'ergastolo nel 1981).
Cristina Toffanin


Il debito deve essere pagato
Un debito si paga. Con gli interessi e al piu' presto. E' una questione di serietà e di onestà. E anche di morale . Non si dice infatti "chi paga un debito si arricchisce"? La somma richiesta ai " paesi in via di sviluppo " supera i 2400 miliardi di dollari. Ogni anno 200 miliardi di dollari sono versati dai debitori a titolo d'interesse, quattro volte di piu' della somma ricevuta per l'aiuto allo sviluppo. Ma un debito si paga, solo che non è sempre creditore colui che dice di esserlo, come dimostra la storia di un amerindio dalla penna tagliente. In una lettera aperta indirizzata ai governi europei il capo azteco Guaipuro Cuauthémoc oppone credito a credito. Egli ci ricorda che solamente tra il 1503 e il 1660 185 tonnellate di oro e 16 mila di argento sono arrivate in Spagna provenienti dall'America . Che quello sia stato il prodotto del saccheggio, della spoliazione o, ancor peggio, del genocidio a cui sono stati sottoposti gli Indiani d'America, il saggio Cuauthémoc non puo' rassegnarsi a crederlo. No. Bisogna considerare quel fatto come "il primo prestito amichevole consentito dall'America per lo sviluppo dell'Europa". Una specie di piano Marshall per aiutare un'Europa esangue e impoverita dalle continue guerre. D'altra parte, se quell'oro e quell'argento non fossero stati prestati, ma rubati, "questo costituirebbe l'esistenza di un crimine di guerra e aprirebbe la via al diritto di esigere un indennizzo". Si deve forzatamente constatare -rimpiange il creditore azteco- che i grandi capitali prestati all'Occidente sono stati gestiti molto male. In cinquecento anni non solo i "fratelli europei" si sono dimostrati incapaci di rimborsare la somma e i suoi interessi, ma anche di rendersi indipendenti dalle ricchezze, dalle materie prime e dall'energia a buon mercato sottratte al terzo mondo. "Questo quadro deplorevole conferma l'affermazione di Milton Friedman, secondo la quale un'economia sovvenzionata non potrà mai funzionare" constata saggiamente l'Indiano d'America. E, per seguire il parere del Premio Nobel per l'economia, reclama il rimborso del credito. Da generoso, concede di cancellare i primi duecento anni e di applicare un tasso fisso del 10%, invece del 20 o 30% che gli Occidentali chiedono normalmente ai paesi in via di sviluppo. Nonostante ciò, la quantità d'oro e d'argento esigibile, applicando l'interesse composto, è largamente superiore al peso della Terra. Cuauthémoc, che ha piu' frecce al suo arco, propone una soluzione : "esigiamo la privatizzazione immediata dell'Europa perché ci sia data come primo regolamento di un debito storico". Sulla base dello stesso ragionamento, i paesi africani, attualmente riuniti a Dakar per una conferenza sul debito, potrebbero esigere il pagamento del lavoro di milioni di schiavi "importati" in America del Nord tra il XVII secolo e l'abolizione dello schiavismo avvenuta due secoli dopo. Quanto ai prestiti accordati dall'Occidente durante gli anni 70, i paesi in via di sviluppo li hanno già rimborsati piu' volte. Attirati dall'esca dei bassi tassi, sono stati intrappolati da un brusco, ma non innocente, aumento degli interessi che ha portato, sotto altra forma, alla continuazione di un colonialismo scandaloso e micidiale. L'Occidente non deve concedere una riduzione del debito. Non deve nemmeno abolirlo. Deve invece riconoscere che il debito non esiste e che anzi è egli stesso debitore insolvente verso i paesi del Sud. E' questo il debito che deve essere pagato.
