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FIRENZE, MONUMENTI E ROVINE

 

Con i miei paesani Martino e Sebastiano ci si incontrava tutti i giorni, nelle ore che loro avevano libere e, dato che si trovavano a Firenze già da qualche mese, mi erano serviti da guida, dato che per me era la prima volta che vedevo quella città. Anche qui la sosta è durata i soliti cinque o sei giorni e loro si sono preoccupati di farmi girare Firenze in lungo e in largo. Il posto dove ci si soffermava di più era il Lungarno con il ponte Vecchio, l’unico che (per fortuna, visto il suo valore storico) fosse rimasto in piedi; gli altri erano tutti distrutti e gli americani avevano provveduto a riattivarne qualcuno, montando i loro ponti provvisori.

La nostra comitiva si andava sempre più rimpicciolendo, adesso praticamente erano rimasti solo i sardi e i meridionali in genere. Tra quelli che non dovevano attraversare il mare, ogni tanto qualcuno si avventurava e partiva alla spicciolata con mezzi di fortuna, anche se sia la Croce Rossa che i Comandi Militari sconsigliavano di farlo perché così si perdeva ogni diritto all’assistenza durante il viaggio.

Da quello che i fiorentini ci avevano fatto capire, sembrava che i ponti sull’Arno fossero stati i tedeschi a farli saltare durante la ritirata, e menomale che un monumento come Ponte Vecchio non ha subito la stessa sorte. Anche le ferrovie erano stati loro a ridurle in quello stato; penso che gli Alleati si sarebbero limitati a bombardare stazioni e scali ferroviari, senza arrivare a sistemare  sui binari una carica di esplosivo ogni sette, otto metri lungo chilometri e chilometri, per intere tratte: così facendo, hanno reso inutilizzabili le rotaie al momento del riassetto, ma forse questo faceva parte della loro ansia di distruggere tutto quanto e lasciare terra bruciata dietro di loro.

Anche il nostro soggiorno a Firenze sta per terminare e ci prepariamo alla partenza. Ho salutato i paesani ed ero pronto. Si fa la direttissima per Roma, abbiamo pensato: Firenze Livorno Roma, transitando per Civitavecchia, il principale porto di collegamento con la Sardegna. Invece ci hanno dirottato a Napoli. Il viaggio è durato più di un giorno, senza alcuna tappa, come sempre si era fatto. Noi credevamo di sostare un paio di giorni a Roma, oramai la solita sosta ogni due, trecento chilometri era diventata una consuetudine. Invece, stiamo viaggiando verso Napoli e ci troviamo nel basso Lazio, zona di Cassino, una delle località più martoriate dalla guerra. Mentre si transitava col treno, ho visto piangere parecchi dei miei compagni che si preparavano a scendere; avevano detto di aver notato le rovine delle loro case ed erano molto preoccupati per la sorte dei loro cari. Nella piana, dominata dall’Abbazia di Montecassino distrutta, c’erano numerose carcasse di mezzi corazzati d’ambo le parti, segno che la battaglia era stata cruenta, ferraglie che in seguito torneranno utili alle nostre industrie siderurgiche per avviare la ricostruzione.

Napoli si sta approssimando e le rovine sono ovunque, non è stato risparmiato nulla: sarà dura riprenderci se non ci daranno una mano.

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CAROSELLO NAPOLETANO

 

Finalmente siamo giunti a Napoli. Meno male che il treno può introdursi fino in centro, alla stazione Garibaldi, non molto distante dal posto dove saremmo stati ospitati per quest’ultima tappa, la solita caserma di cui non ricordo con precisione il nome, mi pare “Granigli”. Si trovava in prossimità del porto e lì affluivano tutti i militari, reduci e non, diretti in Sardegna, si può immaginare che ressa ci fosse, anche perché le partenze delle navi erano piuttosto rade.

In seguito, il Comando ha pensato di trasferire noi Finanzieri in un’altra caserma, al Vomero, dove siamo stati molto bene, sia per quanto riguarda il vitto che la sistemazione in alloggio. Non eravamo in tanti, al massimo una ventina, e i giorni trascorsi in questa città non ci hanno pesato, anzi, sono serviti a tirarci su il morale. Vivere a Napoli in quei giorni era una festa continua, si seguitava a celebrare la fine della guerra, anche se qui era finita da oltre un anno, c’erano ogni sera fuochi d’artificio, ogni rione era attrezzato di orchestrina e la canzone più in voga del momento era “Dove sta Zazà” . Dovunque si vedevano soldati alleati, in particolare americani, mezzi sbronzi, con gli sciuscià appresso per fregargli qualche cosa, e gli agenti della M.P. (Military Police) con le jeep e i manganelli che provvedevano all’ordine. Con il porto zeppo di Liberty cariche d’ogni ben di Dio, i napoletani si arrangiavano in tutte le maniere, dicevano di essere riusciti a svuotare di tutte le loro merci intere navi, le donnine e non solo loro fregavano il portafogli pieni di dollari agli americani sbronzi. Credo che Napoli non abbia mai vissuto giorni migliori, la città era tutta un mercato: bancarelle di ogni genere, sigarette, gomma americana, indumenti intimi e no, sempre made in USA; i soldati di colore, che di solito erano autisti, appena vedevano una donnina, mollavano il camion con tutto il carico e c’era chi ne approfittava.

