La Fucina N. 23 - GENNAIO 2001
La Fucina
 
Sommario:  
  Porto Alegre: dal taccuino di un comunista (Mimmo Porcaro)
  La sindrome dei Balcani (Anna Zanconato)
  Ecomafie, industriali e torce al plasma (Andrea M.)
  INTERVISTA AD ALBERTO GRANADO ()Cristina Toffanin
  Progredisce il vaccino cubano contro l'AIDS (Traduzione Cristina Toffanin)
  UN GOVERNO SERVILE AI "GRINGOS" (Cesar Montes)
 

Porto Alegre: dal taccuino di un comunista (Mimmo Porcaro)
La prima cosa che viene in mente, ascoltando la marea di interventi, relazioni, discussioni informali, leggendo i manifesti ed i simboli di questo primo Forum sociale mondiale, è molto semplice e molto netta: noi non siamo pazzi. Noi, minoranza europea, "occidentale", noi che insistiamo nel criticare il capitalismo e nel considerarlo una forma transitoria dell'organizzazione sociale, non siamo i testimoni inattuali di idee giuste ma oggi inefficaci, incagliate o deviate in qualche morta gora del fiume degli eventi storici. La critica del capitalismo e la prospettiva socialista sono, a quel che si vede da quest'angolo del mondo, estremamente e radicalmente attuali perché sono di nuovo un fatto di massa. Organizzazioni di massa sono quelle che guidano, qui, la maggior parte delle discussioni. Ad esse corrisponde una classe politica decorosa, i cui discorsi, spesso assai seri, argomentati e tutt'altro che populisti, spesso nutriti da un rilevante e non schematico retroterra marxista, corrispondono per contenuto a quelli di noialtri "antagonisti" occidentali. Solo che in questo caso, appunto, son discorsi fatti da gente che ha la responsabilità di movimenti, partiti, amministrazioni che coinvolgono milioni di persone. La spiegazione di questo fenomeno è semplice. Da noi, almeno da noi in Europa, decenni di Stato sociale hanno comportato, per la particolare fase storica in cui si sono iscritti, una salda alleanza tra i movimenti operai e le borghesie nazionali, hanno comportato un adesione pratica ed ideologica delle masse e dei loro capi a gran parte dei meccanismi fondamentali della società capitalistica. Cosicché, quando il compromesso sociale è stato rotto da parte delle classi dominanti, a gestire questa nuova fase si sono trovate da un lato, masse disperse e disorientate e dall'altro, una classe politica ormai votata all'esigenza di partecipare ad ogni costo al governo e dunque disposta ad accettare totalmente anche la stessa ideologia e le stesse pratiche neoliberali. Da noi, inoltre, per una buona parte delle masse la perdita dei diritti sociali fondamentali si configura come un processo lento, che fatica dunque a coagulare episodi significativi di resistenza. Nelle altre parti del mondo, che non hanno conosciuto il nostro tipo di compromesso sociale, l'avvento del neoliberismo ha significato invece quasi sempre il passaggio dalla sopravvivenza alla miseria, dalla miseria alla fame. Con la conseguente crescita, lenta ma costante, di movimenti organizzati di ribellione. Ne consegue, tra l'altro, un diverso atteggiamento nei confronti della sconfitta storica del socialismo di Stato. Sconfitta che non viene negata o esorcizzata, ma la cui accettazione non comporta il disorientamento e l'afasia che spesso ci contraddistinguono. Qui non mi sembra che si sia ancora alla fase dell'elaborazione del lutto: qui si è - nel bene e nel male e pur con forti presenze di elementi non rielaborati tipici della vecchia tradizione - nella fase della progettazione di una nuova forma di socialismo che per molti non ha a che vedere né con i cascami dello stalinismo e del trotzkismo, né con la riedizione di improbabili "terze vie" tra capitalismo e socialismo. Semplicemente: qui il superamento del capitalismo è vissuto da moltissimi come un' esigenza pratica immediata: dunque non ci si può attardare a chiedersi se sia possibile, e bisogna piuttosto dimostrare che è possibile. Vero è che per molti si tratta di superare "solo" il capitalismo ultraliberale…ma se vi sembra poco, vuol dire che siete abituati a vedere, qui da noi, grandi movimenti comunisti di massa, dei quali io non mi sono accorto. Il secondo punto rilevante è anch'esso assai semplice e netto: siamo oltre lo "spirito di Seattle", e siamo oltre le manifestazioni che a Seattle hanno fatto seguito. Perché qui il principale protagonista non è un'avanguardia transnazionale costituita soprattutto da una nuova (per quanto democratica) élite di specialisti in campagne di mobilitazione. Qui il protagonista è un insieme di movimenti fortemente radicati sul terreno locale che spostano la loro azione nello spazio transnazionale. E questa è forse la più importante novità di questi giorni. Il cosmopolitismo conflittuale dell'avanguardia transnazionale, priva di effettivi legami di con strati rilevanti delle classi subalterne, potrebbe tradursi, alla lunga, in una palestra per la formazione d'una classe dirigente alternativa, pronta a gestire un capitalismo relativamente umanizzato. Ma la probabile connessione tra questa avanguardia e quelle sorte sul terreno locale e poi proiettate su quello globale potrebbe dar luogo a fenomeni del tutto diversi. Oggi si passa, come ha notato Sara Fornabaio su Liberazione, dalla centralità della "campagna" alla centralità del "movimento", ed il ruolo degli specialisti in campagne mediatiche viene sostituito o affiancato dal ruolo degli agenti, di base e di vertice, di aggregazioni sociali più vaste. I movimenti protagonisti di questo Forum dovranno essere studiati nella loro originalità: il movimento dei Sem Terra brasiliani, il sindacato brasiliano e lo stesso PT, Via Campesina, etc . Apparentemente i soggetti sociali sono i classici soggetti degli albori del movimento socialista, contadini ed operai. Ma l'impressione da verificare è che la galassia sia più composita (e lo era, per altro, anche quella del movimento delle origini) e che le forme organizzative siano in parte nuove. Nuova, senz'altro, è l'esigenza nettamente percepita da questi movimenti di misurarsi direttamente e da subito con il livello mondiale. L'esigenza di trasferirsi in altri luoghi per poter condurre appieno la propria battaglia. Si conferma così la semplice intuizione lasciataci dal compianto Daniel Singer in quel bellissimo testamento politico ed intellettuale che è il suo "Whose millennium? ": i movimenti del futuro dovranno nascere su base nazionale e dovranno svilupparsi su scala mondiale. Un aspetto meno appariscente, meno formalizzato e formalizzabile di questo Forum, ma senz'altro, in prospettiva, foriero di molteplici sviluppi, è l'enorme massa di contatti, connessioni, confronti che si è verificata tra soggetti, individuali e collettivi, provenienti dalle più diverse esperienze e nutriti dalle più diverse ideologie. Lucrezio, il grande poeta e filosofo materialista della Roma antica, pensava che la realtà venisse prodotta nei vortici che facevano collidere tra loro atomi prima indifferenti l'un l'altro. Qui il materialista osserva sorridendo lo svolgersi, il riavvolgersi e l'arrovellarsi di numerosi vortici di atomi sociali che liberamente collidono e danno luogo alla produzione di una novità imprevedibile, collegandosi attraverso legami originali. Di certo tutto questo raggiungerà prima o poi forme più stabili: ma sarebbe misero voler già da ora predeterminare uno svolgimento, sarebbe condannarsi alla ripetizione dell'identico. Ciò non vuol dire che, nel vortice, non si debba agire coscientemente: ma l'azione è paragonabile più ad una scoperta che alla ricerca di ciò che ci somiglia. E su questo tornerò. Tutto questo vorticare di relazioni mi sembra qualcosa di più libero di una rete, che è pur sempre, se vogliamo restare alla metafora, la connessione tra punti che restano "fermi". Va precisato che quanto detto sopra riguarda soprattutto, come ho già detto, l'aspetto informale degli incontri, giacché gli incontri formali - sia le relazioni del mattino che i workshop pomeridiani - appaiono notevolmente ingessati, con scarsa o nulla possibilità di dibattito ed intervento, a parte la buffa usanza delle domande scritte consegnate dal pubblico al tavolo della presidenza. In