La Fucina N. 25 - MARZO 2001
La Fucina
 
Sommario:  
  Momenti di elezioni (A.Z.)
  COLOMBIA: Balcanizzazione o Vietnamizzazione del Conflitto? (A.Folghera)
  BOBBY SANDS (Gianni Sartori)
  Appunti di viaggio da Napoli a Genova (Elia Rosati)
  La Dignità Indigena (Alessandro Folghera)
 

Momenti di elezioni (A.Z.)
Perdere terreno per lasciarlo agli avversari è una grave colpa; parliamo di questa sinistra che ci governa malamente da alcuni anni, di una sinistra centrista e liberista, povera di contenuti e di quegli orientamenti di fondo costitutivi per chi si identifica con una certa sinistra alternativa. Do per scontato ogni tipo di analisi sulle manovre ridicole e populiste della destra capeggiata da Berlusconi, pericolosa sotto ogni aspetto, pensiamo solo ai libri di testo da riscrivere o alle varie censure urlate alla satira e ancora alle minacce al movimento antagonista che in luglio sarà a Genova. Insomma, non un quadro felice e spensierato; al suo posto invece la prospettiva di una regressione politica, civile e sociale di tutta la situazione italiana, di un degrado e di una perdita di quei valori e conquiste del compromesso sociale del dopoguerra. La destra, sotto le diverse forme parlamentari e movimentiste, costituisce un pericolo reale, da combattere, soprattutto perché si è costituita intorno ad un blocco politico e sociale forte e unito (Forza Italia-Lega-Alleanza Nazionale), un’unione che sembra andare oltre la semplice intesa elettorale, e in questo sta la sua forza. L’allarme delle destre che avanzano ha portato la sinistra, anche quella antagonista, a costituire un fronte unito, legittimato dal solo desiderio di fermare il pericolo, ricalcato sulle linee del ‘94, quando le forze di sinistra concorsero alla caduta di Berlusconi. Ma molte cose sono successe da allora; in questi anni la sinistra che ora dovremmo riconfermare è venuta allo scoperto e ci ha dato prova delle sue reali intenzioni e aspirazioni. Prima di tutto l’aspirazione guerrafondaia; ricordiamo tutti i bombardamenti Nato "in nome dei diritti umani", ai quali l’Italia ha partecipato senza pudori, per aiutare l’occidente a sbarazzarsi del cattivone di turno Milosevic, sacrificando per questo nobile scopo un’intera popolazione sottoposta per 78 giorni a bombardamenti selvaggi, i cui effetti sull’ambiente e sulla salute dell’uomo si trascineranno per molti anni. Per me basterebbe questo, ma visto che ci siamo vorrei ricordare altre aspirazioni del governo D’Alema e Prodi: l’aspirazione all’americanizzazione del paese (lo vogliamo veramente questo maggioritario che ci obbliga a scegliere tra due schieramenti praticamente uguali?), l’aspirazione neoliberista (corsa alle privatizzazioni, finanziarie che hanno come unico scopo di farci restare in Europa, lavoro precario, flessibilità e quant’altro di brutto vi venga in mente), e per aggiungere ma non completare la lista, ricorderei il favore fatto alla Turchia rifiutando l’asilo ad Ocalan, le manovre per rendere la scuola un ufficio di collocamento, la dura repressione messa in atto a Napoli contro i manifestanti. Per tutto questo e altro ancora, sia che vinca Berlusconi, sia che vinca Rutelli, si preparano tempi duri, e queste elezioni non ci danno nessuna possibilità di fermare il processo di deriva a destra, cominciato con la sinistra. Un triste paradosso. Lo stesso Prc, presentandosi da solo al proporzionale, ci dà la misura della difficoltà di esprimere un voto che porti un minimo di contraddizione dentro il sistema. Ma la nostra lotta non si deve fermare, proprio perché voce contro, per sottrarsi a queste logiche neoliberiste e globalizzanti, riaffermando la nostra identità culturale, i nostri valori, contro il dominio culturale e militare degli USA. Questo significa anche costruire dei reali momenti di unione, delle reti di comunicazione con quelle forze antagoniste, gruppi o persone, che in Italia coltivano il pensiero anticapitalistico, pur nella crescente repressione e criminalizzazione. Per tutti noi il vero problema non è chi votare, chi non votare, ma difendere queste nostre libertà, ora e sempre.
