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DESSAU

 

La campagna saccarifera volgeva al termine, lo si vedeva anche dal diradarsi dei carretti, e si cominciò a presumere che per noi ci sarebbe stato un altro trasferimento. Si era lavorato ancora per qualche giorno alla pulizia e riassetto dello zuccherificio e poi partenza.

Questa volta sapevamo in anticipo la nuova destinazione: era una grossa industria bellica, con sede e stabilimento a Dessau, una città di circa duecentomila abitanti, situata lungo il corso dell’Elba, poco distante da Berlino.

Il viaggio di trasferimento questa volta lo si fece con dei pullman un po’ sgangherati, se vogliamo, ma sempre pullman erano, seduti comodamente e non  in piedi e accalcati come le altre volte. Ci preoccupava molto la designazione della nuova sede, dato che gli Angloamericani stavano intensificando le incursioni aeree e qualche bomba cominciava a cadere anche lì; di queste nostre preoccupazioni, i signori tedeschi se ne sbattevano anzi ci dicevano “Sono bombe dei vostri amici”.

Con l’approssimarsi della meta, notammo un grosso agglomerato di industrie di ogni genere, chimiche, aeronautiche, metallurgiche e di tanti altri tipi. Le nostre dimore, cioè i campi dove si doveva risiedere stavano lì in mezzo.

Arrivati a destinazione, notammo che il lager era abbastanza contenuto, sì e no saremmo stati un migliaio di persone, e il suo nominativo era M.Stammlager XI A. Ital. Mi. Arbts.Kdo. 170/37 Dessau Alten Deutschland. Non esistevano le gabbie, era composto da una ventina di baracche suddivise in vani dov’erano collocati una ventina di posti letto, sempre col solito sistema uno sull’altro. In mezzo c’era un tavolo con intorno delle panchette ed una stufa. Una brocca di ferro smaltato della capacità di cinque o sei litri, sempre piena, era al centro del tavolo: l’acqua gelida che conteneva veniva usata per dare la sveglia a chi s’attardava a letto. I servizi, cioè i gabinetti, erano fuori: si trattava di una fossa profonda un paio di metri , lunga una ventina e larga circa ottanta centimetri,  con delle tavole per non  caderci dentro: il nome più appropriato per questo posto era latrina. Per la pulizia personale, c’era una baracchetta apposita con dei rubinetti.

Con l’arrivo nella nuova sede, era cambiato anche il nostro stato giuridico, cioè da Krieg Gefangenen (prigionieri di guerra) eravamo diventati I.M.I. (militari italiani internati) e per questo dovettero sostituirci le sigle che avevamo nelle gambe delle brache e sulla schiena, cioè KG con IMI, evidentemente le autorità internazionali interessate non ci riconoscevano come prigionieri di guerra, dato che non eravamo stati catturati in combattimento e che si era stati alleati  dei tedeschi fino al giorno prima.

I nuovi guardiani non erano più le SS, ma in quanto a cattiveria forse le battevano; provenivano dalla Wermacht, cioè dall’esercito, erano tutti invalidi e mutilati di guerra che, per ovvie ragioni non potevano più combattere. Si vede che ne avevano piene le balle e si sfogavano con noi. Quando ci comandavano per qualche cosa le loro parole erano sempre “Rauss, rauss, schnell, schnell”, tradotto sbrigati,sbrigati, svelto, svelto e, siccome avevano la baionetta appesa alla cintura, alle parole aggiungevano le punzecchiature alla schiena per spronarci.