Testo di una lettera apparsa nel sito dell'Università salvadoregna José Simeon Canas www.uca.edu.sv/publica/cartas/ci499.htlm#deuda


LA NATO A CAPO DEI DS
Il 12 ottobre del 1998 il governo italiano (Prodi) aderì al cosiddetto Activaction order con il quale si misero a disposizione della NATO le basi italiane "...qualora risulterà necessario l'intervento militare dell'Alleanza Atlantica per fronteggiare la crisi del Kossovo...il contributo delle Forze armate italiane sarà limitato alle attività di difesa integrata del territorio nazionale. Ogni eventuale ulteriore impiego delle FAI dovrà essere autorizzato dal Parlamento". Si trattò di una decisione grave che tuttavia rispettava la Costituzione e una minima autonomia nazionale. In passato (governo Dini) il (Vigneta di Vauro da "Il Manifesto") ministro degli esteri del tempo Susanna Agnelli arrivò a vietare l'uso di Aviano agli Stealth USA. Si era quindi lontani dalla completa "affidabilità" pretesa dagli Stati Uniti e dai suoi vassalli più devoti. La macchina bellica della NATO doveva essere messa in moto, ma per farlo era indispensabile l'adesione incondizionata dell'Italia. Che fare? Sulla caduta del governo Prodi molto si è detto: spesso la colpa è stata addebitata a Rifondazione, ma c'è stato anche chi ha individuato una manovra più complessa collegata alla decisione, presa da lungo tempo, di normalizzare comunque i Balcani. Per l'alleato americano c'era l'esigenza di provocare in Italia un mutamento di governo e ottenere una maggioranza più adatta alle urgenti esigenze belliche della NATO, mentre il ricorso alle elezioni presentava troppe incognite, ed era quindi rischioso. "A questo punto è stato attivato il più autorevole dei terminali CIA nel sistema politico italiano, l'ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, l'uomo di Gladio" (Domenico Gallo). In quattro e quattr'otto Cossiga stacca un gruppetto di parlamentari dal Polo e crea l'Udeur con cui si può sostituire Rifondazione. D'Alema si candida a premier del nuovo governo atlantico dichiarando, in occasione dell' Activaction order, che la disponibilità delle basi italiane era un "atto dovuto". Abbiamo così D'Alema presidente del Consiglio, Scognamiglio ministro della difesa e, ciliegina sulla torta, Brutti (Ds) sottosegretario. "...in Italia avevamo dovuto cambiare governo proprio per fronteggiare gli impegni politico-militari che si delineavano in Kossovo...la presenza di Rifondazione...non avrebbe consentito di impegnarsi in azioni militari. Per questo il senatore Cossiga ed io ritenemmo che occorreva un accordo chiaro con l'on D'Alema" (Scognamiglio sul Foglio del 4 ottobre 2000). Chiaro? Delle devastazioni, delle morti, della "pulizia etnica" praticata dall'UCK nel Kossovo "liberato", delle terrificanti contaminazioni chimiche e radioattive (di cui solo ora si scopre la nocività anche su chi vi è stato a contatto per poco tempo) provocate dall'"ingerenza umanitaria" nella ex Jugoslavia, D'Alema porta dunque una responsabilità primaria. Ciò nonostante (o proprio per questo: per la sua grinta "americana"?) egli è stato eletto Presidente (capo assoluto e indiscusso) dei Ds, e Veltroni, a differenza del suo idolo Gore, si è arreso senza condizioni. La sinistra dei Ds ha borbottato per un'assemblea raffazzonata, manovrata e antidemocratica. D'Alema, dopo qualche mese di riposo riflessivo (si fa per dire), si è rimpossessato del partito, sbaragliando chi non è dotato come lui dell'abilità e del cinismo tipici dei vecchi membri dei politburò brezneviani. Tutto ciò non ci angustia, D'Alema e i Ds sono stati correttamente valutati in tempi non sospetti. Quello che infastidisce è la posizione di certi amici di "sinistra" che ci giudicano estremisti un po' fanatici, che criticano Bertinotti perché non è abbastanza democratico nel governare Rifondazione, ma che continuano però a votare per i Ds in quanto "il meno peggio". Se il meno peggio è sostenere un partito che ha eletto a caudillo un cinico bombardatore nelle grazie della CIA, qual'è il peggio?