A.Z.


COLOMBIA: Balcanizzazione o Vietnamizzazione del Conflitto? (A.Folghera)
Mentre l’Unione Europea si appresta a donare alla Colombia altri 400 miliardi (che si aggiungono alla donazione di 1600 miliardi, stabilita nella riunione di Madrid del 7 luglio scorso), gli Stati Uniti continuano ad avanzare nella epocale invasione dell’America Latina ed in particolare della Colombia, porta d’entrata del continente sudamericano. La Colombia è avvolta in un cordone "sanitario" sempre più minaccioso. Così registriamo basi aere gringhe nelle isole olandesi di Aruba e Curazao, in quella di Roosvelt Roads (Portorico), presso la Baia di Guantanamo (Cuba), a Liberia (Costa Rica) ed a Soto Cano (Honduras). A queste si aggiungono le basi più recenti, strettamente legate al Plan Colombia: Iquitos (Perú), Manta (Ecuador), Tres Esquinas (Colombia). All’ormai tristemente famoso Plan Colombia si unisce poi ciò che oggi è conosciuto come l’Iniziativa Andina, progetto che spinge per un coinvolgimento diretto dei paesi circostanti la Colombia nel conflitto colombiano. Così, oltre ai 1300 milioni di dollari destinati dal governo nordamericano al Plan Colombia, si aggiungono 550 milioni spesi per convincere Ecuador, Perú e Venezuela a concedere spazi per "operazioni umanitarie" coordinate da forze armate statunitensi, sempre con il pretesto della lotta al narcotraffico. E’ così che la base di Manta, in Ecuador, ha visto l’arrivo di 150 marines, un investimento di 40 milioni di dollari e la nascita della Scuola della Selva di Coca, dove i nordamericani addestrano militari brasiliani, colombiani ed ecuatoriani in tecniche di contro-guerriglia e guerra sporca (leggasi impiego di forme di tortura efficaci ed efficienti). Per non dimenticare le sperimentazioni nordamericane del terribile fungo transgenico Fusarium Oxysporum nella zona di Sucumbíos. Accanto a tutto ciò vi è poi un progetto più ampio, chiamato Nuovi Orizzonti che, secondo dati dello stesso Comando Sud dell’Esercito degli Stati Uniti, potrebbe portare da qui a settembre circa 200.000 uomini nordamericani in tutto il Continente. Ufficialmente gli SU parlano di "una serie di attività di assistenza umanitaria e di addestramento militare", ma la verità è un’altra. In questo scenario è da leggersi l’arrivo di 400 militari statunitensi in Guatemala, al confine con il Chiapas. O ancora la presenza di 400 militari nordamericani in Paraguay, a Concepción che stanno addestrando un ugual numero di militari paraguayani ed argentini. Oltre a tutto ciò è bene ricordare la presenza di 2000 marines in Honduras che negli ultimi mesi hanno ripreso attività di addestramento e manovre, la creazione di un Centro Regionale Antidroga nel Salvador ed i 350 milioni di dollari ricevuti dal Costa Rica per un accordo di pattugliamento congiunto, sempre con gli SU. Altrettanto preoccupante è ciò che si muove al di là di quanto viene reso pubblico. Così è stata passata sotto silenzio, ad esempio, la morte di un giovane nordamericano che lavorava presso la base nordamericana di Tres Esquinas. Di per sé nella morte di un medico nordamericano non ci dovrebbe essere nulla di allarmante, ma ciò che richiama l’attenzione di un attento lettore è che il giovane lavorava per la DynCorp, una impresa privata della Virginia che impiega ex militari nordamericani (in prevalenza ex veterani del Vietnam) per ogni tipo di missione … ovvero una impresa di mercenari. Ed è proprio in Colombia che