Il nuovo lavoro, anche se si era in una delle più grandi industrie aeronautiche della Germania, la Junkers, era di manovalanza. Io e una cinquantina di altri prigionieri eravamo stati ingaggiati da un’impresa che gestiva la manutenzione edile dello stabilimento:con le bombe che cadevano, il lavoro non mancava. Le macerie delle case bombardate cominciavano ad abbondare e il freddo, anzi il gelo, si faceva sentire, perché si era a metà dicembre. Non potendo svolgere altri lavori, avevano escogitato di farci pulire dalla malta, che era calce friabile e facile da togliere, i mattoni pieni delle caratteristiche casette del posto che erano crollate sotto i bombardamenti. Ci avevano fornito delle picchette e dei bidoni di benzina vuoti da adibire a bracieri, roba da bruciare se ne trovava sul posto in mezzo a quelle case diroccate; si accendevano dei falò, ci sedevamo lì attorno in cinque o sei e si eseguiva  l’operazione di pulizia dei mattoni. La combriccola rappresentava quasi tutte le regioni d’Italia e le svariate armi dell’esercito, l’età era per un buon cinquanta per cento di venti, ventidue anni, il resto suddiviso in svariate età, con qualcuno che superava abbondantemente la cinquantina. In altre circostanze e con la pancia piena, i discorsi di un gruppo così numeroso di uomini avrebbero riguardato le donne. Invece noi non si faceva che parlare di roba da mangiare. “Questa notte ho sognato una pastasciutta, delle bistecche e un bel fiasco di vino”; con la fame che si aveva non si poteva parlare d’altro. A proposito di freddo,quando la temperatura cominciò a scendere di svariati gradi sotto lo zero, il nostro equipaggiamento era lo stesso del mese di luglio. Io mi ero procurato un cappotto già appartenuto a un militare francese deceduto. Alla mancanza di magliette, calze e altri indumenti di lana si sopperiva con sacchetti di cemento vuoti e carta da imballaggio. Le scarpe che avevamo al momento della cattura si erano ormai consumate e i tedeschi ci fornirono di zoccoli olandesi, tutti in legno;finché non ci facevi la mano (anzi il piede) non riuscivi a camminare e se si doveva correre, cosa che tra allarmi e bombardamenti capitava spesso, bisognava toglierli, prenderli in mano e scappare scalzi, perché non è che avessimo le calze a proteggere i piedi ma, quando andava bene, sacchi da cemento, di carta.

Un problema molto grande per il prigioniero era la malattia. Finché eri in salute, anche se morto di fame, affrontavi tutto, ma non appena accusavi qualche disturbo crollavi, perché non c’era nessuno che si prendesse cura di te, poi il mangiare che da sano ti faceva schifo da malato diventava ripugnante, cosa che ho provato di persona. Alla fine del 1943 mi sono sentito male, a causa del gran freddo e perché ero poco vestito: mi sono beccato una brutta influenza con febbre alta, ma i signori tedeschi non è che si preoccupassero più di tanto, ti facevano andare al lavoro anche in quello stato. Mi ha salvato uno sfogo di foruncoli che mi era uscito sulle gambe, forse a causa della polpa di barbabietole secche che avevo mangiato qualche mese prima. Dovetti rimanere a riposo. Il mangiare ripugnante riuscii ad ingerirlo grazie a parecchi spicchi d’aglio che ci tritavo dentro, roba, questa, che mi veniva data dai compagni con qualche patata lessa. In quanto alle cure che mi prodigarono i medici del campo, la pomata era grasso che veniva usato per lubrificare i macchinari e le bende carta igienica. Comunque, in una decina di giorni ero dinuovo in forma per modo di dire e in grado di riprendere il lavoro.

Voglio raccontare un altro fatto, non so se ne siano capitati di analoghi altrove. Sarà stata la metà di gennaio, in pieno inverno, con temperatura sotto lo zero; una sera, intorno alle venti arrivano i guardiani e danno, per ciascuna camerata, un sacco abbastanza grande e un secchio da dieci litri circa. Come ho già detto, le baracche erano divise in scomparti da una ventina di posti letto; dovevamo spogliarci degli indumenti di sopra per metterli nell’unico sacco che loro avrebbero portato via, noi si restava in mutande (chi le aveva) e il secchio doveva servire per farci eventuali bisogni durante la notte, perché le porte delle baracche venivano chiuse a chiave. Questa situazione andò avanti per circa un mese. Alla mattina, al momento della sveglia, ci buttavano il sacco e ognuno doveva recuperare i suoi stracci, vestirsi alla svelta e andare a lavorare. Si era sparsa la voce che i tedeschi avessero paura dei venti milioni e passa di prigionieri, deportati e internati di tutte le razze che avevano in casa, mentre i tedeschi validi erano tutti al fronte o a presidiare i territori occupati; temevano che potessimo ribellarci e creare loro dei problemi. Ma di tutto questo non si era avuto sentore, la “radio scarpa” del lager non ne aveva mai fatto accenno, era roba che frullava in testa ai signori tedeschi per farci provare anche quell’umiliazione.