Glm


FISCHIA IL VENTO
Immediatamente dopo gli scontri del 16 Dicembre a Roma ,avvenuti durante la visita del neonazista austriaco Jorg Haider , mi è capitato di discutere animatamente con alcuni compagni sull'attuale pericolosità dei rigurgiti neofascisti e sulla forza dei movimenti di destra propriamente detti. Mi si rimproverava infatti di mostrare eccessiva preoccupazione per l'attività e le sparate fasciste di Berlusconi, AN, Haider, Forza Nuova, Bossi; quando invece l'Ulivo e gli U.s.a., a detta degli altri compagni che discutevano con me, rappresentano un avversario ben più "reale" e "tangibile". Non nego che gli Stati Uniti, la Nato e, in misura minore, la socialdemocrazia fascista europea siano storicamente l'avversario principale nell'orizzonte dell'Impero, ma non per questo ritengo si possano tralasciare quegli avversari, certo minori, che non siano "made in Usa" o che lo sono in modo meno evidente! Infatti il neoliberismo imperante, come tutte le ideologie dei ceti dominanti, non ha solo una faccia sociale ed economica; il suo volto più inquietante risiede proprio in un background storico e civile degenerato. In modo sempre più netto, oggi, si cerca di alterare la coscienza storico-critica: con criminali revisionismi, con riforme della scuola all'americana, con epurazioni indirizzate ai libri di testo, con … "impegni concreti", buoni-scuola filovaticani, abiure storiche inopinate. Nel contempo, sono legali movimenti dichiaratamente fascisti come quello di Roberto Fiore, in nome della "democrazia", salvo poi scoprire che questi "nipotini di Salò" non si limitano solo a picchiare tossicodipendenti, immigrati ed autonomi, ma sono pronti a far saltare in aria un giornale (e non uno qualsiasi!), proprio come facevano i loro fratelli maggiori, con le stazioni, le banche o le manifestazioni sindacali. Siedono in Parlamento signori (chissà come mai cresciuti nelle stesse sezioni della Mambro e di Fioravanti) che fra qualche mese ci governeranno al pari dell'Ulivo: quelli che vogliono convincerci del fatto che l'antifascismo è un "valore superato" e che non ci sono solo le ragioni dei partigiani (e chissà che sui libri dei miei figli [made in Storace] non li chiameranno di nuovo banditen ) ma anche quelle dei fascisti. E' la gentaglia che vuole "sparare ai clandestini", ai mussulmani e ai gay in nome della purezza padana: capi popolo che, non a caso, sono gemellati con un oscuro governatore austriaco-giubilare; uno che si fregia di aver ancora nel suo popolo "persone valide" come i reduci SS, che loda la politica economica asindacale e sanguinaria del III Reich e che chiude a Klagenfurt i musei di "arte degenerata". Senza contare la loro visione dell'economia e della società, su cui non mi dilungo, perché…cinque anni di centro-sinistra ci hanno già dato una anticipazione più che dettagliata su quello che farà il "nano piduista di Arcore". Non sarà certo un sollievo sapere che l'agente CIA Fassino o D'Alema non saranno più al governo, se la loro opera sarà continuata, in modo più zelante verso l'Impero, dal Polo! Che Rutelli o la polizia italiana non mi permettano di portare uno striscione fino a Piazza San Pietro posso anche aspettarmelo (anche se è assurdo), ma che debbano biasimarmi alcuni compagni, mi si consenta, no!
Elia Rosati Collettivo Spartakus


ISRAELE: LA STORIA E IL MITO