questi stessi mercenari nordamericani stanno addestrando le squadre antinarcotici dell’esercito regolare. Come denunciato nel fabbraio scorso da molte testate giornalistiche di tutto il mondo la DynCorp opera nell’ambito del programma antinarcotici del governo colombiano già dal 1997, offrendo piloti, addestratori e personale generico che riceve compensi dell’ordine di 90.000 dollari a missione. Altra impresa che opera da tempo in Colombia è la MPRI (Military Professional Resources Inc), una impresa che è stata contrattata per 12 miliardi l’anno dal Dipartimento di Difesa degli Stati Uniti. Anche questa impresa è composta da ex generali e militari. Ovviamente gli Stati Uniti non possono rischiare in Colombia uomini propri, uomini del proprio esercito, anche per una serie di interne leggi. Ed è per questo che il lavoro "sporco" viene "subappaltato" alle imprese private. La stessa pratica è adottata per altro dall’esercito regolare colombiano, che addestra ed utilizza i paramilitari per le operazioni più abominevoli. Così è stato per il recente massacro nell’Alto Naya, nel dipartimento del Cauca. Qui oltre 50 persone, in prevalenza indigeni paeces, sono state uccise ed i loro corpi fatti a pezzi con le motoseghe. Ovviamente a sporcarsi le mani sono stati i paramilitari delle AUC (Autodefensas Unidas de Colombia), ma è innegabile la connivenza dell’esercito nel Cauca come negli altri dipartimenti. Sul versante della resistenza, l’escalation militare ha imposto anche alle guerriglie di articolare una resistenza più unitaria possibile. Così si possono segnalare i 30 paramilitari abbattuti nei primi quindici giorni di aprile nella zona del Magdalena Medio, che ha visto operare fianco a fianco FARC ed ELN. O ancora le operazioni sviluppate sempre congiuntamente nell’area del dipartimento di Bolívar, dove i parmilitari morti nei primi giorni di aprile sono stati circa 70. Ed i processi di pace? Per il momento avanzano nel disinteresse dei molti soggetti coinvolti, perché il futuro non sembra camminare verso la pace: le contraddizioni si fanno sempre più pesanti, la gente sempre più povera e la lotta sempre più aspra.
Alessandro Folghera


BOBBY SANDS (Gianni Sartori)
1981- 2001: VENT’ANNI DOPO BOBBY SANDS RESTA UN MARTIRE DELLA LIBERTA’
Il cinque maggio del 1981, esattamente vent’anni fa, in seguito allo sciopero della fame, all’età di soli ventisette anni moriva Robert (Bobby) Sands. Fu il primo dei dieci militanti repubblicani vittime della protesta attuata per rivendicare la loro identità di prigionieri politici. Bobby era nato a Rathcoole (nord Belfast) nel 1954 da una famiglia non particolarmente impegnata politicamente (da madre cattolica e padre protestante) e viveva in un quartiere a maggioranza protestante. Durante gli anni dell’adolescenza Bobby conobbe di persona la repressione, gli attacchi lealisti, la perdita continua dell’occupazione (lavorò soprattutto come apprendista meccanico in qualche carrozzeria) che caratterizzano la vita di un gran numero di giovani proletari cattolici. Schedato come "sospetto" già all’età di quattordici anni, nell’autunno del 1972, a diciotto anni, aderì all’Ira Provisional. Appena un mese dopo venne arrestato e condannato a tre anni da scontare a Long Kesh. Erano i giorni dello "Special Category Status" e Bobby seppe impiegarli proficuamente: studiò l’irlandese con passione e lesse accuratamente le opere di Che Guevara, Fanon e Jackson. I compagni di