Un’altra bella scena era quando, ogni quanto si ricordavano, ci facevano fare le docce. Ci dovevano condurre in una altro campo, perché il nostro ne era sprovvisto. Le addette a questa specie di lavata collettiva erano delle donne ucraine, pure loro deportate; noi eravamo pelle e ossa, ci facevano spogliare tutti assieme in una vano antistante e quindi queste ragazze provvedevano ad accompagnarci sin sotto le docce, era una specie di bordello, uno spettacolo a cui i signori tedeschi non mancavano di assistere sghignazzando e per noi una forte umiliazione.

Un altro strazio, specialmente all’inizio era questo: il campo era situato a poche centinaia di metri dal banco prove dei motori degli aerei. Tengo a precisare che la Junkers era una delle più importanti industrie aeronautiche della Germania, quindi c’erano decine di motori permanentemente accesi giorno e notte, sopra tralicci a qualche metro dal suolo, all’aperto, senza nessuna schermatura e non si può immaginare il frastuono. Loro avevano le cuffie, noi stavamo diventando sordi, e menomale che ci hanno pensato gli americani con le loro bombe a buttare tutto per aria.

 

7

LA JUNKERS

 

A proposito della Junkers, era uno stabilimento vastissimo, con annesso campo di aviazione. In quel periodo, oltre a costruire aerei di ogni tipo, fabbricavano anche le famose V1 e V2, cioè le bombe volanti che venivano lanciate contro la Gran Bretagna e che facevano disperare Churchill; queste armi erano le cugine prime degli attuali missili.

I lavori venivano espletati, eccezion fatta per i tecnici, da prigionieri, deportati e internati delle più svariate provenienze. I tedeschi non scherzavano e ci facevano lavorare  anche con la pancia vuota. Tutto è filato liscio fino alla primavera del 44, poi ci hanno pensato gli Angloamericani a far ridurre la produzione. Prima di quel momento lo stabilimento era integro. I tedeschi, prevedendo questi attacchi incominciavano a trasferire le produzioni belliche in posti meno accessibili,per prima cosa lontano dalle città, possibilmente in mezzo ai boschi, quindi il lavoro per la mia squadra non mancava: bisognava spostare strutture e macchinari, si era sempre in giro con dei camion tra Dessau, Lipsia, Magdeburgo e Berlino, a fare la spola da una città all’altra. I tedeschi avevano capito che le cose si mettevano male per loro e sembravano impazziti con  il loro “Schnell, schnell,  luss, luss”.

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VITA QUOTIDIANA

Ora voglio raccontare la giornata tipo di un prigioniero con turni di lavoro normali: sveglia alle sei, che veniva fatta da un soldato tedesco col fischietto e accompagnata dalle parole, anzi dalle urla        “ Aufwecken, aufwecken, cafè holen”, sveglia, sveglia, prendere il caffè. Due prigionieri si accompagnavano al militare e si recavano in cucina per prelevare la squisita bevanda che consisteva in un mezzo bidone di benzina, lo stesso che si adoperava per la zuppa, pieno d’acqua però sporca, anzi nera, non so che cosa ci mettessero, di caffè-caffè neanche l’ombra. Si posava il bidone vicino al cancello dove avveniva la distribuzione, noi facevamo la fila con il solito barattolo che si adoperava per la sbobba e ci versavano mezzo mestolo di quell’infuso; quando lo avevamo, ci aggiungevamo un pezzettino di margarina, così avevamo l’impressione che fosse un cappuccino, tracannavamo quest’intruglio senza pane o altro e aspettavamo la zuppa di mezzogiorno.

Verso le sette ci accompagnavano al lavoro. Se il gruppo era grosso provvedevano i nostri stessi guardiani, se si era sotto la cinquantina veniva uno incaricato dalla ditta a prelevarci e, la sera, ci riaccompagnava al campo. Il nostro gruppo era di questa portata e a prenderci veniva un vecchietto di una settantina d’anni, tutto intabarrato, con i copri orecchi, una specie di cuffia per ripararsi la testa dal freddo e un berrettino con visiera rigida di tipo militare, forse era un nostalgico. Un gruppetto di veneti della squadra stessa lo aveva soprannominato “Cerron” e ogni tanto lo mandavano a quel paese in veneto e lui sempre che chiedeva “Was?” (cosa?).

Alle otto iniziava il lavoro,delle volte erano lavoretti adatti alle nostre forze, ma di solito erano duri, come picconare della terra gelata (per riuscirci mettevamo un bidone a mo di braciere con un bel fuoco, così si avevano due vantaggi, ci scaldavamo noi e si scioglieva la terra ghiacciata e potevamo lavorare. Altre volte si trattava di fare due o tre rampe di scale in salita con una carico di mattoni pieni per tutto il giorno: le gru non c’erano, ma i prigionieri sì.