Le drammatiche vicende che hanno per protagonisti Israeliani e Palestinesi attirano periodicamente l'interesse su quella regione del Vicino Oriente, rinfocolando passioni e prese di partito a favore dell'una o dell'altra parte. Spesso i giudizi e le rispettive solidarietà sono viziati dalla ideologia o dalla malafede, ma ancora più spesso abbiamo a che fare con la confusione e la disinformazione sulla reale storia di quella zona e di quei popoli. Può quindi essere utile riassumere a grandi linee, il più obiettivamente posssibile, le vicende degli Ebrei e della Palestina. La storia della Palestina (regione compresa tra i monti del Libano, il Mediterraneo, il Negev e il deserto siriaco) risale a non meno di novemila anni fa: la città di Gerico fu fondata 7000 anni prima di Cristo. Quando gli Ebrei vi arrivarono per la prima volta, nel secolo XVIII, già erano fiorenti le civiltà dei Cananei, dei Filistei e dei Fenici. Pare che l'origine degli Ebrei sia da collegare agli Habiru, gruppi nomadi presenti nel Vicino Oriente dal XX al XII secolo e discendenti da tribù del deserto siro-arabico. Abramo (ricordato nella Bibbia come il primo patriarca ebreo) partito da Ur (Mesopotamia del sud), si spostò prima nella Siria settentrionale e poi in Palestina; scesi quindi in Egitto a seguito di una carestia, i discendenti di Abramo vi rimasero alcuni secoli, fino a che le persecuzioni del Faraone li spinsero al ritorno in Palestina nel secolo XIII: qui essi sottomisero con la forza delle armi e in parte distrussero i Cananei, popolazione originaria del luogo. Le varie tribù ebraiche si unificarono, prendendo il nome di Israele, e nel secolo XI si formò il primo regno unitario (1020 a.C., sotto il re Saul), che occupava circa la metà della "Terra promessa": i Cananei erano stati sterminati, ma le città costiere dei Filistei e dei Fenici avevano conservato la loro indipendenza. Nel 922, dopo la morte di Salomone, lo Stato Ebraico si divise in due Regni, Israele a nord e Giudea a sud. Più tardi ci furono la conquista di Israele da parte degli Assiri (722 a. C) e l'occupazione della Giudea da parte dei Babilonesi (586), seguita dalla deportazione a Babilonia di gran parte della popolazione. La Palestina conobbe poi l'occupazione persiana (538), macedone (331)dei Tolomei e dei Seleucidi (sec. III-II a. C.); infine nel 64 a. C. divenne provincia romana. Contro il dominio romano si ebbero diverse rivolte: ricordiamo quella degli anni 66-70 d. C., guidata dagli Zeloti e domata da Flavio Vespasiano e da Tito, e la seconda guerra giudaica (132-135 d. C.), che si concluse con la cacciata degli Ebrei dalla Palestina e la loro dispersione (diaspora). Già nei secoli precedenti si erano formate forti comunità ebraiche fuori dalla Palestina: a Cirene, ad Alessandria, a Roma, in Grecia, in Asia Minore, in Mesopotamia, in India.; ma le sconfitte del 70 e del 135, seguite dalla distruzione di Gerusalemme, ebbero la conseguenza di spostare il centro della vita religiosa, culturale e comunitaria ebraica dalla Palestina alla Diaspora. Da allora e per 17 secoli la presenza ebraica in Palestina fu quella di una minoranza marginale, in buona armonia con le altre popolazioni. Dopo la conquista araba del secolo VII infatti, la politica di grande tolleranza religiosa e di pacifica convivenza civile praticata dagli Omayyadi e poi dagli Abbasidi consentì per lunghissimo tempo il libero sviluppo delle confessioni non musulmane e in una certa misura il rivitalizzarsi della sparuta comunità ebraica sopravvissuta alla Diaspora. Con l'affermazione dell'Impero turco ottomano (1516) si ebbe una ripresa della stessa comunità, incrementata dall'immigrazione degli ebrei sefarditi, espulsi dalla penisola iberica. Fra il XIX e il XX secolo si intensificò l'immigrazione ebraica in Palestina, sia per le persecuzioni antisemite che per l'influenza del Sionismo, movimento che vedeva nella creazione di uno Stato Ebraico l'unica soluzione al problema degli Ebrei in Europa. Nel 1917, crollato l'Impero Ottomano, la Palestina viene occupata dalla Gran Bretagna che, dopo essersi dichiarata favorevole alla costituzione di un "focolare ebraico" (dichiarazione Balfour), porta avanti una politica ambigua, facendo leva anche sul risentimento arabo nei confronti della crescente presenza ebraica nel paese. Sia per questa politica "del doppio binario", sia per le sempre maggiori pretese dell'organizzazione sionista, cominciò quindi una serie di attriti e poi di scontri violenti fra le due comunità, che sfociarono infine in guerra aperta (disordini del 1936-39). Il resto è storia nota: la proclamazione dello Stato d'Israele, il 14 maggio 1948 (due mesi prima della data stabilita dall'ONU per la spartizione del territorio in due Stati indipendenti), le guerre, l'esodo forzato dei profughi palestinesi. Quella dei profughi è stata chiamata "la nazione invisibile", costituita da 3,7 milioni di individui, sparsi nei vicini Paesi Arabi e ammassati in squallidi "campi", ma tenacemente attaccati alla propria identità nazionale e alla speranza di tornare un giorno nella loro terra. E ora a questi profughi è negato il "diritto al ritorno" da quegli Ebrei che hanno fatto del loro " diritto a tornare" in Palestina il fondamento delle loro azioni politiche e militari nell'ultimo secolo; eppure gli Ebrei non erano originari della Palestina, l'hanno conquistata a spese di altre popolazioni, mantenendone l'egemonia per un periodo limitato, mentre poi per molti secoli vi sono vissuti costituendo una piccola minoranza. Tutti i popoli del mondo hanno conosciuto vicende alterne e complesse, una storia fatta di conquiste, sconfitte, espulsioni, esodi, ma nessuno rivendica come propria la terra che ha abitato temporaneamente nell'antichità. Sarebbe come se i Libanesi di Tiro vantassero diritti sulla Tunisia perché i loro antenati nel IX secolo a. C. vi fondarono Cartagine, che rimase una grande potenza fenicia fino alla metà del II secolo a. C.; oppure come se i Greci di oggi pretendessero di "annettersi" le terre della Sicilia e dell'Italia Meridionale, che i loro avi colonizzarono dall' VIII secolo a. C., lasciandovi una forte impronta culturale. Certo, il ritorno degli Ebrei nella terra che per un certo periodo era appartenuta ai loro antenati trovava una importante motivazione nelle persecuzioni di cui erano vittime in diversi Stati d'Europa, ma questo non giustifica nel modo più assoluto né il loro atteggiamento "colonialista", per cui gran parte degli "Ebrei ritornati" persegue lo scopo di istituire uno Stato "etnicamente puro", che occupi la maggior parte del territorio e utilizzi i preesistenti abitanti come mano d'opera a basso costo, né l'arroganza con cui, per raggiungere tale scopo, hanno moltiplicato (contro le deliberazioni dell'ONU) i loro insediamenti-fortezza costruiti a ridosso dei villaggi palestinesi, sottraendo loro l'acqua e la terra, né infine la pervicacia con cui negano ai profughi palestinesi il diritto al ritorno nella propria terra, facendo valere cinicamente la politica del "fatto compiuto": "questa era sì terra dei Palestinesi, ma noi l'abbiamo conquistata, vi abbiamo costruito strade, fabbriche, quartieri.....la città di Lod si è sviluppata, si è ampliata e occorrerebbe distruggerne gran parte per poter restituire ad Abu Salem e agli altri profughi le loro proprietà..." (Abraham B. Yehoshua, La Stampa del 2 gennaio 2001). Tutto ciò trova fondamento nella presunzione ebraica di costituire il "popolo eletto", quello che ha stipulato con Dio il famoso "patto" di cui parla la Genesi: Dio avrebbe promesso ad Abramo una discendenza numerosa, una protezione divina particolare e il possesso della terra; tale patto, rinnovato poi sul Sinai con Mosè durante l'esodo dall'Egitto, avrebbe segnato il destino e la storia del popolo ebraico. Le religioni hanno naturalmente tutte eguale diritto ad esistere, ad essere praticate e rispettate. L'appartenenza a una particolare fede religiosa però non può dare alcun diritto o privilegio in più di qualsiasi altra. Tanto meno può essere alla base di guerre, soprusi e oppressione. In Palestina invece le componenti fanatiche di un credo religioso sono state prima abilmente utilizzate dalle potenze coloniali secondo le regole del divide et impera, poi largamente finanziate e appoggiate dagli occidentali in contrapposizione a un mondo Arabo in parte arcaico e in parte "ribelle", e infine sostenute dal nuovo imperialismo neoliberista, che è determinato a mantenere sul Vicino Oriente un controllo assoluto.