prigionia lo ricordano come dotato di una grande personalità, un compagno che funzionava da catalizzatore nelle discussioni. In libertà nell’aprile del ’76, si sposò ed ebbe un figlio; Gerard. A Twinbrook, dove viveva, si impegnò a fondo a favore della sua comunità: aprì una sede locale del Sinn Fein e della Croce Verde per assistere i prigionieri politici repubblicani. Nell’ottobre 1976 venne coinvolto con Joe McDonnel nell’attentato al Balmoral Forniture Company. Condotto al famigerato Centro per gli interrogatori di Castlereagh, vi subì la tortura e fu condannato a quattordici anni per il possesso di una pistola. Nel settembre 1977 venne trasferito al Blocco H di Long Kesh (prigioniero n. 1066) dove si unì immediatamente alla "protesta della coperta". Ritenendo che fosse necessario informare e coinvolgere il più possibile la gente all’esterno sui problemi dei detenuti, cominciò a scrivere lettere e a scrivere articoli al Republican News, il giornale del Sinn Fein. In carcere si prodigò per appianare le divergenze tra militanti dell’Ira e dell’Inla, convinto che per riportare una vittoria nella campagna per lo "status di prigioniero politico" bisognasse avere una stessa strategia unitaria. La sera del 27 gennaio 1981, i 96 prigionieri coinvolti nello spostamento d’ala dei blocchi H3 e H5 si ribellarono dopo che la direzione del carcere si era rifiutata di restituire i loro abiti ( un modo per costringerli a indossare l’uniforme dei detenuti). Cominciarono a distruggere sistematicamente mobili, suppellettili e finestre delle celle. La risposta fu brutale. Furono rinchiusi nelle celle appena abbandonate dagli uomini –coperta con i muri ricoperti di escrementi e i pavimenti di acqua, urina e cibo. Furono costretti a restarsene in quelle celle senza coperte e materassi. Prima di dare inizio allo sciopero della fame Bobby si preoccupò di risolvere questa situazione e solo dopo che i prigionieri erano stati trasferiti ( il 1° marzo) cominciò a rifiutare il cibo. Contribuì di persona alla stesura della dichiarazione che annunciava l’inizio del nuovo sciopero della fame: "Noi, i Repubblicani Pows (Prigionieri di Guerra, ndr), nei blocchi H di Long Kesh e le nostre compagne nella prigione di Armagh, con la presente chiediamo lo status di detenuti politici. Rifiuteremo oggi come abbiamo costantemente rifiutato ogni giorno dal 14/9 1976 , quando iniziò la protesta della coperta, i tentativi del governo inglese di criminalizzare le nostre lotte". L’11 marzo 1981 il Comitato Nazionale del Blocco H sollevò il problema dei prigionieri alla Commissione dei Diritti Umani a Ginevra. Il 23 marzo Bobby Sands venne trasferito dall’H3 all’ospedale della prigione per tentare di isolarlo. Venne presentato come candidato nazionalista per Fermanagh South Tyrone al seggio di Westminster, vacante per la morte di F. Maguire. Sebbene fosse molto debole dopo un mese di sciopero della fame, si impegnò a fondo durante la campagna elettorale e venne eletto. Ormai completamente cieco, senza riflessi, paralizzato a metà e coperto da piaghe da decubito ( il suo peso era sceso da 60 a 40 chili) morì dopo due giorni di coma, alle 1 e 15 del mattino del 5 maggio 1981, nell’ospedale della prigione di Long Kesh. I funerali si svolsero nella chiesa di San Luca (Twinbrook W.Belfast) e vi parteciparono circa centomila persone, e tra questi anche sei parlamentari europei. L’Ira gli rese gli onori militari. E’ sepolto a Milltown.