 A mezzogiorno, mezz’oretta di sosta per bere il pranzo. Dico bere, perché per mandare giù quella solita sbobba che ci veniva recapitata dal nostro campo, non servivano né cucchiaio né denti. Alla sera si smetteva alle diciotto, si impiegava un’oretta per il rientro, giusto in tempo per un’altra sbobba e, se era giornata di pane, per quei trecento trenta grammi ogni due giorni. Alle otto, tutti a nanna su quei bei materassi permaflex.

Sarà stato metà di febbraio del 1944, era un giorno di festa, quando venne il Lagerfurher (capo campo) in persona, che riteneva di compiere un grande atto umanitario consegnandoci una cartolina, anche quella di ritorno, e una matita copiativa (da restituire subito) per poter comunicare ai nostri familiari che eravamo ospiti graditi della Grande Germania. Mi sembra che i miei l’avessero ricevuta quasi un anno dopo e va bene anche questo, erano in Sardegna. Io non ho mai ricevuto risposta.

Dato che ci sono, voglio continuare con queste piccole angherie. Per le pulizie personali, al posto del sapone, ogni tanto facevano distribuire da una persona, di solito un prigioniero che trascinava un sacco d’una cinquantina di chili, un paio d’etti cadauno di soda Solvay che doveva servire per il viso, i denti, i piedi e il resto, più il bucato, potete immaginare che pulizie, e avevano la sfacciataggine di farci delle visite corporali magari nelle giornate più rigide e per giunta all’aperto, facendoci spogliare completamente e trovando spesso il pretesto per una bella slavazzata con l’acqua fredda.

Un altra cosetta che voglio raccontare potrebbe sembrare di poco conto ma così non è: in ogni località dove risiedevano parecchie migliaia di prigionieri internati e deportati di tutte le razze, c’era una prigione speciale, denominata “quinta colonna”. Chi entrava in quella “prigione nella prigione” difficilmente ne usciva vivo; per arrivarci bastava poco, un accenno di ribellione, un gesto di stizza nei confronti dei guardiani, e ti arrivava tra capo e collo una condanna che poteva essere di un mese, due o tre, ed era una cosa indescrivibile, quello che si soffriva nel normale moltiplicato per cinque, dieci volte. Nella nostra squadra, capitò di finirci a un ragazzo, pure lui sardo e finanziere, che in un momento di sconforto si era ribellato ed era scattato il provvedimento, un mese di quinta colonna. Dopo che il nostro amico era rientrato in sede, cosa che non capitava troppo spesso, era solito dire “Qui siamo in paradiso”, quindi non è difficile immaginare il trattamento riservato a quei poveretti che ci capitavano dentro.

Voglio continuare con queste storielle, a ben interpretarle tutt’altro che di poco conto. Il lavoro mio e dei miei compagni era spesso espletato nei campi dei civili. In quelle grosse industrie, già da prima della guerra ci lavoravano emigrati e tedeschi stessi che, non essendovi possibilità di pendolarismo e anche per i problemi causati dalla guerra, risiedevano presso gli stabilimenti, in campi che non somigliavano certo ai nostri, tutti ben attrezzati, con cucina, mensa, camerette di due posti al massimo, in certi casi perfino la piscina. Noi avevamo il compito di provvedere alla manutenzione e, quando capitavamo in quei posti, se si aveva tempo, ci facevamo il giro intorno alle cucine per frugare nei bidoni dei rifiuti in cerca di qualcosa da mangiare oppure di bucce di patate, anche quelle molto ricercate: lavate ben bene e poi  lessate, se c’era un po’ di sale, diventavano un ottimo piatto. Ma la storia è un’altra. All’ora del pasto serale di quei signori, noi ci aggiravamo vicino alla mensa con la speranza che qualcuno ci mollasse qualcosa. Io notai uno, credo fosse belga, uscire dalla mensa stessa con un piatto contenente primo, secondo e contorno tutto mischiato. Credendo fosse destinato al bidone, mi precipitai e glielo tolsi di mano facendolo restare di stucco: il poveretto non pronunciò parola ma girò sui tacchi e s’introdusse dinuovo nella mensa, con la speranza di rimediare un’altra porzione, non so con quali risultati, perché io m’appartai per consumare quel prelibato pasto: tengo a precisare che noi tutti si viaggiava sempre con il cucchiaio in tasca a il barattolo appeso alla cintola. Alla sera si rientrava dal lavoro verso le sette. Prima di accedere al campo, il nostro si intende, si trovavano tutti i guardiani disponibili a perquisirci e se trovavano qualcosa erano guai, cosa potevamo portarci dietro se non qualche patata se si riusciva a procurarla. Per ogni patata che ci trovavano addosso era un pugno (ein kartoffel ein box) e queste poi ce le buttavano dentro le latrine dicendoci se le volevamo di andare a prenderle da lì. Quanto era cattiva, quella gente, con noi.