Laura Dalle Molle


LA VOCE DI UN EBREO GIUSTO
Riteniamo utile riportare ampi stralci di uno "scambio epistolare" tra due pacifisti ebrei tratto da "Il Manifesto" del 3 gennaio 2001. Lo scrivente, Michael Warschawski, direttore dell' Alternative Information Center, si rivolge a un amico di Peace Now. Sette anni fa ti ho ho scritto la mia ultima lettera. Era il giorno dopo la firma dell'accordo di Oslo, quando mi hai invitato a ballare con te in Menorah Square, a celebrare una pace israelo-palestinese che non aveva acquisito ancora il suffisso "processo". Cito alcuni passaggi da quella vecchia lettera: (...) Sei felice per questa pace, e mi inviti a ballare con te. No, grazie (...) Sei in favore del ritiro dai Territori occupati per assicurare a Israele una maggioranza ebrea; (...) eri d'accordo di parlare con l'OLP per non essere costretto a parlare con Hamas. Io, al contrario, guardo la pace come un fine, e non soltanto come un mezzo, e chiedo il ritiro dai Territori occupati perché non c'è motivo per essere lì, anche se l'occupazione non ci costasse una vittima o un centesimo; e sono per non sparare ai bambini -e agli adulti- semplicemente perché non è giusto sparare ai bambini o ai civili. Per te cosa potrebbe essere meglio di questa pace? Ti sei sbarazzato di Gaza, hai separato israeliani da palestinesi, a questi ultimi hai dato il lavoro sporco e non hai promesso il ritiro o un vero Stato. Poteva una pace simile essere comprata più a buon mercato? (...) Se tu fossi capace veramente di pensare di pace, capiresti l'errore che compi: più diritti il palestinese riceve -più indipendenza, più orgoglio- più noi ne guadagniamo. Più avari siamo, più perdiamo. Ciò nonostante noi due ora siamo impegnati per la stessa campagna: lavorare per la piena applicazione dell'accordo di Oslo, nella speranza che le nuove intese preparino il terreno per una vera pace tra Israele e i palestinesi. Da quando ho scritto queste parole tu hai celebrato la pace e sei diventato grasso e prospero. Le diverse e ripetute violazioni degli accordi non ti hanno smosso, né l'assenza di qualunque cambiamento nella nostra cultura di guerra ed occupazione, né il tono arrogante dei negoziatori nostri rappresentanti ed i loro tentativi di chiedere sempre più in cambio di sempre meno. E perché mai ciò dovrebbe smuoverti? Hai ottenuto quello che volevi: separazione, sicurezza, prosperità economica, riconoscimento dalla comunità internazionale (...) Non hai richiesto negoziazioni sincere con i palestinesi, accettando che venissero fatte piccole concessioni volta per volta, e quando ti abbiamo detto che ciò non sarebbe servito e che ci sarebbe stata certamente una guerra, hai risposto: "Se vogliono questo lo avranno, e se no, è un loro problema". Perché per te una guerra di conquista è preferibile a una guerra civile. Dopo tutto il ballare e l'applaudire gli architetti dell'accordo, sei pronto con me a scendere in strada per (...) richiedere che il problema degli insediamenti sia affrontato subito; forse, diversamente da Arafat, tu e io sappiamo che non c'è nessuna possibilità di avanzamento senza un immediato accordo sugli insediamenti. Sei preparato, insieme con noi, a richiedere più libertà e più diritti per i residenti della Cisgordania (anche se ciò non è scritto nell'accordo), per rispetto dei loro Diritti umani, o solo perché anche questa è una condizione per andare avanti? Ti unirai a noi per esigere la liberazione delle masse di prigionieri politici? (...) Ed è andata realmente così. Ai tuoi occhi eravamo di nuovo sognanti sinistroidi o ancora peggio, guerrafondai, nemici della pace. (...) Dal 1993 tu e i tuoi amici (di Peace Now, -n.d.r-) godete i frutti della pace, e i palestinesi aspettano l'adempimento delle tue promesse di ridispiegamento, di indipendenza, di sovranità, di libertà. Quanto tempo hai pensato che questo sarebbe potuto durare? Ed ecco che i palestinesi non stanno recitando il testo del copione che hai scritto per loro, ma il loro, e rovinano il tuo spettacolo. (...) Oggi sei arrabbiato: perché tutt'a un tratto dimostrazioni? perché l'improvvisa richiesta della sovranità su Gerusalemme? Perché chiedere che vengano evacuati gli insediamenti? cos'è tutto questo odio contro l'esercito israeliano, Barak, il campo di pace israeliano? (...) Barak minaccia di imporre la sovranità ebraica su Haram -il Monte del tempio a Gerusalemme-, ed i palestinesi rifiutano di accettarlo come una soluzione permanente. Cosa c'è di così difficile da capire? Non c'è posto per la confusione. C'è un'occupazione e una lotta contro l'occupazione. Ci sono dimostranti e c'è un esercito che ha ricevuto ordini di spargere il loro sangue. E non mi parlate dei fucili. Il vostro glorioso passato di guerra vi rende qualificati a capire quello che anche i cronisti della CNN hanno capito, che quei fucili non mettono in pericolo né Israele né i soldati se non si avvicinano troppo. Non mettono nemmeno in pericolo l'occupazione, poiché i mezzi di controllo, sotto la maschera del processo di pace, permettono ad Israele un controllo totale dei Territori occupati... anche senza una massiccia presenza militare. "Spargimento di sangue" era parte dei piani contingenti preparati dall'esercito nel caso i palestinesi avessero dichiarato unilateralmente lo Stato palestinese, molto prima della provocazione di Sharon, e qualsiasi bambino può vedere che l'IDF (esercito israeliano) era stato preparato in anticipo a spargere sangue. (...) Quanto a te, amico mio di Peace Now, tu non sei nemmeno confuso. Bolli di rabbia contro i palestinesi perché hanno rovinato le tue celebrazioni e rifiutano di lasciarti vivere nell'illusione che l'occupazione si sta concludendo e che la pace regna su quella terra. (...) Noi abbiamo firmato un accordo di cessate il fuoco e abbiamo fatto bene a farlo. ma la pace è ancora molto lontana, perché pace richiede onestà, perché pace richiede equanimità. Tu vuoi una pace dove loro si arrendono, tu stai celebrando una pace tra padrone e schiavo.
Questo è quello che ti scrissi esattamente sette anni fa. Tu preferisti chiudere gli occhi e le orecchie. Mi dispiace che solo attraverso il fuoco delle pallottole a Psagot e l'esplosione dei missili vicino a Netzarim si siano di nuovo aperti. Spero che anche il tuo cuore e la tua mente si apriranno velocemente, prima che gli autobus esplodano nelle nostre città. La scelta non è cambiata, o pace vera senza trattative e raggiri, una pace di rispetto reciproco, o una discesa verso una guerra religiosa nella quale ci saranno soltanto perdenti.