Gianni Sartori (Lega per i diritti e la liberazione dei popoli)


Appunti di viaggio da Napoli a Genova (Elia Rosati)
Solo tre mesi. Quelli che ci separano dalle mobilitazioni contro il G8 di luglio: un appuntamento importante, non decisivo, ma che era già considerato un evento da non perdere ben prima di "Seattle", dell’elezione di Bush, delle vigliacche guerre umanitarie degli U.S.A., del Protocollo di Kyoto, delle insulse elezioni politiche italiane. Ciò nonostante, l’ala contestatrice (trovarle un nome che vada bene a tutti è impossibile) sembra attraversare un momento di stasi, che a volte degenera in un confusionario "ci saremo, a Genova; ma lì, che fare?". Come sempre tv, giornali, politici di vario colore e qualche stupido lillipuziano, esagitati dalla campagna elettorale, continuano a parlare di calata dei barbari su Genova, di teppisti itineranti, di terroristi (quadro che si completa aggiungendo qualche bombetta di Stato o qualche rapporto allarmato del fascista Frattini). Nell’ambiente dei "barbari", invece, è molto di voga parlare di "gruppi di affinità", intesi a creare ‘reti’ in base a metodi di azione, visioni teoriche, fini e obiettivi. Deprecabili sono solo alcune vigliacche dichiarazioni di "dissociazione" dell’ala cosiddetta pacifista, espresse all’indomani del No Global Economic Forum di Napoli. Facendo un passo indietro, e pensando per l’appunto alla mobilitazione di metà marzo - quella che ha visto scendere per le strade della città partenopea un numero impressionante di manifestanti (almeno trentacinquemila) – non si può che esaltarla: una mobilitazione splendida (in particolare l’M17, il corteo internazionale), ricchissima di soggetti radicalmente determinati a lottare contro il Capitalismo per un mondo diverso; e in particolare un numero veramente elevato di immigrati e di disoccupati. Indubbiamente, eravamo a Napoli, città ricca di contraddizioni economiche e di fermento sociale; nondimeno, è doveroso un ringraziamento ai compagni della Rete No Global che con un lavoro minuzioso ed efficace sono riusciti ad organizzare tutte le manifestazioni: dalla street parade ai due treni speciali, dal netstrike della borsa all’aggiornatissimo sito-web, dalla sistemazione logistica dei manifestanti al corteo. Non a caso, qualche compagno, stanco di sentirsi apostrofare come "Popolo di Seattle", proponeva di definirsi, aggiungo io orgogliosamente, "Popolo di Napoli". E non è un caso che l’evento abbia talmente infastidito i potenti da ordinare un autentico massacro da parte della polizia; altro dato da tenere ben in conto pensando a Genova, e per il quale bisogna ringraziare il democratico ministro del centro-sinistra Enzo Bianco, rispetto a cui Fini e Berlusconi non avrebbero saputo far di meglio. Quindi prepariamo gli zaini per il contro-G8, senza preoccuparci troppo dell’agibilità democratica o di creare inutili distinzioni tra dimostranti buoni e cattivi: sono tutti problemi di chi non ha Napoli alle spalle e vuole più "democrazia" nel Capitalismo. Solo un illuso può pensare che un movimento teso a cambiare lo stato di cose presenti possa essere politically correct o accontentarsi di un palazzetto in cui riunirsi, magari gentilmente concesso dal comune, per evitare manifestazioni o tollerare la stessa esistenza di una "zona rossa" al cui interno otto persone discutano dello sfruttamento nel mondo…! Mentre chiudo questo articolo mi passano davanti agli occhi le immagini di Quebec City: meno male che certi problemi se li pone solo qualche italiano, che ha come massima aspirazione la rettifica del Protocollo di Kyoto o la cancellazione del debito.
Elia Rosati


La Dignità Indigena: non solo Ecuador, ma anche Bolivia e Cile (Alessandro Folghera)