parte ciò è dovuto alla obiettiva difficoltà di gestire un notevole flusso di presenze e le prevedibili conseguenti confusioni. Ma pare strano che in questo mondo prontissimo a stigmatizzare i difetti (ormai insopportabili) della "vecchia politica" pochi protestino contro questo deficit di democrazia. Contestazioni ve ne sono, vengono in genere tollerate, ma non si va molto in là. La contestazione più significativa è quella di un gruppo di neri che interrompe una soporifera ed elusiva conferenza stampa del gruppo organizzatore, chiedendo spazi maggiori, etc. E' la spia di un grave problema. I delegati dei paesi più poveri sono pochissimi e si muovono tra notevoli difficoltà. Coi soldi dei nostri alloggiamenti, se questi fossero ridotti a dimensioni più spartane, si potrebbero finanziare ulteriori partecipazioni, ma resterebbero in piedi alcuni gap comunicativi, io credo. Comunque questo è uno dei problemi prioritari che il futuro comitato organizzatore dovrà affrontare. Non manca - e come potrebbe? - l'aspetto più tradizionale della politica: non manca l'aspetto della lotta politica interna ai movimenti, né quello dell'azione di partito e di stato. Negarlo sarebbe demenziale, sarebbe privarsi di una risorsa e sottovalutare un pericolo, dimenticare le condizioni concrete in cui tutte le suddette novità si producono. L'aspetto politico tradizionale qui è dato dalla strategia del PT e dai suoi rapporti con una parte dell'apparato di stato francese (nonché con una parte dei movimenti francesi). Poiché non è impossibile che il PT, tra circa un anno e mezzo, conquisti per un suo candidato la carica di Presidente della repubblica brasiliana, la sua strategia si muove in direzione di questo obiettivo fondamentale. Secondo alcuni ciò comporta (per la parte più moderata del PT) il tentativo di smussare i toni critici nei confronti dell'imperialismo USA. Di certo comporta il disegno d'una strategia internazionale che mira a prevenire il probabile isolamento d'un Brasile "rosso" cercando alleanze sia coi grandi paesi del Sud (Sudafrica, India, Cina) sia (illusoriamente, a mio avviso) con l'Europa, ed in particolare con la Francia, che è la nazione europea apparentemente meno succube agli USA. Ora, quest' asse franco-brasiliano ha due aspetti, uno positivo (il legame di lotta fra i movimenti - ed in particolare fra i movimenti contadini - dei due paesi) ed uno negativo (il tentativo francese, ostacolato anche grazie all'azione della delegazione italiana, di mettere la sordina alle responsabilità NATO nell'infame guerra dei Balcani). Più in generale, le preoccupazioni strategiche del PT e l'asse "diplomatico" franco-brasiliano hanno certamente influenzato la decisione di non concludere il Forum con un documento finale. Per fortuna, almeno il workshop dei movimenti sociali e quello dei rappresentanti istituzionali sono invece riusciti a produrre dichiarazioni finali impegnative e preliminari a nuove e concrete iniziative. La cosa più negativa di tutto ciò non è certo l'esistenza di questa "alta politica". Anzi. Giustamente François Houtart, in una delle relazioni "ufficiali" del Forum, ha fatto presente la necessità di costruire a livello internazionale rapporti di forza che sostituiscano, almeno in parte, quelli venuti a mancare con il crollo del muro di Berlino: ci dovremo abituare al fatto che il movimento della "globalizzazione dal basso" e le azioni della cosiddetta "società civile transnazionale" si articoleranno alle più tradizionali, ma non certo meno importanti, strategie internazionali di partito e di stato. La cosa più negativa è piuttosto il fatto che questo livello del discorso non è stato quasi mai affrontato pubblicamente, e che la stragrande maggioranza dei presenti, di queste cose sapeva o sospettava poco. Qui la retorica della "nuova politica" acceca, e non fa comprendere né le potenzialità né i rischi insiti nell'ineliminabile "vecchia politica". Qui si misura anche il vero livello della politicizzazione delle famose Organizzazioni non governative (ONG). Secondo alcuni (ad esempio secondo il filosofo Paulo Arantes intervistato dal quotidiano Folha de S. Paulo del 29.1.2001) le ONG stanno spostandosi dalle generiche radici "ambientaliste" che davano luogo a carnevalesche sfilate sotto gli applausi di americani ed europei, e si stanno rapidamente radicalizzando, giungendo a formulazioni anticapitaliste ed antiimperialiste più precise. La mia impressione è che il processo sia molto più confuso, e che per molte ONG (che per altro sono "non governative", ma dalle sovvenzioni dei governi in gran parte dipendono) l'obiettivo sia essenzialmente quello della liberazione di una gran mole di risorse che aumenterebbe a dismisura il bacino finanziario da cui esse possono attingere. Il nobile e sacrosanto obiettivo dell'annullamento del debito dei paesi "dipendenti" e della tassazione delle transazioni finanziarie avrebbe anche questo prosaico scopo, e l'opacità del rapporto con le politiche di stato sarebbe in questo caso il frutto della necessità di non porre sotto i riflettori una delicatissima zona di transazioni economiche. Nel dir questo non sto affatto supponendo l'esistenza di affari loschi: sto semplicemente applicando anche alle ONG il principio che ci deve guidare nella considerazione dei partiti, dei sindacati e di tutte le associazioni, ossia il principio che ci invita a considerare prima di tutto gli interessi specifici dell'organizzazione (ossia la tendenza di ogni organizzazione a riprodurre ed accrescere se stessa) e solo secondariamente gli scopi conclamati. Ovviamente nulla vieta che le due cose possano coincidere. Peraltro, una radicalizzazione delle ONG è probabilmente (e fortunatamente) inevitabile, e per molte di loro già avviene. Le contraddizioni che gran parte dei loro aderenti si trovano a dover gestire sono sempre più difficili ed acute. Il contatto oramai stabilitosi tra queste ONG e movimenti più tradizionali e combattivi fornisce un flusso di motivazioni ulteriori. E quando il leader dei Sem Terra ha detto a chiare e semplici lettere che "non basta essere a favore dei poveri, bisogna anche essere contro i ricchi", una vera e propria ovazione ha accomunato tutti. Le preoccupazioni più grandi però non vengono dal ruolo delle ONG, né dalla politica di stato, né dall'eventuale presenza di forme organizzative più tradizionali. Vengono piuttosto dal ruolo dei sindacati, ed in particolare dei sindacati europei e statunitensi. Questi hanno effettivamente fatto la figura delle istituzioni più conservatrici e meno dinamiche. Il rappresentante dell' AFL-CIO ha fatto un bel discorso di critica radicale al modello USA, ma questo sindacato, nel suo complesso, è stato sostanzialmente assente dal Forum. Anzi, lo stesso oratore ha detto che John Sweeney, il suo leader, non sarebbe stato a Porto Alegre perché era a Davos a dire che era con quelli di Porto Alegre. Un bel pasticcio, che mostra solo come l'innegabile risveglio del sindacalismo USA non abbia ancora raggiunto una massa critica sufficiente. Abbiamo anche sentito un rappresentante della CGIL fare roboanti dichiarazioni contro la flessibilità del lavoro ed a favore della riduzione generalizzata dell'orario di lavoro come cardine della lotta alla disoccupazione. Francamente è stato come sentire un Veltroni che facesse l'apologia di Lenin e della dittatura del proletariato. Tutti i sindacalisti USA ed europei hanno fatto precise e documentate dichiarazioni sul fatto che ormai non si tratta più di costruire la solidarietà dei lavoratori del Nord coi più sventurati lavoratori del Sud, e che si tratta piuttosto di una lotta comune contro una comune condizione di dipendenza e di insicurezza. Ma a tutte queste giaculatorie non ha fatto seguito - a quanto ne so - nessuna concreta indicazione di iniziative e di scadenze, mentre tutti i sindacati europei sono apparsi sostanzialmente proni alle politiche dei loro governi e a quelle comunitarie. Un disastro. Finché i lavoratori occidentali non smetteranno di fungere da classe di sostegno delle diverse frazioni del capitale mondiale e non usciranno dall'alleanza