LA FATA E L'ORCO
In quest'epoca dominata dallo strapotere imperiale di un solo stato, le zone del Globo soggette a crisi e ingiustizie sono tante, tuttavia continuare ad occuparsi della Jugoslavia, e dei Balcani in generale, è motivato da almeno due ragioni: sottolineare i metodi esemplari dispiegati in quest'area dalla "rimondializzazione" del capitalismo in paesi relativamente sviluppati, e far riflettere sulla facilità con cui il disinvolto adattamento e rovesciamento di giudizio e di valori come i "Diritti Umani", la "Democrazia", "Pace", "Giustizia" ecc. vengono immediatamente accettati dall'opinione pubblica "democratica" e di "sinistra". C'è, è vero, uno scandaloso analogo atteggiamento verso la questione palestinese, ma essendo le origini di questa ben più lontane e situate in un contesto geopolitico molto diverso, il "caso Jugoslavia" resta per molti aspetti paradigmatico e centrale per la comprensione dei conflitti intercapitalistici in Europa. Ripartiamo dalle elezioni, quelle del 5 ottobre e quelle del 23 dicembre: come si ricorderà, nelle prime, il candidato alla presidenza presentato dalla DOS (Opposizione Democratica Serba, composta da 18 partiti diversi), ha vinto, pur non risultando chiaro se la maggioranza ottenuta era assoluta o relativa, e quindi se era giusto o no andare al ballottaggio come sosteneva Milosevic. La verità non si saprà mai giacché le schede elettorali sono andate distrutte nel Parlamento incendiato dai teppisti di Dijndijc. Le stesse elezioni confermavano anche una netta supremazia della coalizione facente capo a Milosevic per quanto riguarda il Parlamento. Dagli USA e dalle "democrazie" europee sono venute, prima e dopo le votazioni, accuse di brogli e negazioni di regolarità. La validità riconosciuta subito ai risultati favorevoli a Kostunica è stata invece negata a quelli per il parlamento, con la conseguente richiesta di nuove elezioni. Questa una prima incongruenza, preceduta e accompagnata dalla peregrina definizione di "dittatura" affibbiata a un governo che consentiva la formazione e l'agire politico a un'infinità di partitini e gruppi oppositori sfacciatamente finanziati e sostenuti dalle potenze straniere; le stesse che avevano bombardato il Paese fino a pochi mesi prima. Milosevic era dunque un dittatore, mentre nessuno ha mai messo in discussione la "D" (Democratica) della DOS. Eppure si sapeva benissimo della presenza nel raggruppamento di componenti monarchiche e di destra, mentre la stessa Otpor! (Resistenza) era, ed è, ben lontana dall'avere quelle caratteristiche democratiche tanto elogiate anche da "Liberazione" e "IlManifesto". Infatti il movimento che ha per simbolo il pugno nero in campo rosso (cambiato dopo le elezioni in rosso in campo nero) non è affatto "studentesco". Ci sono anche studenti affascinati dalla way of life americana, ma vi si trovano in gran numero professionisti, bottegai, borsaneristi, amministratori e funzionari attirativi con "mazzette" di valuta pregiata ecc. Per le loro campagne elettorali hanno ricevuto una valanga di dollari e di marchi, a milioni, per loro stessa ammissione, e in preparazione poi del putsch seguito ai risultati, l'élite di Otpor! è stata addestrata dalla CIA nella base rumena di Timisoara. Della DOS facevano parte inoltre gli squadristi di Dijndijc (il vero capo) che non hanno lesinato minacce, pestaggi, saccheggi e incendi per affermare la loro democraticità. Le elezioni del 23 dicembre hanno dato, come si sa, anche il Parlamento in mano alla DOS, che ha ottenuto il 64% dei voti, mentre al SPS di Milosevic è andato il 14% e alla SRS (Srbska Radical Stranka) di Seselj il 7%. Che i votanti abbiano superato di poco il 50% e che quindi la coalizione dei 18 partiti "democratici" governerà con un mandato venuto da un quarto dell'elettorato è giudicato irrilevante, visto che questo succede anche in America ed è quindi sicuramente democratico. Resta il fatto che, piaccia o no, nonostante i grandi acquisti elettorali fatti a colpi di milioni di dollari, i ricatti della UE e le minacce degli USA, il SPS (finalmente non più intossicato dall'alleanza con la JUL della Marcovic), con il suo 14%, resta il primo partito serbo, visto che il contrapposto 64% va...diviso per 18. Staremo a vedere se questo partito proseguirà nel suo rinnovamento per guidare una vera opposizione al neoliberismo. Dunque ora la Serbia è democratica, e non c'è più alcun motivo per non riconoscere al suo popolo i diritti che tutti i popoli hanno o, meglio, dovrebbero avere. Succede invece che il mafioso presidente del Montenegro Djukanovic voglia egualmente l'indipendenza, i terroristi dell'UCK continuino ad entrare nella fascia smilitarizzata del Sud della Serbia uccidendo poliziotti e terrorizzando la popolazione, e che nella "democratica" Croazia si lincino regolarmente i profughi serbi della Kraijna che cercano di tornare alle loro case, del resto regolarmente bruciate. Anche qui il "Diritto al Ritorno" è sacro per i kosovaro-albanesi (come lo è per gli ebrei, anche se da secoli vivono in altri paesi), ma è negato ai cattivi serbi