In quest’inizio di millennio i mezzi di comunicazione occidentali hanno mantenuto il loro servilismo verso i dettami del sistema, vendendo un’immagine del mondo pacificata e facendo così intendere che questo neoliberismo è un destino ineludibile che attende tutti i popoli della Terra. Così, le proteste degli indios dell’Ecuador sono passate quasi inosservate, relegate anche dalla stampa di tutta la sinistra (parlamentare e non) in qualche trafiletto da leggersi con la lente di ingrandimento. Nessuna notizia è invece apparsa su altre due realtà importanti: quella contadina ed indigena della Bolivia e quella mapuche, in Cile. Nei tre paesi dell’America del Sud assistiamo ad un processo storico che viene assolutamente ignorato dalla sinistra europea, troppo presa a filosofeggiare con parole come "rivoluzione" e "socialismo". Eppure dal 1994, quando Marcos e gli zapatisti fecero aprire gli occhi al mondo occidentale sull’esistenza degli indios come soggetto politico e sociale, i movimenti indigeni hanno dimostrato di essere cresciuti e di costituire oggi, per molti paesi, l’unica alternativa ad un neoliberismo affamatore e genocida. Così in Ecuador il debutto dei popoli indigeni nello scenario politico del paese ha le sue origini nella famosa "sollevazione dei ponchos" del giugno del 1990. Negli anni successivi le mobilitazioni del movimento indigeno, fondate su richieste specifiche, hanno progessivamente aumentato il coinvolgimento della popolazione, non solamente indigena. Così nel 1992 la mobilitazione della OPIP (Organizzazione dei Popoli Indigeni di Pastaza) riusciva ad ottenere migliaia di ettari di terre per i popoli Shuar e Kichuas, nel 1994 il movimento indigeno otteneva la promulgazione della Legge Agraria e nel 1997 la destituzione di Abdullá Bucarám, per arrivare alla sollevazione del 2000 che portò alla creazione di un governo provvisorio che durò appena 8 ore. Quanto è accaduto qualche settimana fa è sicuramente frutto delle scelte obbligate di un Presidente della Repubblica dell’Ecuador asservito ai grandi capitali di una borghesia avventuriera ed agli investitori stranieri che esigono migliori condizioni per "investire" le loro "ricchezze" nel paese andino. I dettami del Fondo Monetario Internazionale si esprimono ovunque allo stesso modo: esigendo la ormai nota "modernizzazione" dello stato, ovvero, lo smantellamento dello stato sociale, la privatizzazione delle risorse strategiche del paese (petrolio e legname soprattutto), dei servizi essenziali come salute, educazione, comunicazioni, la flessibilizzazione delle condizioni lavorative (l’abolizione dell’ormai "obsoleto" diritto di sciopero, della contrattazione collettiva, ecc..) oltre che un taglio alla spesa sociale (creazione di forme pensionistiche private). Questi sono esattamente i contenuti delle leggi che Gustavo Noboa esprimeva nei suoi due progetti di legge, noti come TROLE II e TROLE III. Per far ingurgitare un rospo amaro, l’indecenza di chi governa sceglieva persino un nome simpatico per delle leggi impopolari. Ma ai popoli dell’Ecuador era bastata la prima legge, quella della Dollarizzazione (TROLE I) per capire quanto amara potesse essere questa parola. E’ stato così che di fronte a queste misure economiche impopolari, la CONAIE (Confederazione delle Nazionalità Indigene dell’Ecuador) convocava per il 22 gennaio una grande mobilitazione in tutto il paese, ottenendo il consenso e la partecipazione delle altre federazioni indigene, tra cui la FENOCIN (la Federazione Nazionale delle Organizzazioni Contadine, Indigene e Negre) e la FEINE (federazione indigena di ispirazione evangelica). La risposta del governo non si è fatta attendere. L’esercito sparava contro la folla, contro le migliaia di persone che in ogni angolo del paese procedevano a bloccare ogni via di comunicazione. Il bilancio di soli 6 morti e 30 feriti da arma da fuoco avrebbe potuto essere peggiore. Parallelamente però per le strade scendeva un altro blocco sociale importante per lo scenario ecuatoriano, quello del Fronte Patriottico, aggregazione che vede la partecipazione di organizzazioni sociali, politiche, contadine e con una piccola minoranza indigena, che convocava lo sciopero generale per il 7 febbraio. La mancanza di coordinamento tra i due blocchi ha sicuramente favorito la salvezza del governo Noboa. E’ stato così che poche ore prima dell’inizio dello sciopero generale, il governo Noboa si è seduto al tavolo delle trattative con la CONAIE, firmando un accordo che prevede, tra le altre misure, il congelamento dei prezzi dei combustibili, sconti per studenti, bambini ed anziani sui trasporti pubblici, un aumento dei finanziamenti per gli organismi di sviluppo della questione indigena, oltre che il ritiro