subalterna che li lega alle classi dominanti, la partita non potrà dirsi davvero riaperta. Anche su questo terreno si mostreranno le maggiori o minori capacità degli "antagonisti" europei. Ed anche su questo terreno, temo, dobbiamo registrare un'altra nota negativa. Giustamente Pier Luigi Sullo lamentava sul manifesto la scarsa o nulla presenza di buona parte della cultura critica nostrana nei più visibili momenti del Forum e notava che ha poco senso prendersela con l' "egemonia" franco-brasiliana se non si inizia a predisporre da adesso, nell'ambito del rinnovamento e dell'allargamento del comitato organizzatore internazionale, un più preciso impegno dell' intellighentsia italiana ed europea. Gli è, a mio parere, che l'intellighentsia occidentale, ed in particolare quella italiana, appare poco capace di leggere davvero i fenomeni che a Porto Alegre si sono annunciati. Siamo troppo presi dalle tematiche del post-moderno e del post-fordismo, troppo sedotti dall' "immateriale" e dalla "cyber-community" per accorgerci davvero di quel che accade o che può accadere. Intendiamoci, non dico che le tematiche di cui sopra siano tutte panzane, o che non parlino anche di fenomeni che si riscontrano nello stesso Sud. Ma è la centralità delle categorie del post-moderno che impedisce di leggere una realtà che non è fatta semplicemente dall'implosione o esplosione dei soggetti politici, quanto dall'articolazione plurale di soggetti molteplici, alcuni dei quali fortunatamente privi delle caratteristiche di volatilità e di leggerezza tanto care alla nostra estenuata riflessione. Il fatto è che non riusciamo a liberarci (proprio noi, così pervasi dalla critica dello "sviluppo") dal malvezzo storicista ed evoluzionista che porta a credere che tutta la realtà sia leggibile sempre e solo dal suo punto apparentemente più sviluppato (ossia, nel nostro caso, dall'Europa quando non dagli USA - o dall'immagine che degli USA ci facciamo). E ci affanniamo ad imputare virtù rivoluzionarie sempre e soltanto all'ultimo soggetto che appare sulla scena: l'altro ieri gli intellettuali massa, oggi "il popolo delle partite IVA", domani i lavoratori del terzo settore. E lo facciamo non sulla base dei comportamenti concreti di questi soggetti (tutti assolutamente interessanti ed importanti, sia chiaro), ma solo sulla base del fatto che essi sono (o crediamo siano) l'ultimo prodotto del capitalismo, il dernier cri della dialettica storica. Mentre invece mi pare si debba dire che la realtà è leggibile non semplicemente a partire dallo sviluppo del capitale, ma a partire dallo sviluppo del conflitto. E che spesso non è la contemporaneità a fornire la chiave della comprensione dei soggetti, ma proprio la loro apparente inattualità. In fondo fu proprio l'incontro fra un movimento contemporaneo (quello degli studenti e delle varie tematiche "postmaterialiste") ed un movimento apparentemente sorpassato (quello di una classe operaia in gran parte orientata in direzione "comunista") a consentire, negli anni '70, la comprensione e la critica di una forma determinata di capitalismo, quella sortita dal compimento e dalla crisi del welfare. Ciò spiega come siano soggetti apparentemente sorpassati, addirittura movimenti contadini, quelli che ci aiutano a leggere, oggi, la realtà mondiale del capitalismo e del conflitto. Che ci aiutano a capire che la scintilla della ripresa d'un conflitto di classe mondiale non scoccherà necessariamente dal "centro", anche se l'incendio dovrà necessariamente propagarsi fino al centro. Certo, se vogliono essere efficaci, questi "vecchi" soggetti non possono limitarsi a guardare indietro (e non credo che lo facciano). Ma d'altra parte noi, se vogliamo davvero essere attuali, non possiamo limitarci ad essere contemporanei, oppure dobbiamo capire che la contemporaneità è un insieme disomogeneo di temporalità differenziate, come voleva Althusser. Se ciò che inizia a Porto Alegre inizia davvero, anche la nostra ripetitiva riflessione può esserne finalmente scossa. Qui, quando si parla di socialismo, i più applaudono convinti, pochi applaudono tiepidamente, pochissimi mostrano perplessità. Il fatto che spesso si intenda per socialismo qualcosa che, anni fa, avremmo tacciato di imbelle riformismo, poco muta dell'essenza della questione: ritorna a muoversi, come dicevo prima, una critica di massa al capitalismo, una critica che quantomeno allude ad una nuova società. Vi pare poco? Certamente, in questo caos che per adesso vede, almeno all'apparenza, l'egemonia d'una critica di tipo umanitario ai soli aspetti deteriori del capitalismo, al "capitalismo finanziario" (come se fosse possibile distinguerlo dal capitalismo industriale, oggi!), il ruolo di un'analisi di derivazione marxista e di orientamento comunista è assai importante. Molti dei presenti potrebbero imparare da noi, se concentrassimo al meglio i nostri sforzi di analisi e comunicazione, due o tre cose essenziali sul capitale e sui suoi trucchi. Ma certamente noi abbiamo da imparare, da loro, moltissimo sulla forma attuale in cui si presenta l'esigenza d'una uscita dal capitalismo, sui soggetti, sui valori, sui modi concreti di costruzione di relazioni sociali non fondate sullo sfruttamento e sulla competizione. E' un processo collettivo di apprendimento, quello che si apre. E' senz'altro anche un processo di lotta per l'egemonia tra diverse posizioni. Come dicevo, moltissimi applaudono quando si parla di socialismo. Ma quando un gruppetto comunista organizzato sottolinea sistematicamente ogni passaggio delle relazioni con slogan che invocano la radicalizzazione della lotta, tutti fischiano. Perché non ci si può presentare come quelli che sanno già tutto, perché sappiamo poco e, su alcune cose, quasi nulla. Bisogna essere dentro questa corrente e parlare linguaggi che a tutta prima ci sembrano estranei: ne uscirà qualcosa di nuovo anche per noi. La delegazione italiana si è mossa in maniera dignitosa. Prima di tutto perché non era, in partenza, la delegazione di una omogenea realtà nostrana, ma un insieme di delegati di diverse realtà che hanno via via trovato, anche grazie all'intelligente apporto di Vittorio Agnoletto, un soddisfacente metodo di confronto ed una sufficiente unità di intenti. Secondariamente perché i punti affrontati erano davvero rilevanti: far sì che da Porto Alegre partisse, almeno nelle intenzioni, una staffetta per le contestazioni al G8 di Genova; sottolineare il ruolo nefasto della Nato ed inserire la critica all'ingerenza umanitaria almeno in uno dei documenti del Forum (quello dei "movimenti"). Il che è stato fatto. Ovviamente ora il problema è far nascere in Italia un insieme permanente di soggetti interessati in maniera organica alla connessione dei movimenti locali con le scadenze sovranazionali. Il problema è far sì che il nome di Porto Alegre, come quello di Seattle, non diventi qualcosa di analogo ai luminosi nomi delle vittorie napoleoniche (Austerlitz, Marengo…) che scaldano cuori e menti dei patrioti italiani e lasciano fredde le masse. Concludo. Secondo un'analisi "classica" si potrebbe dire che il Forum ha sancito la momentanea alleanza tra movimenti contadini ed operai (soprattutto, forse, contadini) più radicali da un lato ed apparati di partito e di stato franco-brasiliani dall'altro, con la momentanea latitanza dei movimenti sindacali delle metropoli e la completa vergognosa assenza della quasi totalità degli apparati già "socialdemocratici". E già questo potrebbe bastare, trattandosi di un'alleanza necessariamente dinamica. Ma è qualcosa di più, ovvero è l'unione tra questo processo e quello di formazione molecolare di nuove aggregazioni che attraversano i confini degli stati e dei movimenti. E' la ripresa della critica di massa del capitalismo, in una forma potenzialmente adeguata al nuovo livello di sviluppo, nazionale e transnazionale, del capitalismo stesso. Tutti i problemi teorici e pratici del movimento anticapitalista ci stanno davanti, irrisolti. Ma si stanno formando nuovamente dei soggetti collettivi e, al loro interno, delle individualità consapevoli, che vogliono affrontarli.