 Gironzolando affamati per i campi di questi civili liberi, delle volte capitavano anche le brave persone, specialmente le donne, che ci commiseravano per come eravamo ridotti e cercavano di aiutarci come potevano, magari allungandoci del pane o altro, però di nascosto, perché se li vedevano erano guai anche per loro.

Un altro problema che però non mi sono mai posto perché non ho mai fumato, erano le sigarette. Quelli che avevano questo vizio davano tutto, anche quel misero pezzetto di pane, pur di averle. Delle volte si vedevano delle scene degne di Totò. Camminando in branco per strada, cioè inquadrati, questi tizi erano sempre con lo sguardo per terra, nella speranza di notare una minuscola cicca, dico minuscola perché anche i padroni di casa non è che ne abbondassero;  quando la trovavano, ci si avventavano in cinque o sei per poterla prendere e i guardiani a menare col calcio del fucile: qualcuno ne usciva pesto. Molti, non potendo fare a meno di quel maledetto fumo, si arrangiavano con foglie di patate secche e quell’odore appestava tutto.

Un altro fatto che destò in noi molta commozione fu la morte per stenti di un gruppo di bergamaschi. Forse facevano parte di qualche reparto alpino. Quando li abbiamo incontrati, all’inizio della prigionia, erano il ritratto della salute, dei giganti, penso che toccassero il quintale, dal colorito roseo. L’Esercito Italiano, a quelle truppe scelte, dava perfino un supplemento di vitto, anche le gavette erano il doppio del normale. Ma dopo un paio di mesi di stenti, si sono svuotati e deperiti e nel giro di poco tempo se ne sono andati, mentre noi “normali” siamo arrivati asciutti, lì ci siamo finiti di rinsecchire però abbiamo resistito. Loro, poveretti, non ce l’hanno fatta.

 

9

GUERRA FINITA…TUTTI MORTI

 

Il tempo passava lentamente e cinque o sei mesi, anche se malamente, erano già trascorsi. La guerra si stava incattivendo (non che prima fosse buona) specie sul suolo tedesco. La zona dove eravamo stati destinati, quando siamo arrivati era ancora integra e noi si aspettava l’allarme aereo per non fare niente; se la giornata era bella, ci mettevamo al sole, un po’appartati, e contavamo gli aerei inglesi e americani che passavano sopra di noi diretti a Berlino, Lipsia, Magdeburgo o Hannover e si commentava tra noi, meglio che distruggano tutto così finisce prima. Però se ci sentivano i tedeschi si incavolavano e potevano darci qualche pedata, come minimo.

Se si incattiviva la guerra, anche la fame non è che scherzasse: il cerchio si stava stringendo, le bombe cadevano ovunque distruggendo scorte e vie di comunicazione e creando problemi anche per l’organizzatissima Germania. Noi, nel vedere l’effetto che fecero le prime bombe quando ci caddero attorno, ci facemmo  passare la voglia di guardare gli aerei che ci sorvolavano e venire quella di scappare lontano, possibilmente in campagna. Dopo le prime incursioni con bombardamenti, ci portavano nei rifugi che noi stessi avevamo costruito all’interno delle fabbriche. Più che veri e propri rifugi, erano trincee con sopra dei traversini della strada ferrata, quindi poco affidabili, mentre per loro c’erano dei bunker di cemento armato, inoltre avevano la possibilità di  uscire dalla fabbrica e scappare all’aperto, verso la campagna. In seguito alle nostre rimostranze, che evidentemente sono state recepite da qualche persona di buon cuore, concessero anche a noi di uscire dal recinto dello stabilimento, con l’impegno di rientrarci mezz’ora dopo il cessato allarme e di presentarci al caposquadra; in caso di non osservanza di queste regole, sarebbero scattati dei gravi provvedimenti.