dell’Ecuador dall’aberrante Plan Colombia. La risposta allo sciopero del Fronte Patriottico, le cui richieste erano molto più radicali di quelle delle organizzazioni indigene, non si è fatta attendere. E’ stato così che circa 250 dirigenti delle organizzazioni sociali che fanno parte del Fronte sono stati arrestati insieme a numerosi cittadini comuni che manifestavano. Per quanto oggi tutto sembra essere tornato alla normalità, le questioni sollevate dal movimento indigeno e le imposizioni del Fondo Monetario Internazionale non tarderanno a produrre nuove e sempre meno conciliabili contraddizioni. L’augurio è ovviamente che il Fronte e le Organizzazioni Indigene possano trovare l’unità nello sforzo di bloccare l’avanzata neoliberale. Pochi giorni dopo la situazione precipitava in Bolivia. Qui l’ex comandante guerrigliero dell’Esercito Guerrigliero Tupaj Katari, Felipe Quispe Huanca, un indio aymara, è tornato alla ribalta della scena politica, fondando il Movimento Indigeno Pachacuti. La situazione boliviana è caratterizzata da una economia povera che vede una parte della popolazione contadina ed indigena impegnata nella coltivazione della pianta della coca, come unica forma di sopravvivenza. La scelta dell’attuale governo è quella di porre fine a tutto ciò, manu militari. Così, il sequestro di 9.000 litri di carburante(che secondo la polizia sarebbe stato impiegato per processare la coca -importato illegalmente dal Cile) insieme all’arresto dei contadini sopresi a trasportare tale carburante ha provocato le proteste di molti contadini ed indios. Sono rimaste bloccate così, per varii giorni, le vie d'accesso a Santa Cruz e la via che collega La Paz a Potosí. A Shinaota (Chaparé) la polizia sparava sui contadini, secondo quanto ha denunciato il deputato Evo Morales (cocalero). A Santa Cruz, invece, 5.000 contadini penetravano in tre stabilimenti d'estrazione del petrolio in protesta al mancato compimento della promessa del governo locale di riparare le strade della zona. In una recente intervista, Felipe Quispe, che oltre a essere promotore del MIP è anche segretario esecutivo della Centrale Unica Sindacale dei Lavoratori Contadini della Bolivia (CUSTCB), ha evidenziato la necessità del movimento indigeno boliviano di dotarsi di uno strumento politico ed ideologico, per entrare nella disputa col potere politico, per recuperare quello che era la Nazione Qullasuyana, ovvero il diritto alla salvaguardia della propria cultura e a forme proprie di autogoverno e di autonomia. Anche in questo caso sembrano inconciliabili le esigenze fondomonetariste del governo di La Paz, con le rivendicazioni indigene e lo scenario futuro non può che essere conflittuale, come previsto dallo stesso ex guerrigliero boliviano. Scendendo lungo le Ande, arriviamo in Cile. Qui il governo deve garantire l’apparenza della democrazia; è così che si procede ad applicare le Leggi Anti-Terrorismo (fatte a suo tempo da un governo avanzato in materia, come quello italiano) nei confronti dell’unico soggetto che oggi in Cile pone in discussione il sistema neoliberista, ovvero, il popolo Mapuche. La storia dei Mapuche è una non storia, dal momento che la storia la scrivono i vincitori. Il dramma Mapuche non inizia propriamente con la "conquista" degli spagnoli, ma con la nascita dello stato cileno, con l’avvento della Repubblica cilena. E’ così che ciò che si conosce come la "Pacificazione della Araucania" (una guerra di invasione e sterminio) ridusse la popolazione Mapuche da 1 milione a sole 600.000 persone. La "Pacificazione" non solo ridusse la popolazione ma anche le terre mapuche, da 10 milioni di ettari a solo 500.000 ettari. Dal 1884 al 1919 si provvide poi a confinare 80.000 mapuches in 3000 riserve, mentre 40.000 rimasero senza un posto dove risiedere. Dello sterminio "finale" dei mapuches si ha testimonianza nel primo censo indigeno del 1907, quando i mapuches risultarono essere 107.000. Già nel 1970 le sorti sembravano cambiare, indicando l’esistenza di 700.000 mapuches in Cile, con un terrritorio di circa 350.000 ettari. L’isola felice per i mapuches inizò nel 1972, con il governo dell’Unità Popolare che emanò una legge di Riforma Agraria che in parte li beneficiava. Il 1973 si portò però