Mimmo Porcaro


La sindrome dei Balcani
Il caso dell'uranio impoverito ( DU, Depleted Uranium) è diventato ormai un evento mediatico; tutti sono a conoscenza dell'utilizzo che ne è stato fatto in Bosnia nel 1995 e in Jugoslavia nel 1999 durante i bombardamenti della Nato, ma come il solito l'evento mediatico ha nascosto ai più la vera natura del fatto, le conseguenze e gli effetti che ha l'uso d'uranio impoverito sugli uomini e sull'ambiente. Eppure, già dalla guerra contro l'Iraq erano noti i problemi derivanti dall'uso di armi contenenti questa sostanza; parliamo dunque di 10 anni fa, durante i quali il dibattito scientifico non ha risparmiato dubbi sulla pericolosità per i civili e per i militari. Ci sono quindi prove scientifiche, studi e ricerche che vanno svelando gli effettivi rischi per chi entra in contatto con questa scoria nucleare. Dall'incontro del 15 febbraio scorso con Lia Bandera, presidentessa del CRIC (Centro Regionale d'Intervento per la Cooperazione), organizzato dal Punto Rosso di Vicenza e da Rifondazione Comunista, è emerso che non esistono dubbi sulla pericolosità dell'uranio impoverito, in quanto se viene inalato o ingerito sotto forma di pulviscolo si accumula nei polmoni e nei reni, diventando altamente dannoso. Quello che manca sono dati certi sull'uso estensivo di questa sostanza; ma ormai si può affermare che esistono da anni le basi sufficienti per vietarne l'uso sia a fini militari sia civili. I rischi ai quali si espone la popolazione e la loro durata sono molto incerti, e meritano l'applicazione di un atteggiamento di estrema precauzione. Nel documento presentato dal CRIC in occasione del nostro incontro, vengono analizzati quegli elementi che rendono difficile stabilire una relazione diretta fra causa ed effetto. Sia in Iraq sia nei Balcani molte altre sostanze tossiche e cancerogene, oltre al DU, sono state liberate nell'ambiente a causa dei bombardamenti effettuati con "bombe intelligenti", che hanno colpito stabilimenti chimici e industriali, spacciati come obiettivi militari. Inoltre l'effettiva composizione dei proiettili ad uranio impoverito non è certa, in quanto recentemente l'UNEP (programma ambientale delle Nazioni Unite) ha confermato di aver trovato tracce di U236 e di plutonio nei proiettili all'uranio impoverito rinvenuti in Kosovo. La presenza di plutonio e l'U236, che si produce nei reattori nucleari, è una prova che l'uranio usato nelle armi non è ricavato solo dallo scarto dalla fabbricazione del combustibile nucleare, ma anche dalle scorie dei reattori nucleari. In questo ultimo caso la presenza di plutonio può rendere l'uranio impoverito radiativamente dannoso anche in assenza di combustione e ingestione. In ogni caso, mentre esistono modelli di riferimento rispetto all'esposizione intensiva al DU basati sui dati ricavati dallo studio dei veterani della guerra del Golfo, non conosciamo gli effetti di un'esposizione a basse dosi, come per la popolazione civile in Iraq e nei Balcani. La difficoltà della misurazione dei danni è causata soprattutto dalla reticenza degli statunitensi, che oltre a non rendere disponibili le mappe geografiche dei bombardamenti, continuano a sostenere la legalità delle armi all'uranio, non essendoci secondo loro nessun veto da parte del diritto internazionale. In realtà già una risoluzione delle Nazioni Unite del 29 agosto 1996 chiede testualmente ai paesi membri di "guidare le loro politiche nazionali in base alla necessità di mettere freno alla produzione e alla diffusione di armi per la distruzione di massa o con effetti indiscriminati, in particolare armi nucleari, armi chimiche, bombe fuel-air, napalm, bombe a grappolo, armi biologiche e armi contenenti uranio impoverito". Inoltre nel testo dell'art.15 della "Dichiarazione di Rio sull'Ambiente e lo Sviluppo" del giugno 1992, si afferma che "per favorire la protezione dell'ambiente, l'approccio precauzionale dovrà essere largamente applicato dagli Stati in base alla loro possibilità. Nei casi in cui ci siano minacce di danni seri o irreversibili, la mancanza di conoscenze scientifiche complete non dovrà essere un motivo per rimandare misure efficaci per la prevenzione del degrado ambientale". In base a questo principio ogni arma di cui non si conoscano gli effetti sull'ambiente e sull'uomo non dovrebbe essere utilizzata, e di conseguenza dichiarazioni come quella del portavoce della Nato Mark Leaty, secondo il quale i proiettili all'uranio impoverito "sono armi legali, di cui nessuno ci ha chiesto (...) la messa al bando" sono smentite da tutta una serie di convenzioni e consuetudini internazionali che riguardano il diritto umanitario. Pertanto la Nato dovrebbe farsi carico del risarcimento delle popolazioni colpite dalle loro guerre "giuste", e non solo per l'uso dell'uranio, ma per lo stato di miseria in cui questi stati sono stati lasciati, privandoli di risorse essenziali per la sopravvivenza della popolazioni, quali strade, ponti, centrali elettriche, idriche e risorse naturali. Anzi, sarebbe ora che la Nato si sciogliesse; dovrebbe essere ormai sufficientemente chiaro che i danni diretti o collaterali da essa causati (volontariamente) superano ampiamente i supposti benefici di ogni suo intervento: interventi definiti "umanitari", ma che in realtà mirano ad indebolire (o meglio, annientare) ogni elemento di disturbo all'imperialismo statunitense.
