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SOLDATESSE, “BUGHI” E BASEBALL

 

Quel pomeriggio abbiamo potuto avvicinare gli americani, scambiare qualche parola con loro. Poteva essere difficile capirci, perché nessuno di noi parlava l’inglese, ma tra loro c’erano tanti italo americani e un po’ di siciliano o di napoletano lo masticavano, quindi ci siamo spiegati e capiti; ci dissero di pazientare ancora qualche giorno e poi avrebbero provveduto a tutto, per prima cosa a farci uscire da quelle tane, sistemandoci in qualche edificio pubblico rimasto in piedi, poi provvedendo per il cibo. Per il momento, ci dissero di arrangiarci come potevamo, basta che non si desse fastidio ai civili tedeschi.

Comunque gli americani sono stati di parola e, appena sistemato tutto (nei paraggi c’era stata ancora qualche scaramuccia con militari tedeschi sbandati), hanno pensato a noi, a tutta quella gran massa di gente straniera che, in qualità di prigionieri, deportati e internati si trovava sul territorio  appena liberato.

Noi, dato che si prevedeva di restare ancora qualche mese a Dessau, abbiamo cercato di organizzarci. Per prima cosa, onde far sapere che lì c’erano italiani, siamo riusciti a procurarci tre pezzi di stoffa dei nostri colori, li abbiamo messi insieme ed è venuta fuori una grande bandiera che abbiamo issato su un traliccio fuori uso delle linee elettriche situato proprio di fronte al nostro domicilio. Con la stoffa che ci è avanzata abbiamo confezionato dei nastrini sempre tricolori che ci siamo appiccicati addosso, inoltre ci siamo portati nel nostro albergo anche un pianoforte che qualcuno provvedeva a strimpellare per creare un po’ di allegria.

I primi giorni, gli americani provvedevano a fornirci i pasti già preparati; poi ci hanno attrezzati e ci davano tutto l’occorrente, per poter provvedere noi alla preparazione del rancio, che veniva anche buono, fatto alla nostra maniera. Il pane degli americani, al contrario di quello dei tedeschi, era fin troppo bianco.

Siamo rimasti in questa situazione per quasi un mese, e questo è servito a rimetterci un po’ in forma e anche a conoscere meglio gli americani, dato che si viveva a stretto contatto con loro. Ricordo che, i primi tempi, preferivano starsene per conto loro, dato che la guerra non era ancora finita; una sera, saranno state le venti, mentre eravamo con i militari statunitensi in prossimità dei loro acquartieramenti, ci arrivarono quattro o cinque granate sparate da alcuni tedeschi, che non erano molto lontano. Non successe niente di grave, ma loro ci pregarono di stare attenti e di metterci al riparo.

Terminata la guerra, per gli americani era sempre festa: avevano delle orchestrine e ballavano tutte le sere. Noi, a queste manifestazioni, eravamo sempre ben accetti e, in tali circostanze, ho visto i primi “bughi bughi” (lo chiamavamo così) ballati dai soldati e dalle loro colleghe. Oltre a non aver mai sentito neppure la musica di questa nuova danza americana, per noi, cresciuti col fascismo che indirizzava le donne alla carriera di mamme e di casalinghe, vedere delle ragazze in divisa era qualcosa di veramente molto strano, anche se non facevano parte delle truppe combattenti ma erano semplici “ausiliarie”, infermiere, dattilografe eccetera.