via tutto, con gli interessi. Già negli anni 80, le trasformazioni messe in atto dalla dittatura pinochetista, tra cui la sostituzione dei titoli di proprietà indigena (quindi aventi statuto speciale) con titoli individuali di proprietà (quindi che prevedevano la possibilità della loro alienazione), imposero la necessità per i mapuches di organizzarsi. E’ però solo dopo il 1997, quando le organizzazioni mapuches iniziano a rendersi indipendenti dai partiti politici (di destra come di sinistra) ed iniziano a rifiutare il contentino della Legge Indigena (una legge rimasta sempre e solo sulla carta), promulgata con il passaggio del Cile da dittatura e "democrazia", che le iniziative mapuches iniziano ad assumere peso nello scenario politico cileno. I mapuches hanno dovuto affrontare negli ultimi anni le conseguenze della modernità: l’invasione dei propri territori da parte della impresa spagnola ENDESA che vuole realizzare un complesso di 6 centrali idroelettriche, o ancora il progetto di costruzione di un’autostrada da Arica a Puerto Montt (il progetto dell’opera è di Pinochet ed è strategico nell’annientamento e nell’assimilazione culturale della diversità mapuche). Di fronte alle rivendicazioni mapuche di terre per le comunità (terre che dovrebbero essere di diritto loro ed essere anche inalienabili), la risposta dell’attuale governo, che di "socialista" ha forse solo il nome, è stata quella dell’applicazione delle Leggi Anti-Terrorismo e di quelle sulla Sicurezza Interna dello Stato, utilizzate per annientare la resistenza popolare, quella che si esprimeva con le armi alla mano nelle milizie rodriguiste ed in altre organizzazioni popolari. Lo scontro in questi giorni è arrivato al suo apice, forse anche perché per i mapuches è in gioco la loro stessa sopravvivenza, mentre dall’altra parte sono in gioco gli interessi delle grandi imprese di estrazione del legno. Così la risposta dei mapuches alle cariche dei carabineros, ai pestaggi di donne e bambini non si è fatta attendere. E dalle fionde si è passati alle molotov contro le strutture delle imprese usurpatrici. Il governo ha allora proceduto all’arresto di vari dirigenti mapuches, lasciando l’altra parte del lavoro ai mezzi di comunicazione. I mezzi di comunicazione hanno ingigantito l’aspetto violento della resistenza mapuche, andando a creare un parallelismo tra il Chiapas dell’EZLN e l’Araucania dei Mapuches. Così la stampa ha imbastito favole per la popolazione cilena, sottolineando presumibili vincoli tra i mapuches e le organizzazioni che hanno combattuto in armi la dittatura, in particolare quella del Fronte Patriottico Manuel Rodríguez. Il recente ritrovamento da parte delle forze dell’ordine di un deposito di armi (30 fucili M16 ed una ventina di lanciagranate) presso Reñaca Alto sbattuto in prima pagina, aiuta a creare quell’allarme diffuso tra la popolazione dei rischi di un crescente terrorismo, di un possibile nemico interno. Questo è l’unico espediente che ha il governo Lagos per giustificare l’esistenza di una gustizia militare (contravvenendo a tutti i trattati di diritto internazionale in materia) o ancora di una legge aberrante come quella della "detenzione per sospetto", legge che concede alle forze di polizia di mantenere qualsiasi persona segregata in una caserma per 5 giorni, prolungabili di altri cinque. Una legge che vede ogni anno coinvolge circa 200.000 giovani che molto spesso vengono torturati senza ragione alcuna (le denunce per maltrattamenti con utilizzo di corrente elettrica, immersione forzata in vasche con escrementi e urine, ecc.. sono ogni anno superiori a cento). Anche il Cile, quindi, è un paese ... pacificato. Ma vale la pena sottolineare come i Mapuche, malgrado il senso comune li veda come un gruppo etnico già estinto, oggi siano il 10% della popolazione cilena (circa 1.282.200, ai quali vanno sommati 200.000 aymará) e che non sarà facile per le multinazionali annientare il loro diritto ad esistere e resistere. La disinformazione continuerà, ma cercheremo di dare voce a chi non ce l’ha. Perché la pace che vogliamo non è quella dei sepolcri per i fratelli e le sorelle indios. A voi la scelta con chi schierarvi.
Alessandro Folghera
Comitato Internazionalista Arco Iris