Anna Zanconato


Ecomafie, industriali e torce al plasma
E' del 14 febbraio la sentenza del T.A.R. del Veneto che accoglie il ricorso, promosso dai comitati spontanei, contro la Torcia al Plasma di Dueville e Monticello Conte Otto, firmato dalle associazioni ambientali e pagato con i soldi dei cittadini, che hanno contribuito, anche economicamente, a sostenere l'azione dei comitati spontanei. Il comitato e i firmatari del ricorso chiedevano, in sostanza, che fosse annullato il decreto del Ministero dell'Industria che autorizzava la ditta Powerco ad installare ed esercire un impianto per la produzione d'energia elettrica, alimentato da rifiuti industriali "non pericolosi" dal Comune di Dueville, provenienti dalla discarica di Sarcedo, dove l'Associazione Industriali della Provincia di Vicenza smaltisce tuttora i propri rifiuti. La sentenza del T.A.R. così recita: "Il Tribunale Amministrativo regionale per il Veneto Sezione Terza, definitivamente pronunziando sul ricorso in premessa, respinta ogni contraria istanza ad eccezione, lo accoglie, e per l'effetto annulla l'impugnato decreto 29 marzo 2000 n° 69/2000 del Ministero dell'industria, del commercio e dell'artigianato, nonché la determinazione assunta dalla conferenza di servizi in data 29 marzo 2000".
LA VICENDA
Ma partiamo da un po' più lontano: verso la fine del 1999 l'Associazione Industriali di Vicenza costituisce la società Futuro Ambiente con lo scopo di costruire un impianto per la produzione d'energia elettrica tramite la gassificazione dei rifiuti industriali non pericolosi nel Comune di Dueville. La tecnologia che si vuole adottare, denominata Torcia al Plasma, è descritta dai proponenti come tecnologia già ampiamente collaudata negli USA, in particolare dalla società Westinghouse Plasma Corporation, detentrice del brevetto per l'impianto in questione. La società concessionaria della W.P.C in Italia è la ditta Celtica Ambiente, socio di minoranza della società Futuro Ambiente tramite la controllata Powerco di Brindisi. Dell'impianto, il cui costo si aggira sui 100-120 miliardi di lire, gli amministratori della società giurano la massima sicurezza, anche per la tecnologia all'avanguardia adoperata che garantirebbe una minima emissione di gas inquinanti. Peccato che di questa tipologia d'impianto non esiste traccia in tutto il pianeta, se si esclude quello dimostrativo che si trova a Pittsburgh negli Usa, ma che esprime una potenza di 30 volte inferiore a quello che s'intendeva costruire a Dueville. Questo genere d'impianto per lo smaltimento dei rifiuti verrebbe sperimentato non solo a Dueville, ma anche a Montebelluna e a Brindisi, dove la Powerco avrebbe già firmato accordi con le amministrazioni locali.
L'IMPIANTO
Avvalendosi della consulenza di un docente universitario del Corso di laurea in Scienza dei gas ionizzanti, i comitati hanno constatato che la tecnologia della Torcia al Plasma presenta molti meno margini di sicurezza di quanto si voglia far credere, questa è l'opinione anche del Collegio degli Ingegneri della Provincia di Vicenza). L'inceneritore è costituito da un reattore "PPV", inserito in un cilindro d'acciaio inox rivestito esternamente di materiale refrattario, dove i rifiuti sono gassificati ad altissime temperature. Le emissioni di gas sono finalizzate alla produzione di energia elettrica attraverso una turbina. Energia che l'ENEL acquisterebbe ad un prezzo triplo di quello di mercato attraverso il cosiddetto provvedimento "CIP 6" che prevede tale corrispettivo per l'energia elettrica prodotta attraverso "fonti rinnovabili". L'impianto tratterebbe circa 135.000 tonnellate/anno di rifiuti con una portata di fumi altamente inquinanti emessi di 275.000 metri cubi l'ora, che coprirebbe un'area di 25 km quadrati e richiederebbe per il suo funzionamento un prelievo dal sottosuolo di almeno 48.000 litri d'acqua il giorno ( acqua che proverrebbe dalle preziose falde acquifere della zona, cui attingono anche gli acquedotti di Padova, Vicenza e dell'Euganeo Berico). Gli scarti da incenerimento sono stati calcolati essere intorno al 30% del totale trattato dall'impianto. Va considerato, inoltre, che il luogo prescelto per l'ubicazione dall'impianto si trova a pochi metri dalle abitazioni e in un'area che conta una popolazione di 40.000 persone nel raggio di 5 km.
I SOCI INQUIETANTI
Sulla realizzazione dell'impianto, anche il gruppo consiliare del Partito della Rifondazione Comunista aveva presentato delle interrogazioni alla Provincia, nelle quali era evidenziato che la Celtica Ambiente compariva in un rapporto di Greenpeace come società collegata alla rete internazionale che gestisce l'esportazione illegale di rifiuti pericolosi e scorie nucleari verso i paesi del sud del mondo. La Commissione parlamentare d'inchiesta sui rifiuti e le attività illecite, in una relazione del 29 marzo scorso, indicava la Celtica Ambientale come azienda che ha contatti con il maggiore network delle ecomafie italiane. Si tratta di una società con sede a Melide (Canton Ticino) il cui amministratore unico è Gian Battista Binaghi, già citato nell'inchiesta sul riciclo di narcodollari "Pizza Connection", svolte dal giudice Amelio Galasso in collaborazione con Giovanni Falcone. L'associata Powerco di Brindisi, invece, annovera fra i suoi consiglieri d'amministrazione l'avvocato svizzero Marcello Quadri, finito lo scorso anno in manette nell'ambito del filone elvetico relativo all'operazione sul contrabbando internazionale di sigarette. L'avvocato Quadri è accusato di aver riciclato denaro proveniente dai traffici illeciti di Cosa Nostra in complicità con Gianni Mennino, uomo di fiducia di Felice Cultera, ritenuto dagli inquirenti italiani il braccio finanziario del clan mafioso di Nitto Santapaola.