Oltre che con gli americani, si confabulava molto anche con i tedeschi, che erano diventati mansueti come agnellini.  Nelle nostre vicinanze, c’erano casette col giardino, graziose villette di due piani, però sinistrate. Questa gente, che non sapeva dove andare, si era sistemata alla meglio nella sua casa, anche se era bombardata e mezza diroccata. Uomini, ad eccezione di vecchi e ragazzini, non ce n’erano, e si vedevano le donne fare quello che prima avevamo fatto noi, cioè raschiare via la malta dai mattoni, così potevano essere riadoperati; noi le sfottevamo, dicevamo che adesso non li avevano più gli schiavi per fare quel lavoro, e loro si mettevano a ridere. Ci invidiavano perché, dicevano, “voi tra qualche mese da qui ve ne andate, noi invece dobbiamo starci e chissà che cosa succederà ancora”. Si erano messe in testa che russi e americani si sarebbero scornati subito. Questa era la voce che circolava in quei giorni, non si sapeva chi l’avesse messa in giro ma era di pubblico dominio; siccome i russi erano a una ventina di chilometri e tra loro e gli americani non era mai corso buon sangue, bastava poco per far succedere qualcosa. Ma ci pensarono i Quattro Grandi, qualche mese più tardi, a sistemare le cose dividendo la Germania in due. La conferenza si tenne a Pozdam, località non lontana da dov’eravamo noi, a metà strada tra Berlino e Dessau.

In ogni caso, sembrava che gli americani pensassero soprattutto a divertirsi, era come se questi fatti non li sfiorassero neanche, erano sempre intenti a organizzare gare sportive. Lo sport preferito era il baseball, e noi lì a curiosare perché, anche quella, era una cosa nuova.

 

 

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QUANDO TORNIAMO A CASA?

 

Di rimpatrio ancora non se ne parlava, però le notizie cominciavano a circolare e molti prigionieri dell’Istria e dintorni dicevano che il rimpatrio non gli interessava, ma avrebbero preferito rimanere in Germania, meglio lì che con Tito: avevano saputo quello che i titoisti stavano combinando, cacciavano via o, peggio, infoibavano tutti quelli che non erano dalla loro parte; non potendo ritornare nella loro terra, i familiari dove sarebbero andati a trovarli, ammesso che ci fossero ancora?  Comunque, questo è un cruccio che ci poniamo tutti, specie quelli che sono da tanto tempo senza avere notizie da casa. Quando si era angariati e oppressi da tutte le parti, il primo pensiero era la sopravvivenza; ora che stiamo riassaporando il gusto della libertà, in mente ci sono i nostri cari lontani, il timore di non poterne riabbracciare qualcuno, anche per loro sicuramente questi cinque anni di guerra devono essere stati duri.

A qualcuno, specie a quelli del nord Italia, era venuta l’idea di rimpatriare per conto proprio, avevano procurato qualche mezzo, ma c’era il problema del carburante che non si trovava. La Croce Rossa, che già si faceva vedere, e gli americani stessi lo  avevano sconsigliato, ci raccomandavano di avere pazienza e di non preoccuparci, che quanto prima avrebbero provveduto loro a rimpatriarci. Si era saputo che in qualche zona di loro pertinenza le operazioni erano già iniziate; ma non potevamo pretendere che avvenisse tutto in una volta, i reduci da muovere erano milioni e per poterlo fare agevolmente non c’era quasi nulla, le strade erano disastrate. Eppure, nel giro di qualche mese, gli americani sono riusciti a riportarci tutti a casa, cosa che non hanno fatto i russi, che i prigionieri italiani “liberati” da loro li hanno rimpatriati un anno e mezzo, due anni dopo, vale a dire alla fine del 46 e oltre.

Ma torniamo a noi. Si era a metà maggio, anche la bella stagione ci veniva incontro per farci riprendere un po’ del colorito e delle forze che avevamo perso in quei luoghi di sofferenza. La Croce Rossa era sovente in giro per i campi, per prendere i nostri nominativi e luoghi di origine, e per chiederci i nomi di persone che avevamo visto mancare. Tutto questo doveva sicuramente servire per comunicare ai nostri familiari che eravamo sani e salvi o, purtroppo, nel caso dei nostri compagni che non ce l’avevano fatta, la brutta notizia.

Gli americani erano troppo forti e sicuramente non avevano problemi finanziari. Avevano organizzato un’apposita struttura per occuparsi del nostro rimpatrio: credo che non fosse una cosa di poco conto raccogliere tutta sta gente per poi convogliarla verso l’Italia.