come lo è per i pària palestinesi. Insomma i serbi restano "i cattivi" agli occhi della UE che, così rapida nel bombardarli, è estremamente lenta nel togliere l'embargo e nel portare gli aiuti tanto largamente promessi prima delle elezioni. Del resto qualche settimana o mese in più di "punizione", in pieno inverno, non potrà che essere salutare per chi si è opposto troppo a lungo all'avvento della democrazia. D'altra parte anche il nuovo governo "democratico" serbo ha fatto del suo meglio per aiutare la parte di popolazione più disagiata: ha eliminato ad esempio i "pacchi mensili" con generi di prima necessità e altri sussidi distribuiti dal "regime del dittatore" che evidentemente sono stati ritenuti troppo "socialisti". Ma al di là di banali considerazioni moraleggianti e di critiche cavillose sui metodi, si può finalmente guardare ai Balcani come a un'area pacificata e avviata verso la prosperità? Così non pare. Se la devastazione sociale ed economica portata nei paesi "ex socialisti" dall'ingresso del neoliberismo è un pessimo precedente, la lotta tra potenze più o meno "imperiali" per la spartizione del bottino fa prevedere tempi assai poco tranquilli per una zona contesa da sempre nel corso dei secoli. Per quanto riguarda il primo aspetto, non si può ignorare il fatto che la frammentazione favorita e provocata dalla "globalizzazione" nell'Europa dell'Est (prima del 1989 vi erano 10 stati, ora sono 28) ha prodotto una miriade di staterelli in balìa della Banca Mondiale e del FMI nei quali il PIL, ovvero il "benessere", dopo 10 anni, è addirittura diminuito. Se si fa eccezione per Polonia e Slovenia, si va dal "più zero" della Slovacchia al meno 5% dell'Ungheria per arrivare al meno 41% della Lettonia: la ricchezza per pochi speculatori e la miseria per i più. La fuga, l'espatrio: un flusso massiccio di migranti che ultimamente vede, per quanto riguarda l'Italia, la Romania al primo posto. Se il nuovo governo jugoslavo seguirà le direttive del FMI e della Banca Mondiale, gli effetti non potranno che essere simili a quelli constatabili negli altri paesi già del "socialismo reale". Per quanto riguarda poi il conflitto sotterraneo tra potenze per il controllo dell'area, può accadere di tutto. Con la guerra e la disintegrazione della Jugoslavia c'è già chi si è avvantaggiato: gli USA che hanno piantato stabilmente nel Kossovo l'enorme base militare Bondsteel; la Turchia, che vede nettamente aumentata la sua influenza in Albania, Kossovo e Bosnia; la Germania, che dopo aver messo le mani su Slovenia, Croazia e parte della Bosnia, è riuscita ora a piazzare in prima fila un suo console, quel Dijndijc rifugiatosi in terra tedesca alle prime bombe e ora spesso in conflitto con Kostunica per la reale egemonia sul Paese. Mentre la Germania continua a premere per il massimo della divisione (indipendenza del Montenegro ma anche della Vojvodina, del Sangiaccato e del Kossovo), la Francia, non entusiasta del crescente potere in Europa della nazione "amica", non vede di buon occhio ulteriori smembramenti. Resta inoltre ancora aperta per questa cruciale area geografica la questione dei "corridoi" energetici e viari tra Caucaso-Caspio ed Europa centro-occidentale. Nulla, ad esempio, è stato ancora deciso sul "corridoio 8" che dovrebbe portare il petrolio del Caucaso attraverso l'Europa del Sud (Bulgaria-Albania) o, in alternativa, in Turchia. A ciò va aggiunta la crescente tensione in tutta l'area del Vicino Oriente causata dall'acuirsi del conflitto tra Israele e palestinesi. Da tutto ciò si ricava che la "vittoria della fata Democrazia sull'orco Milosevic" (Ennio Remondino nel TG3) non equivale all'annichilimento del popolo serbo, il quale non può non vedere come ai suoi profughi, e solo ai suoi, venga negato il diritto al ritorno in Croazia e nel Kosmet. Non può ignorare il fiume di denaro elargito alle bande mafiose del Kossovo e ai trafficanti montenegrini, mentre al suo paese, semidistrutto dai bombardamenti umanitari, ogni centesimo viene bilanciato da condizioni e da ricatti. Sullo sfondo c'è poi la catastrofe prossima futura dovuta alle conseguenze dei bombardamenti sulle industrie chimiche e al largo uso di proiettili all'uranio "impoverito" di cui solo ora pare si scopra la nocività. Pericolo questo sempre negato, oltre che dai nostri governanti (in prima fila l'arrogante diessino Brutti sottosegretario alla Difesa), anche dai generali delle FAI. Se qualche mese di permanenza dei "nostri ragazzi" in zone contaminate provoca leucemie a ripetizione, cosa succederà alla popolazione che ci vive e sulle sorti della quale non viene spesa una parola? Se questo è l'ordine, la pace, il ripristino dei Diritti Umani portato dalla "ingerenza umanitaria" della Democrazia, l'orco Milosevic (che tra tante colpe ha quella, forse la più grave, di non aver sempre difeso coerentemente il popolo serbo) diventa un innocuo folletto in confronto al Moloch neoliberista che distrugge le nazioni e si alimenta delle vite e delle sofferenze dei popoli "cattivi": serbi, iracheni, palestinesi o latinoamericani che siano.
G.L.Maddalena