LO SCANDALOSO ITER AMMINISTRATIVO
In questa vicenda gli Enti Pubblici, che per definizione avrebbero il compito di tutelare i propri cittadini, si sono attivati invece per tutelare gli interessi e gli "sporchi" profitti di una società privata, tanto da arrivare a disattendere la legge e la procedura da essa prevista (come dimostrato dal TAR), pur di garantire a questa ditta una maggiore rapidità nell'iter burocratico. Nel giro di 15 giorni, tra il 14 e il 29 marzo 2000, la Powerco ha ottenuto il via libero dalla Commissione edilizia e il parere favorevole degli assessori all'ecologia e all'urbanistica del comune di Dueville, dalla commissione regionale tecnica per l'ambiente, la delibera d'approvazione della Giunta Regionale veneta e l'approvazione dei Ministeri dell'Industria, della Sanità e dell'Ambiente nella conferenza dei servizi datata 29 marzo 2000. Tutto questo è allarmante, conoscendo i tempi biblici della burocrazia italiana, e considerando che la Powerco non disponeva ancora del progetto definitivo dell'impianto. Da parte sua, la giunta di centrodestra di Dueville ha rincarato la dose di menzogne e, dopo aver dato tutti i pareri favorevoli all'impianto, si è preoccupata, per bocca del proprio sindaco, delle dichiarazioni contrarie all'impianto, senza però ritirare le concessioni. La Giunta Regionale veneta, presieduta dal sig. Galan, invece, rispondeva così alle interrogazioni presentate sull'argomento dal gruppo consiliare del PRC in regione: "L'impianto entrerà in funzione entro il 2004, a debita distanza dai centri abitativi, distanza comunque tale da non recare alcun danno né disagio di alcun genere alle popolazioni stanziate in questi territori (…). Considerando, inoltre, che l'impianto in oggetto non è stato ancora realizzato, risulta impossibile, allo stato attuale, verificare l'evenienza considerata dagli interroganti…" (leggi rischi ambientali e rischi sulla salute dei cittadini) e che "…solo alla data di messa in esercizio dell'impianto, effettuato il collaudo funzionale e le necessarie verifiche, si potrà accettare la compatibilità dell'impianto con l'ambiente circostante". Un'attenta riflessione merita anche la sentenza del TAR sui cinque punti proposti dai comitati per annullare le autorizzazioni concesse dai ministeri. Sono stati accolti quelli riguardanti le irregolarità e i vizi sulla procedura amministrativa, ma è stata respinta quella che denunciava la mancanza di applicazione del V.I.A. (valutazione di impatto ambientale), secondo l'art.3 del D.P.R. n° 53 del 1998 e l'articolo 58 della C.R. n° 3 del 2000. La Powerco si è affidata, per l'ottenimento dei pareri favorevoli, a questa procedura semplificata, la quale fa parte di una serie di decreti istitutivi del Ministro per l'Ambiente Edo Ronchi, secondo i quali il progetto per l'impianto in questione non è assoggettabile a nessuna valutazione di impatto ambientale. Il sig. Ronchi, che fa parte di un partito che si definisce ambientalista, permette (liberalizzando, di fatto, il settore) con i suoi decreti la costruzione di impianti di questo genere senza nessuna valutazione e considerazione dei danni all'ambiente, agli uomini e agli animali. Anche la Giunta comunale di Vicenza, nella persona dell'assessore all'ambiente e alla qualità della vita, Bordin, dichiarava il 29 gennaio 2001 che " il Comune di Vicenza non interverrà presso la regione e gli industriali e non sosterrà azioni legali presso il TAR (come fatto invece dai comuni di Monticello Conte Otto e Caldogno), dato che queste iniziative sono considerate solo sperpero di tempo e denaro". Niente di più sbagliato, visto che il TAR ha stabilito che, ai fini della concessione d'autorizzazioni, si sarebbero dovuti interpellare anche gli altri comuni interessati, vale a dire "tutti quelli il cui territorio potrebbe, almeno parzialmente, essere raggiunto dalle emissioni provenienti dall'impianto" dunque comune di Vicenza compreso.
LA SUDDISTANZA DEI MEDIA
Deprecabile è anche l'atteggiamento dei maggiori organi locali di informazione che, salvo rare eccezioni, si sono prodigati a fornire un'informazione faziosa (dalla parte degli industriali vicentini), sistematicamente omettendo e sminuendo tutte quelle che potevano essere voci "fuori dal coro" rispetto ai loro azionisti di riferimento, a volte producendo informazioni false, come quelle pubblicate in settembre dal " Giornale di Vicenza" , in cui si davano per vincenti le ragioni degli industriali di fronte al TAR, quando invece era solo stata spostata la data dell'udienza, o mancando di pubblicare, nella rubrica "Lettere al direttore", le questioni dei comitati. Da ricordare, anche, il lunghissimo spot pubblicitario realizzato da TVA Vicenza a favore dell'impianto. Per concludere vorrei citare alcune frasi tratte dalla lettera che il sig. Ziche (presidente dell'Associazione Industriali della Provincia di Vicenza) ha spedito ai comitati che chiedevano un incontro in occasione della manifestazione del 20 gennaio 2001 davanti alla loro sede: "L'organizzazione che rappresento è particolarmente attenta alle problematiche dell'ambiente (…) impegnandosi con quanti condividono la responsabilità di migliorare costantemente il livello di sostenibilità delle attività produttive (…) l'associazione considera la sede istituzionale come il luogo prioritario e privilegiato della propria azione e non è favorevole, comunque, ad instaurare rapporti dialettici sotto la pressione di manifestazioni di piazza". Se, per migliorare il livello di sostenibilità delle attività produttive, è necessario costruire questi impianti produttivi di morte, forse è meglio adattare le attività produttive ad uno sviluppo sostenibile per l'ambiente e per l'uomo. Questi impianti, lungi dall'essere utili ai cittadini, rappresentano soltanto un sistema legato ai profitti forti e alle mafie che speculano sul problema dei rifiuti. E' necessario attivarsi per chiedere l'introduzione di regole che si oppongano alla costruzione di questi impianti e che si preoccupino di risolvere il problema all'origine, spingendo verso una politica del riciclaggio delle materie prime e degli imballaggi. Ma questo sistema incentiva il consumismo esasperato di beni, anche quando non sono necessari, con tutte le conseguenze che questo comporta sul grave problema dello smaltimento dei rifiuti, oltre naturalmente alle conseguenze per la salute dell'uomo, degli animali e dell'ambiente in cui viviamo.
Andrea M. Partito della Rifondazione Comunista (Vi)


INTERVISTA AD ALBERTO GRANADO
Il 12 febbraio di quest'anno Alberto Granado è venuto a Vicenza per un incontro, abbiamo così potuto rivolgergli alcune domande sulla sua amicizia con Ernesto Che Guevara e sulla sua esperienza a Cuba. D- Quando hai conosciuto Ernesto Guevara? R- Io ho sempre creduto nella gioventù ed è proprio grazie a questo mio modo di essere che ho avuto la possibilità di incontrarmi con Ernesto Guevara. Infatti, quando lo conobbi avevo 20 anni ed Ernesto 14. D- Cosa provi ad essere stato il più grande amico del Che? R- Diciamo uno dei grandi amici, non l'unico. E' una responsabilità molto grande, ho 78 anni e potrei starmene tranquillamente a casa a giocare a carte, ma l'essere stato suo amico mi obbliga a mantenermi nella lotta. E' una responsabilità e un onore. D- Vorremmo che ci spiegassi quali sono le ragioni che spinsero il Che a viaggiare e a lasciare la famiglia e la sua vita agiata. R- La risposta a questa domanda sta nella parola "Compagno". Un cosa che ripeto sempre è che la maggiore responsabilità che ha un amico di un uomo come il Che, è non dimenticare nulla e soprattutto non dimenticare che il Che non è Dio mitologico, bensì è un uomo in carne ed ossa. Nel nostro ambiente piccolo borghese lasciare la famiglia, la fidanzata, i progetti che la famiglia ha per