Noi stavamo aspettando che quanto prima iniziasse il trasferimento; adesso la nostalgia di casa cominciava a farsi sentire. Eravamo tutti intenti a procurarci qualche indumento presentabile, perché ci dispiaceva rientrare in patria come degli straccioni. La più ricercata era la divisa dei soldati americani: completa, era difficile averla, ma pantaloni e qualche camicia era facile procurarseli. Di grigioverde, neanche l’ombra. Io mi ero procurato un pantalone di panno nero stretto alla caviglia, una camicia kaki e una bustina, pure kaki, che facevano parte della divisa dei Giovani Hitleriani. Nella fibbia della cintura c’era la croce uncinata e poi non ricordo quale motto ci fosse scritto. Certo, era abbastanza rischioso girare in quelle condizioni, però in mezzo alla gran massa di svariate uniformi ci passava anche quella, anzi, spiccava. Mi ero procurato anche uno zainetto, questo era italiano e pure grigioverde, serviva per infilarci dentro qualche cosa che si aveva e dei souvenir molto cari che, come i miei compagni, mi ero procurato e volevo portare con me a casa. Tra questi c’era pure un elmetto tedesco che però a casa non è arrivato mai, in seguito vi spiegherò la causa.

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VERSO SUD

 

La nostra situazione stava cominciando ad esasperarci, per cui avevamo accennato a un gesto di protesta presso il Comando americano, lamentando che ci avevano liberati da più di un mese e ancora non si decidevano a rimpatriarci. Loro ci chiesero di pazientare ancora qualche giorno perché dovendo tutta la gran mole  di traffico dalla Germania verso l’Italia confluire sul Brennero, questo era diventato una specie di imbuto che ogni tanto si ostruiva. Si diceva che gli americani avessero chiesto alle autorità svizzere il permesso di farci transitare sul loro territorio, ma queste avevano rifiutato.

Siamo ormai quasi alla fine di maggio, a quaranta giorni dalla liberazione e, finalmente, si decidono: domani si parte! La notizia tanto attesa ci aveva procurato una grande agitazione, forse era per la contentezza. Ma, torno a ripetere, qualcuno di noi era triste: quelli dell’Istria, di Fiume e del Goriziano, per il momento, avevano  addirittura rinunciato a partire.

La partenza doveva avvenire in treno ma, siccome la stazione era lontana, avrebbero provveduto gli americani ad accompagnarci fino lì con i loro camion, i  famosi tre assi MG scoperti, guidati da militari di colore che facevano paura come guidavano perché correvano come matti. Ne sono arrivati una cinquantina e ci hanno sistemato circa in venti per camion.

Giunti alla stazione, abbiamo trovato una tradotta di carri bestiame, questa volta non eravamo stipati in cinquanta, e c’erano perfino le panche per poterci sedere. Ma la destinazione non era ancora l’Italia. Credo che avremmo percorso sì e no duecentocinquanta chilometri in quattro o cinque ore per arrivare alla nuova sede. I treni andavano molto piano perché le strade ferrate erano terribilmente malmesse, inoltre si dava la precedenza ad altri convogli più importanti. Anche in questa stazione c’erano i camion pronti per prenderci.

Questa volta siamo stati sistemati in una grande caserma dove già vi erano altri rimpatriandi che ci stavano aspettando. Prima di entrare in questa caserma, era pronta una squadra di disinfestatori che hanno provveduto ad irrorarci di DDT in polvere; avevano un compressore con una decina di cannelli che ci infilavano sotto gli abiti. Dopo l’operazione, siamo stati sistemati in un’ala della caserma e, il giorno successivo, doccia per tutti e sterilizzazione degli indumenti e di tutto quello che avevamo con noi, nonché successiva sistemazione in altri locali.

Anche in questa località fummo trattenuti una decina di giorni; il posto era molto bello, la caserma altrettanto, peccato che fosse qua e là sinistrata dalle bombe. Queste sistemazioni erano di solito in luoghi fuori mano, quindi il tempo lo trascorrevamo facendo delle passeggiate nei dintorni e assistendo a qualche spettacolo organizzato dagli statunitensi.