In quanto a difesa antiaerea, i nostri padroni erano ben organizzati. Non avendo ancora il radar, per percepire in lontananza il rumore degli aerei, c’erano alcune postazioni con delle grandi “orecchie”, cioè una specie di imbuti di due metri di diametro, con un operatore che li faceva roteare in tutte le direzioni. Riuscivano anche a provocare della nebbia artificiale per coprire intere città e disponevano di una contraerea efficientissima e di un sistema di sbarramento aereo con dei palloni frenati. Nonostante tutto, gli americani la distrussero completamente.

Eravamo ormai in primavera avanzata, ma per noi prigionieri non cambiava nulla, i tedeschi, con la loro cocciutaggine, credevano sempre nella vittoria finale, perché glielo aveva detto il Furher. Vedendo come si presentava la situazione, noi li punzecchiavamo e loro non reagivano in malo modo come d’abitudine e sembrava che si fossero addolciti.

 Eravamo sempre in attesa che tutto finisse presto, ma purtroppo doveva trascorrere un altro anno. I nostri carcerieri erano sempre molto duri con noi, ci trattavano in malo modo come al solito, penso che non gli passasse mai per la testa che prima o poi avrebbero preso il nostro posto, cioè da carcerieri a carcerati.

Lungo un lato del nostro campo, scorreva per tre o quattrocento metri una via che portava in campagna, dove nelle belle giornate le mamme portavano i bambini a passeggio e, nello stesso tempo, a vedere  il recinto con dentro gli schiavi. Noi eravamo a tre, quattro metri da loro, ragazzini di otto, dieci anni, roba da scuola elementare e cosa ci dicevano…Badoglio, scheiser, noi eravamo chiamati tutti Badoglio e, per giunta, si era tutti delle merde; in più ci dicevano “Fertig Krieg, alles kaputt”, finita la guerra, tutti morti. Questo sicuramente lo sentivano dai grandi o a scuola, perché quella era la loro teoria.

Per noi sardi, che non avevamo neanche la consolazione di avere notizie sulla famiglia, nemmeno la cartolina di ritorno da prigioniero mi era ancora arrivata,era terribile, penso sia stato così anche per gli altri meridionali in genere, avevano altro da pensare. Quelli del nord, oltre alla corrispondenza, ricevevano perfino qualche pacco dai familiari: meridione e isole, anche in quella circostanza, sempre ultimi, tanto per cambiare. Ero due anni esatti senza notizie dei miei, penso anche loro, o no, forse avevano saputo che ero in vita grazie a quella famosa cartolina che ci avevano dato dopo qualche mese di prigionia.

Non si era a conoscenza di come andasse la guerra e la situazione dei vari fronti la si capiva solo guardandosi intorno, non ci facevano sentire la radio, se si riusciva a scambiare qualche opinione in merito con qualcuno si aveva l’impressione che anche loro non fossero tanto informati o che le informazioni fossero addomesticate, dicevano che Hitler, in un discorso, aveva tranquillizzato la popolazione dicendo che la guerra poteva essere vinta cinque minuti dopo averla persa, in programma c’erano le “armi segrete”, forse le bombe atomiche: ringraziamo Dio che non siano arrivati ad usarle.

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CADONO LE BOMBE

 

Gli Angloamericani sembravano intenzionati a chiudere in fretta la partita e, man mano che passavano i giorni, intensificavano le loro azioni aeree, prendendo contemporaneamente  di mira centri come Berlino, Lipsia, Hannover, Magdeburgo e Dessau, che erano sottoposti a pesantissimi bombardamenti. Le bombe cadevano ovunque e, siccome erano meno “intelligenti” di quelle di adesso, a farne le spese erano soprattutto i civili, ne morivano moltissimi; però non si arrendevano, erano sotto le macerie fumanti e, come riuscivano a mettere la testa fuori, era come se non fosse successo niente, già inneggiavano al loro Fuhrer e noi pensavamo che con quelle teste di rapa la guerra non sarebbe finita mai.

Se questo capitava di notte (come spesso succedeva), il nostro capo, “Cerron”, alle sette del mattino era davanti al cancello per prelevarci perché dovevamo essere puntuali al lavoro; noi strada facendo vedevamo cosa era successo durante la notte e commentavamo. Lui, duro, senza alcuna commozione, diceva solo luss, luss, camminare celermente, perché pensava fossimo in ritardo e potessimo perdere qualche minuto di lavoro.