noi non è una cosa facile, ma non c'è alternativa se si vuole andare avanti, come ha fatto il Che. Le teorie del marxismo-leninismo, l'ideologia di José Martí non danno da sole una risposta. La risposta si vede nel contatto con la gente, osservando ciò che ha prodotto e costruito il capitalismo e che l'umanità non voleva. Questa è l'esperienza che noi abbiamo fatto. Certamente bisogna ricordare che la materia prima di cui era fatto Ernesto Guevara era molto buona. La sua sensibilità gli permetteva di sentire come proprio ogni problema degli altri; Ernesto avvertiva la necessità non solo che il mondo dovesse cambiare, ma anche che lui dovesse essere lì in prima fila per dare una mano affinché questo cambiamento si verificasse. D- Come hai vissuto e come vivi oggi la rivoluzione cubana? R- Il 21 marzo del 1961 andai a Cuba, dopo essere stato l'anno precedente a visitare il Che, a conoscere Fidel e la rivoluzione. Quando arrivai a Cuba mi incontrai con un popolo valoroso che lottava contro l'aggressione dell'imperialismo americano e per me tutto è cominciato con la lotta dei medici cubani contro i tentativi di sottrazione da parte dell'imperialismo. Subito dopo la rivoluzione, gli USA avevano convinto un gran numero di medici a lasciare l'isola, perciò mi parve importante contribuire a formare un gruppo di scienziati in campo medico, chimico e biochimico. Tutta la vita abbiamo vissuto lottando, ma sempre abbiamo trionfato. A partire dal 1990 mi sono reso conto del notevole salto di qualità raggiunto da Cuba. Vi faccio un esempio: nel 1960 nell'isola c'erano 3.500 medici, nel 1990 50.000, oggi siamo in 60.000, da uno 0% di istituti di ricerca Cuba ha raggiunto un grosso prestigio internazionale nell'ingegneria genetica e nella genetica molecolare. Noi non siamo andati a Cuba per cercare un posto migliore o un lavoro più importante, ma siamo andati per aiutare il processo rivoluzionario, per formare personale specializzato e oggi, vedendo questi risultati, mi sento molto felice e molto orgoglioso di quello che è stato fatto. Inoltre, quanto più conosco il capitalismo, tanto migliore mi appare Cuba. Credo che la parola chiave in questo momento sia "socialismo", si deve resistere alla globalizzazione e trasformarla. Sono ottimista perché, per ogni persona che viene tentata dal capitalismo, ci sono centinaia di donne e di giovani che dimostrano di sapere cosa vuole dire vivere senza sfruttare e senza essere sfruttati; inoltre, mi rendo conto, ogni giorno di più, che Cuba continua ad essere un punto di riferimento per tutta l'America Latina. D- Che Guevara e il suo mito cosa rappresentano oggi per i giovani cubani? R- Noi cubani non lo vediamo come un mito, bensì il Che è quotidianamente e permanentemente dentro la vita di tutti quanti noi. Ritengo che il mondo abbia bisogno di svilupparsi e di migliorare e per fare questo sono necessari uomini nuovi ed il Che è l'uomo nuovo di cui il mondo ha bisogno. Disgraziatamente Ernesto Che Guevara aveva molte virtù e pochi difetti. Era fisicamente un bell'uomo, era intelligente, un buon poeta, coraggioso, capace di lasciare tutto per essere solidale con il popolo e soprattutto era un uomo onesto. Per queste ragioni i giovani pensano che sia impossibile essere come Che Guevara, viste le sue molte virtù. Ciò nonostante era un uomo. Questo per dire che molte delle cose che adornano la sua figura non sono tanto importanti e soprattutto non sono quelle che trasformarono Ernesto nel Che Guevara. Quelle che lo trasformarono nel Che sono tre cose che io chiamo "incapacità": la prima era la sua incapacità di mentire e di accettare le menzogne; la seconda era l'incapacità di accettare cose che non gli corrispondevano e la terza era l'incapacità di non andare avanti quando era l'ora di combattere, lui era sempre il primo, era l'esempio. Sono tre cose apparentemente semplici, ma in realtà molto difficili da praticare e tanto Ernesto come il Che erano così. Ernesto aveva queste incapacità a livello embrionale, mentre il Che le sviluppò completamente. In ogni sua azione fu sempre una persona molto coerente ed intransigente con se stesso e con gli altri. D- Vorrei sapere se l'idea del Che di portare la rivoluzione cubana in America Latina è ancora viva. R- Innanzi tutto bisogna dire che il popolo cubano aveva la sua rivoluzione e non voleva andare a fare la rivoluzione fuori dal suo paese, bensì c'erano persone di altri paesi, peruviani, venezuelani, cileni, argentini che credevano nella linea della lotta armata e venivano ad informarsi a Cuba. Può essere che qualche cubano sia andato volontariamente in altri paesi a lottare, però Cuba non ha mai mandato il suo popolo a combattere fuori. Sicuramente l'idea cubana della rivoluzione è stata esportata. D- Come vedi il futuro di Cuba? R- Noi siamo molto tranquilli, sappiamo bene che Fidel un giorno non ci sarà più, ma lui non è la sola persona che realizza tutto il processo rivoluzionario in Cuba; Fidel è un esempio, è una guida, un gran pensatore, un grande stratega, è il nostro uomo che sempre dà l'esempio, però la lotta contro il blocco non la fa lui da solo e l'impegno di tutti non si ha solo per volontà di Fidel, ma per libera scelta. Per questo siamo certi che, anche quando Fidel non ci sarà più, la rivoluzione continuerà secondo l'esempio del Che e di Fidel stesso. Sicuramente Cuba, ma anche il mondo, perderanno un grande uomo e un grande statista. D- Perché, durante il viaggio fatto con il Che, ad un certo punto vi siete separati? R- Il 31 dicembre del 1951 la mamma di Ernesto mi fece promettere che il figlio sarebbe ritornato a Buenos Aires per terminare gli studi in medicina. Io avevo questo impegno morale con sua madre e sapevo che avrei dovuto rispettarlo. Per questa ragione, quando nel luglio del 1952 a Caracas incontrammo un amico dello zio di Ernesto che stava ritornando a casa in aereo, lo convinsi a rientrare per terminare gli studi, con l'accordo che ci saremmo rivisti a Caracas dove io mi fermavo a lavorare. La vita andò in modo differente, avremmo dovuto rivederci dopo un anno, invece ne passarono otto, però avevo fatto questa promessa a sua madre e volli rispettarla. D- Come si lasciarono realmente Guevara e Castro quando il Che decise di andare a combattere in Africa? R- Quando Guevara decise di partire pochi lo sapevano. Fidel Castro scrisse al Che una lettera molto affettuosa con la quale gli chiedeva di tornare a Cuba, ma non c'era nulla da fare, il Che aveva deciso che era il momento di combattere per la rivoluzione in altre parti e nessuno avrebbe potuto fargli cambiare idea, neppure Fidel. D- Che cosa ne pensa il popolo cubano dell'insurrezione zapatista in Chiapas? R- Noi vediamo Marcos come una figura emblematica, ma con una linea completamente differente dalla nostra. Lui vuole ritornare alle radici del popolo Maya, noi vogliamo arrivare al socialismo. Marcos merita tutto il nostro rispetto, certamente per lui possiamo essere una fidanzata molto pericolosa, in quanto eventuali nostre dichiarazioni in suo favore verrebbero viste molto male dagli Stati Uniti. D- Un'ultima domanda riguardante la situazione dell'America Latina. In quel famoso viaggio avete preso coscienza della realtà dei singoli paesi; che cosa ti sembra sia cambiato oggi rispetto ad allora? R- Nel nostro viaggio ci scontrammo con lo sfruttamento non solo degli uomini, ma anche dell'ambiente, e se confrontiamo la realtà dell'epoca con quella attuale, ci rendiamo conto che la differenza sta nel fatto che oggi ci sono più ricchi, ma i poveri sono ancora più poveri. La mia valutazione è che l'America Latina stia peggio di quando l'abbiamo visitata noi, ma la fiducia che ho nei popoli mi dà la certezza che la lotta contro la globalizzazione e per il cambiamento di questa situazione continuerà.