Quello che mi ha stupito, anzi, ha lasciato sbalorditi tutti, è la mole di roba che quelli avevano portato in Europa in  poco più di due anni; si vedevano colonne di carri armati in trasferimento da un punto all’altro della Germania: per ore e ore, anzi, giorni e giorni, sfilavano veicoli di tutti i generi con quella stella che spiccava sulle fiancate, non si vedeva un militare a piedi e avevano tutti uniformi nuove e in ordine. A noi italiani, quando eravamo ancora “Esercito Italiano" non sostituivano un capo di vestiario se non era proprio logoro, e si doveva in ogni caso rendere il vecchio.

A giorni si parte per la nuova destinazione, quale sia ancora non si sa, l’unica cosa certa è che ancora non è l’Italia, ma un’ulteriore tappa di avvicinamento. Pare che sia Ulm, località tedesca non lontana dal confine svizzero, con la speranza che questi si decidano a farci transitare sul loro territorio. Pure questa volta, siamo stati accompagnati alla stazione con i camion e partiti in treno. Dal centro della Germania, puntiamo verso il Sud; anche questa volta il viaggio è durato cinque o sei ore, sempre su carri merci. Di vetture ferroviarie non se ne vedevano. Nel corso di quel viaggio, ci è capitato un episodio molto sgradevole. Di notte, siamo transitati in territorio presidiato dai francesi, in una stazione ferroviaria dove il treno ha fatto sosta ci hanno giocato un brutto scherzo, tanto che sembrava di essere tornati indietro di due anni, cioè quando ci avevano portato al campo di concentramento. I signori francesi sono saliti sui vagoni e hanno cominciato a gridare e a minacciarci, dicendo che l’Italia dovevamo scordarcela; hanno perquisito quel po’ di bagagli che si aveva e anche addosso; in quell’occasione mi portarono via l’elmetto tedesco. Avevamo qualche marco e volevano toglierceli. Questa situazione è durata una buona oretta, poi fortunatamente i francesi sono scesi e il treno è ripartito rientrando in zona americana. Molti avevano giustificato il comportamento dei francesi dicendo che con noi italiani quelli ce l’avevano a morte perché li avevamo “pugnalati alla schiena” cioè già erano sotto le batoste tedesche siamo intervenuti pure noi contro di loro e le abbiamo buscate anche.

Al capolinea del nostro viaggio c’era Ulm. Anche in quest’occasione siamo stati prelevati e trasportati con i mezzi statunitensi e accompagnati ancora in una caserma dove abbiamo subito i soliti trattamenti, quindi ci hanno assicurato che probabilmente quella sarebbe stata l’ultima tappa prima del rientro in Italia.  

Ulm era una bella cittadina, benché molto danneggiata dalla guerra, con una splendida Cattedrale. Anche questa volta la sosta durò una decina di giorni e si è avuto il tempo di visitare quei luoghi e perfino di riposarci, visto che gli americani pretendevano da noi solo i lavoretti interni alla nostra comunità, tipo pulizia dei locali e distribuzione dei pasti, niente a che vedere con inglesi e francesi che facevano scaricare dagli ex internati camion di materiale di loro pertinenza o, peggio, dei russi che spesso usavano il calcio del fucile o addirittura lo scudiscio con chi non ubbidiva prontamente.

 

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FINALMENTE SI PARTE

 

Siamo ormai giunti ai primi di luglio del 1945, finalmente si parte per l’Italia. Alla vigilia dell’avvenimento, si era sparsa la voce che la partenza era ormai imminente, si presumeva in giornata, al massimo il giorno seguente, e così fu. Il numero dei rimpatriandi era di un migliaio, quindi si dovette predisporre un bel convoglio, sempre di carri merci. La partenza avvenne nel pomeriggio e sul treno si stava perfino un po’ larghi, ma strada facendo si erano aggiunti talmente tanti altri “passeggeri” che qualcuno alla fine si è dovuto arrangiare tra un vagone e l’altro, accomodandosi sui respingenti.