Per noi, nonostante tutto quello che ci capitava intorno, non era cambiato niente, ma anche loro non è che si dimostrassero molto preoccupati. Va be’ che di tedeschi se ne vedevano pochi e le persone che incontravamo non avevano interesse che le cose cambiassero, dato che erano tutti stranieri e con una gran voglia di tornare a casa. Di tedeschi, in queste industrie, c’erano solo i capi, ma con la loro cocciutaggine e con tutti gli schiavi che avevano a disposizione, riuscivano in pochi giorni a rimettere in produzione i reparti bombardati, quindi l’efficienza bellica era sempre assicurata.

Oltre alle bombe, che si vedevano e si sentivano, cominciavamo a sospettare che stesse succedendo qualcos’altro di strano, perché, anche se eravamo tenuti all’oscuro di tutto, si vedeva che affluiva gente dall’est, i russi spingevano e, se non erano ancora arrivati sul suolo germanico, in Polonia lo erano di sicuro. Inoltre avevamo contattato dei prigionieri provenienti da quelle zone e ci avevano confermato che i tedeschi stavano cedendo terreno. A ovest stavano preparando qualcosa gli Anglo americani per lo sbarco in Francia, infatti verso maggio, giugno crearono la testa di ponte per poter aprire un nuovo fronte onde poter finalmente ridurre alla ragione la Germania e il suo Fuhrer. Lungo quelle coste, i tedeschi avevano preparato grandi fortificazioni, perché aspettavano queste mosse degli Alleati ed erano riusciti a dar loro parecchio filo da torcere, tenendo duro per diversi giorni, finché gli Angloamericani, grazie  ad un enorme spiegamento di uomini e mezzi e all’abilità del loro grande generale Eisenhower sono riusciti a sfondare. Naturalmente noi siamo venuti a conoscenza di tutto questo otto o nove mesi dopo, quando gli americani ci hanno liberati.

Con tutto quello che stavano subendo, tra bombardamenti e accerchiamento di una gran massa di uomini e mezzi, russi ad est, americani ad ovest, i tedeschi erano riusciti a resistere e a farli arrivare a Berlino quasi un anno dopo, nell’aprile del 45.

A proposito di allarmi aerei, voglio raccontare un particolare che a noi prigionieri non sfuggiva: il nostro campo era situato alla periferia di Dessau. A sud del campo stesso, su una collinetta, sorgeva un piccolo villaggio denominato Musikau, che disponeva di una sirena d’allarme tutta particolare: anziché essere come tutte le altre, cioè una ventola che girava, questa era un vero e proprio “corno” che veniva azionato ad aria compressa ed emetteva un suono così lugubre da incutere paura più delle altre, anche perché, quando suonava, il bombardamento a tappeto era assicurato e noi ci davamo voce, oggi bisogna scappare più lontano possibile.

Un’altra cosa che ci aveva incuriosito e su cui spesso si faceva dell’ironia era questa: davanti all’ingresso del campo d’aviazione c’erano tre pennoni su ognuno dei quali, invece di una bandiera, era legato un pallone abbastanza grosso. Tutti questi palloni erano di colore diverso e servivano per tenere costantemente  informato sugli allarmi il personale che lavorava lì senza bisogno di far suonare le sirene. Un pallone su di un determinato colore significava che nessuna parte del territorio era sorvolata da  aerei nemici, due significavano pre-alarm, aerei nemici entrati nello spazio aereo tedesco, tre palloni in cima ai pennoni erano segno che gli aerei si trovavano in prossimità di quella zona, quindi alarm. L’ironia era che ci chiedevamo: come sono le balle dei tedeschi oggi? Su o giù?

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FINALMENTE LIBERI. O NO?

 

In occasione della visita che Mussolini fece a Hitler per congratularsi d’essere scampato all’attentato del luglio 1944, qualcosa nella nostra situazione cambiò. Ma andiamo con ordine: alcuni tra i più stretti collaboratori del Fuhrer, alti ufficiali e uomini politici che non approvavano più tutto quello che il dittatore stava combinando, avevano sistemato sotto un tavolo attorno al quale sedevano lui e le più alte personalità del regime, intente a discutere della guerra ( che per loro tanto bene non andava) una borsa carica di esplosivo. Ci furono parecchi morti, ma Hitler se la cavò con qualche graffio. I responsabili, naturalmente, furono presi e giustiziati.