Cristina Toffanin


Progredisce il vaccino cubano contro l'AIDS
Esiste la possibilità che nel giro di cinque/sette anni Cuba abbia un vaccino efficace contro l'AIDS. Questa nuova speranza riguardante la terribile malattia è stata fatta conoscere dal giovane scienziato cubano Carlos Duarte Cano durante il II Congresso Internazionale Identità, Patria ed Educazione in America Latina, che è appena terminato presso l'Università Autonoma Metropolitana di Città del Messico. Dopo aver osservato che la ricerca sull'HIV è una delle più complesse mai intraprese dalle scienze biologiche; che gli scienziati si trovano in una fase iniziale del processo; che è necessario sviluppare nuove tecniche e tecnologie per vincere questa malattia; che in un processo di indagine di questa natura non c'è la certezza di raggiungere le mete prefissate rispettando i tempi precedentemente stabiliti e che, forse, il primo vaccino non avrà tutta l'efficacia desiderata, lo scienziato ha espresso con la dovuta cautela una stima temporale di cinque-sette anni. Nonostante che incognite, l'affermazione del giovane biologo ha aperto una finestra di speranze davanti all'auditorio che ascoltava la sua brillante esposizione. Le parole di Duarte hanno una notevole importanza, perché lui è il Capo del Dipartimento AIDS presso la Divisione Vaccini del Centro di Ingegneria Genetica e Biotecnologica (CIGB), che, assieme all'Istituto di Medicina Tropicale Pedro Kourí e al Laboratorio di ricerca dell'AIDS cerca di decifrare gli enigmi del mortale microrganismo. Se il cauto ottimismo dello scienziato dovesse rendersi concreto, il risultato ottenuto si avvicinerebbe al pronostico fatto alcuni anni fa dall'allora Direttore del CIGB, dott. Manuel Limonta, che sostenne il fatto che Cuba avrebbe avuto un vaccino contro l'AIDS intorno all'anno 2000. Per convertire questo sogno in realtà, l'equipe cubana lavora seguendo due linee di ricerca. La prima si riferisce all'uso di anticorpi, che già era cominciata durante la prima fase di esperimenti clinici con esseri umani nel dicembre del 1996. La seconda strategia di indagine si riferisce ai cosiddetti vettori vivi, con i quali ci cerca di stimolare una risposta delle cellule T citotossiche al virus. Dai due versanti di questa strategia, denominati VVA-CR3 e ADN, si spera di ottenere vaccini che abbiano un effetto non solo preventivo, ma anche uno, migliorando la qualità e l'aspettativa di vita delle vittime di questo flagello. Questi tempi (da cinque a sette anni) possono sembrare molto lunghi di fronte a una malattia sofferta da 34 milioni di persone della società globale e che giornalmente produce 15 mila nuove infezioni , il 95% delle quali nel Terzo Mondo. Ciò nonostante, di fronte ai limiti terapeutici ed economici degli attuali trattamenti - che prolungano la vita senza riuscire a salvarla - l'affermazione dello scienziato cubano è di fondamentale importanza, perché apre alla possibilità di utilizzare il procedimento medico più efficace che si sia incontrato nella storia della medicina preventiva: "la stimolazione del sistema immunitario contro gli agenti patogeni", che appare l'unica maniera reale per sconfiggere l'HIV. Potrà sembrare paradossale che le speranze dell'umanità di fronte all'epidemia dell'HIV poggino, in buona parte, sulla volontà, la capacità e le conoscenze degli scienziati di questa piccola isola dei Carabi, il cui lavoro è sistematicamente bloccato dal governo degli Stati Uniti e dalle multinazionali farmaceutiche del Primo Mondo che vogliono proteggere i loro mercati. Ciò nonostante, quando gli scienziati dell'Istituto Finlay de La Habana decisero di sviluppare un vaccino contro la meningite B, lo scetticismo relativo non fu minore. Fino ad oggi, questo vaccino è il più efficace esistente al mondo per la cura di questo tipo di meningite. Comunque è certo che questa impresa scientifica della biotecnologia e della medicina cubana, che non hanno pari in nessun paese dell'America Latina né del Terzo Mondo, costituisce una fonte legittima di speranza per i malati di AIDS di tutto il mondo. E, nello stesso tempo, è un orgoglio della scienza latino-americana e prova esauriente del fatto che questo "piccolo genere umano", come Bolívar chiamò i cittadini della Nostra America, è capace di competere in qualunque campo della scienza e dell'arte con il Primo Mondo, sempre che abbia uno Stato sovrano e una direzione onesta.
Traduzione di Cristina Toffanin


UN GOVERNO SERVILE AI "GRINGOS"
L'Accordo di cooperazione tra le Forze Armate degli Stati Uniti e le Forze Armate del Guatemala è la vergogna storica del nuovo millennio. Il solo fatto di permettere che entrassero militari nordamericani come "turisti" e che poi i deputati servili si siano messi ad approvare il sopra citato accordo evidenzia la mancanza di vergogna e l'irriverenza per la sovranità nazionale dell'attuale governo. Il contenuto dell'accordo tra i due eserciti è un insulto alla nazione, a tutti i guatemaltechi, e solamente un governo servile può pretendere che si dia legalità a un fatto compiuto. I "gringos" si trovano ormai nel territorio nazionale. Adesso i deputati del FRG (Fronte Repubblicano Guatemalteco) cercano disperatamente di approvare questo accordo in Parlamento. Non hanno voti sufficienti perché ci sono deputati che non accettano di votare in favore della sua approvazione, per dignità e per patriottismo. Mi ha raccontato un deputato del FRG che altri non hanno accettato perché non "gli hanno offerto abbastanza". L'ex generale genocida Efrain Ríos Montt, specializzatosi nella distruzione di villaggi maya fino alle fondamenta e campione di crimini di lesa umanità, ha la coda ammaccata e sicuramente si sente obbligato ad approvare l'iniziativa di legge avviata dal Presidente della Repubblica, per ingraziarsi i nordamericani. Un deputato del FRG a Libre Encuentro ha affermato che si stava legiferando con "qualità ed efficienza" all'interno del Parlamento della Repubblica. In quel momento segnalai che i nordamericani avevano chiesto di togliersi la camicia e loro, gli efferregisti, si erano abbassati i pantaloni. I decreti legge 23-2000 e 62-2000 hanno autorizzato l'ingresso di specialisti "gringos", con il pretesto di combattere il narcotraffico. I nordamericani hanno chiesto l'ingresso di poco più di 50 ufficiali ed i deputati si sono accordati per l'ingresso di oltre 100 dei loro. Adesso si argomenta che verranno a partecipare a manovre congiunte, ad attività di costruzione di strade e sentieri nel Petén. Il Capo del Commando Sud dell'esercito nordamericano ha riconosciuto in pubbliche dichiarazioni che le sue truppe potranno arrivare ad essere di 12.000 effettivi in Guatemala, cosa che tecnicamente è una invasione. Tale quantità di effettivi yankis costituirebbe unità dell'esercito meglio addestrata, meglio equipaggiata, finanziata e numerosa nell'area nord del Guatemala, alla frontiera con il Messico. E' ciò che chiamano " force show " (dimostrazione di forza) nella zona che confina con il Chiapas, dovel'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale ha il suo maggiore sviluppo. Impossibile porre unità nordamericane armate in Messico per il naturale rifiuto e la sensibilità nazionalista messicana. Per questo si appoggiano su governi servili al sud del fiume Usumacinta.
César Montes-Traduzione di Alessandro Folghera