Come in precedenza ho accennato, gli svizzeri non avevano permesso il transito sul loro territorio alle nostre tradotte, forse perché, essendo neutrali, si erano sempre tenuti fuori da certe faccende. Inoltre, precisini e ordinati com’erano, non gradivano il passaggio attraverso il loro stato di una gran massa di gente senza nessun documento e quindi senza la possibilità di essere sottoposta a controlli di nessun genere. La via da percorrere era quella dell’Austria (Monaco-Innsbruck-Brennero-Bolzano); certo, passando per la Svizzera, avremmo accorciato il viaggio di qualche ora, ma a non di questo importava poco, l’unico nostro pensiero era quello di partire, e basta.

Partendo di pomeriggio da Ulm, abbiamo viaggiato tutta la notte prima di giungere nei pressi del confine con l’Italia. Ad Innsbruck abbiamo incrociato una tradotta carica di prigionieri tedeschi che rientravano in Germania; siamo rimasti fermi fianco a fianco per un paio d’ore, non so se fosse una coincidenza o una cosa predisposta prima; per noi e anche per i prigionieri tedeschi è stato comunque molto utile, primo perché ci siamo potuti scambiare vicendevolmente le nostre opinioni e poi perché noi avevamo i marchi, loro le lire e anche se la valutazione non era certamente precisa, ce li siamo scambiati, a loro interessavano i marchi, a noi le lire, avanzando di fare la fila davanti a qualche sportello bancario. Con questo cambio, mi ero procurato circa quindicimila lire; non conoscendo il valore che la somma aveva al momento, a me sembrava un bel gruzzolo, anche a paragonarlo con i miei primi stipendi da neo finanziere, che nel 42 ammontavano a centoquaranta lire mensili. Ma giunti a Bolzano, prima fermata in Italia, abbiamo dovuto constatare, facendo i primi piccoli acquisti ( un paio di panini con prosciutto e un fiasco di vino, mille lire) che era il caso di stringere i cordoni della borsa se non volevamo restare subito al verde.

A Bolzano ci lasciarono i primi compagni di sventura, avevano trovato i paesani che li attendevano per condurli a casa, così arrivavano qualche giorno prima. Da Bolzano in poi, molti altri nostri amici del nord Italia avevano trovato i loro compaesani che erano andati a prenderli alle stazioni più vicine, con mezzi propri o messi a disposizione dai Comuni, così potevano arrivare prima a casa, dato che viaggiando in treno bisognava fare lunghi giri, poiché le strade ferrate erano tutte rotte e le nostre tradotte erano sempre le ultime a partire, per questioni di precedenza: prima i treni che trasportavano i militari alleati, quindi quelli merci e derrate, quelli passeggeri, infine i nostri, sicché il viaggio diventava inevitabilmente lungo. Questi “tassisti” si facevano trovare alle stazioni dove transitavano le nostre tradotte e si potevano riconoscere grazie a megafoni e striscioni. Certo, eravamo molto felici di rientrare a casa, ma separarci era uno strazio: dopo due anni di quella vita grama, si era diventati più che fratelli.

Trascorso un anno dal rientro, il mio servizio nella Guardia di Finanza mi ha portato in giro per il nord est dell’Italia: Rovigo, Venezia, Treviso. Così ho potuto riabbracciare questi “fratelli”, Boscolo di Chioggia, Mazzucco e Pizzo di Rovigo e altri: era una promessa fatta quando ci siamo salutati.

  

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COME FAREMO A RICOSTRUIRE TUTTO?

 

La partenza avvenne intorno alle tredici, per giungere a Pescantina, prima tappa italiana, dove ci saremmo trattenuti qualche giorno, in serata. Non c’erano i camion a prelevarci alla stazione, ma dei militari italiani, che ci hanno accompagnato a piedi in un campo sosta, che era un campo davvero dato che c’erano le tende e anche se non era proprio un albergo a cinque stelle, per noi era bellissimo perché per la prima volta dopo anni ( tre per me, e per qualcun altro anche di più) abbiamo potuto finalmente trascorrere la nostra prima notte in patria. Quel pezzetto d’Italia che avevamo visto dal Brennero a Verona era tutto distrutto, ferrovie, stazioni, strade e ponti, paesi e città, proprio come in Germania. Il primo pensiero che ci è venuto in testa è: “Come faremo a ricostruire tutto?” Ci vorrà tanto tempo e chissà quanti sacrifici.