La circostanza portò i due alleati anche a discutere di noi I.M.I. (militari italiani internati) arrivando, di comune accordo alla determinazione di liberarci.

Ci fu fatto credere che la magnanimità dei nostri “capi” era grande. Ma noi e anche altri ci avevamo messo poco a capire,ed era anche vero, che a Hitler servivano soldati, anche se mezzo invalidi, vista la situazione che si stava presentando, quindi, togliendo quei dieci o quindicimila uomini adibiti alla nostra sorveglianza, avrebbe potuto mandarli a combattere. Per assaporare questa nostra nuova condizione, abbiamo dovuto aspettare fino alla metà di settembre.

12

IL SAPORE DELLA “LIBERTA’ “

 

Con la nostra nuova situazione, non è che fosse tutto rose e fiori, sì, ci avevano tolto la stretta vigilanza che ci rendeva schiavi. Si era più liberi, ci si muoveva con più autonomia anche in occasione dei micidiali bombardamenti aerei, ma per il resto eravamo quasi come prima, il campo era lo stesso, baracca, letto, gabinetti, anzi latrine erano gli stessi, il nostro abbigliamento e il look erano da barbone. Prima si usciva dal campo solo per andare a lavorare, adesso si poteva, nelle ore libere, circolare ovunque ma, in quelle condizioni, chi osava farlo?

 Ora voglio raccontare la cerimonia che aveva fatto il nostro Lager Fuhrer (capo campo). In un giorno di non lavoro, ci aveva radunati tutti nel piazzale del campo lui si era presentato con la testa rasata più lucida del solito,  la divisa ben ordinata e tutto il seguito dei suoi giannizzeri. Tengo a precisare che si trattava di sottufficiale della Wermacht, un maresciallo senza Von.

Ci comunicò la bella notizia della “liberazione” con un discorso e, sempre inneggiando ai due Gran Capi, Hitler e Mussolini, ci disse che dovevamo essere riconoscenti anche con il pensiero per quell’atto tanto umanitario che si accingevano a compiere nei nostri confronti. Ci comunicò ufficialmente che il quindici settembre saremo stati liberi e che a lui dispiaceva tanto doverci lasciare (a noi no). Noi, per tastare le sue reazioni, gli chiedemmo “ Fertig Krieg? (finita la guerra?)”. Lui, molto seccato, rispose “Nein, nein”, no, no, infatti aveva ragione, ci vollero ancora sette, otto mesi buoni per vederne la fine.

Il nuovo capo campo non era un militare, ma era lui pure un bijou, una carogna, anche questo era sempre in mezzo ai piedi, se vedeva qualcosa che non gli garbava inveiva e gridava peggio del maresciallo; se poi trovava qualcuno che si cucinava qualche barattolo di bucce di patate (la situazione alimentare era come prima se non peggio), lui cominciava a gridare la parola “scheiser”(merda), vocabolo molto usato nella loro dialettica e alla fine dava un calcio al barattolo, buttava tutto e quel malcapitato restava senza bucce di patate.

Dal 15 settembre siamo senza guardie, inizia una nuova vita speriamo migliore. Per prima cosa, ci siamo tolti quelle brutte sigle che avevamo stampigliate sui pantaloni e sul dietro delle casacche ed eliminato un piastrino che avevamo al collo, in alluminio, con incise le nostre generalità e il numero di matricola da prigionieri. Questo era un bel cimelio, mi sarebbe piaciuto  tenerlo, ma ci hanno obbligato a restituirlo.

Per poter circolare liberamente, per prima cosa ci fecero un pass con foto e generalità, che si doveva esibire a ogni richiesta della polizia o di altre autorità e che serviva per accedere ai posti di lavoro, quindi dovevamo portarcelo sempre appresso. I benefici derivatici dal nuovo status erano che si era liberi di spostarci dove e quando volevamo, per andare a lavorare non si aveva più l’accompagnatore, alla portineria si esibiva il pass e le guardie dicevano “bitte”, prego; non si timbrava nessun cartellino e ci davano qualche marco che potevamo spendere per un bicchiere di birra. Altro non c’era perché era tutto contingentato e a noi la tessera non la davano. Il vitto, con quel pezzettino di pane, continuava a passarcelo la mensa del campo ma con sistemi più umani, si era eliminato il mezzo bidone di benzina, il barattolo e la fila all’aperto, davanti al cancello, qualsiasi tempo facesse.