Si parte da Pescantina, destinazione Bologna. Il gruppo così numeroso quando abbiamo attraversato il Brennero si era quasi dimezzato: sulla tradotta appena partita saremo stati un migliaio, ora molti di noi, quelli che vivevano a nord del Po ormai sono a casa. A Bologna ci lasceranno altri. Anche in questa città la sistemazione è in tenda; ai pasti penseranno i militari italiani, noi dobbiamo preoccuparci solo di consumarli. Queste soste di qualche giorno servivano per far defluire con facilità tutta quella gran massa di gente.

Come ho già detto, era tutto quanto fuori uso o quasi, compresa la trazione elettrica dei treni. Le locomotive erano a carbone e c’erano anche parecchi locomotori diesel che gli americani si erano portati al seguito. Dato lo stato dei ponti, che non esistevano più, per scavalcare il Po abbiamo dovuto trasbordare, attraversare un ponte di barche nella zona di Ostilia per poi riprendere il treno che ci ha portati a Bologna.

Anche questa città era gravemente sinistrata dalle bombe e dai combattimenti terrestri, che non avevano risparmiato neppure la campagna circostante, parecchi paesi e cascine isolati erano stati rasi al suolo, chissà se chi aveva dato inizio a tutta quella tragedia aveva mai previsto che sarebbe andata a finire così.

A Bologna, non si restava nel campo, ma si usciva in giro per la città; venivamo fermati da tante persone. Tutti volevano sapere chi eravamo, forse restavano colpiti dal nostro modo di vestire piuttosto stravagante. Quando dicevamo di essere reduci, si fermavano volentieri con noi e volevano sapere tante cose sulla vita trascorsa nei lager e sulla cattiveria dei tedeschi nei nostri confronti. Questa dovevano conoscerla bene anche loro perché pure in Italia e in particolare da quelle parti, i tedeschi ne avevano combinate veramente di tutti i colori.

Anche da Bologna si parte. La data precisa non me la ricordo, penso fosse intorno al 10 luglio del 45. La prossima tappa sarebbe stata Firenze. Come si può vedere, ci hanno fatto fare i turisti, anche se il momento non era dei migliori: attraversare mezz’Europa un paio di mesi dopo la fine di tutto quel disastro è stata una bruttissima esperienza che sicuramente ci sarebbe rimasta impressa nella memoria per chissà quanto tempo.

Anche a Firenze, già dal treno abbiamo intravisto le molte rovine che la guerra aveva causato a quella città meravigliosa. C’è comunque da dire che gli Alleati hanno portato un certo rispetto al valore artistico e culturale di Firenze e che i danni più grossi alla città li aveva prodotti la rabbia dei tedeschi.

Anche alla stazione di S. Maria Novella c’erano i militari italiani ad aspettarci; ci hanno accompagnati in una caserma dalle parti dell’Arno, la sistemazione era discreta, noi non potevamo pretendere di più, quello che stavano facendo per noi era il massimo che si potesse fare, basta pensare che quelle caserme l’8 settembre erano state saccheggiate di tutto e da tutti e che, da quella data in poi non c’era mai stata tregua.

A Firenze, la sorpresa: ho incontrato per caso due paesani, i primi dopo quattro anni, erano militari dell’Esercito Italiano che andava ricostituendosi dopo la disfatta. Non erano addetti all’assistenza di noi reduci, ma sapendo del nostro arrivo e sosta in città sono venuti a curiosare, non si sa mai, delle volte non ci fosse qualche paesano, e hanno trovato me. Questi soldati erano Martino Podda, e Sebastiano Zuddas, della frazione di Seuni. Potete immaginare la mia gioia! Loro mancavano da poco tempo da Selegas e quindi avevano notizie molto recenti. Per prima cosa, chiesi dei miei, tutto bene, ma in mezzo alle buone notizie non poteva mancare quella triste: qualche mese prima, era mancata mia cognata, la moglie di mio fratello, una donna ancora molto giovane che aveva lasciato tre bambini in tenera età.