Di imbarco ancora neanche l’ombra, non c’erano abbastanza navi per questo servizio; ogni tanto si vedeva qualche nave da guerra imbarcare i reduci diretti in Sardegna, ma si vede che neppure quelle erano sufficienti.

Per far capire meglio com’eravamo ridotti anche diversi mesi dopo la fine della guerra, voglio raccontare di un viaggio a ritroso da me fatto cinque e fosse il due o tre gennaio del 46 e essendo, come ho già detto, un agente della R.G. di Finanza, ero in procinto di trasferirmi dalla Legione di Cagliari a quella di Venezia. Il tempo era pessimo, la nave altrettanto. Il suo nome era “Campidoglio”, non so se fosse della Tirrenia; la sua stazza non toccava le duemila tonnellate. Abbiamo ballato 48 ore prima di raggiungere Napoli e abbiamo avuto tanta paura tutti quanti, equipaggio compreso. Arrivati a Napoli, ci attendeva un treno molto speciale, particolarmente indicato per la stagione che era, carri merci come quelli del viaggio di rimpatrio, ma ora c’era anche il freddo; per riscaldarci, si fece un falò dentro al carro, in mezzo al vagone si era sistemato il cerchione di una ruota di camion senza la gomma , con un pezzo di lamiera per coprire i buchi del mozzo e dei bulloni; in questa specie di grande braciere si faceva bruciare della legna che ci procuravamo alle fermate, era una cosa molto pericolosa ma nessuno ci disse nulla. Questo viaggio durò una settimana abbondante,  con sosta di due o tre giorni a Roma. Quello che si trovò di bello a Venezia è che la città non era stata toccata dalla guerra.

Ma torniamo al nostro soggiorno a Napoli. Si era alla fine di luglio del 45; durante questi giorni di sosta ci vennero fatte delle visite mediche e pure dei vaccini, in particolare quello  antivaioloso perché pare ci fossero stati dei casi di vaiolo. Ma a noi forse i vaccini non servivano neppure, perché con tutto quello che avevamo passato dovevamo essere diventati immuni a tutto.

Una cosa che ci lasciò perplessi e fece venire a noi e anche ai napoletani qualche dubbio sull’educazione dei soldati americani fu questa: nelle ore serali, quando la gente passeggiava, si divertivano a far piovere, dai muraglioni a cui si affacciavano sulle teste di questa marea di persone, dei preservativi che in precedenza avevano gonfiato come palloncini. E pensare che la nostra discrezione non ci permetteva neanche di nominare quegli aggeggi!

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SUL “GARIBALDI”

 

La sosta di Napoli è servita, tra le altre cose, a farci rincontrare con persone, paesani e compagni che avevamo perso di vista per le vicissitudini ella guerra, tanto da essere arrivati a pensare anche a cose brutte. Io mi sono incontrato con due miei compaesani, il brigadiere della R.G. di Finanza Beniamino Anolfo, che proveniva dalla Grecia e non vedevo da almeno quattro anni, e il sergente dell’Esercito Italiano Evaristo Sechi, in territorio nazionale al seguito delle truppe alleate.

Incontrare qualche persona conosciuta suscitava in noi grande gioia, ci raccontavamo tutte le nostre peripezie e avventure indescrivibili, e alla fine si pensava a quelli che non erano tornati: del mio paese, che pure era piccolo, una ventina tra morti e dispersi in guerra, tutti molto giovani.

Adesso apro una parentesi per descrivere una caratteristica che Napoli non ha più: il pennacchio di fumo sul Vesuvio, che in quel periodo era in piena attività. Nel 44 c’era stata una grande eruzione, così ci avevano detto i tedeschi e quella fu forse l’unica notizia che ci diedero dell’Italia durante la prigionia. Il fenomeno della fumarola durò per qualche anno e poi si spense, diventando il Vesuvio com’è tuttora.

Forse si stava avvicinando il giorno della partenza, i padroni di casa ci avevano accennato che si stava aspettando una nave da guerra, più precisamente l’incrociatore “Garibaldi”, che sembrava fosse l’unico mezzo disponibile per traghettarci da Napoli a Cagliari. Il tre agosto, finalmente ci assicurarono che il giorno successivo, nel pomeriggio, ci saremmo imbarcati proprio su quella nave da guerra. Ci avvertivano sempre in anticipo della partenza, per darci modo di salutare qualche amico che restava, i colleghi che ci avevano ospitati, per fare un ultimo giretto per la città di Napoli, preparare le valigie che non avevamo e aspettare la fatidica ora.

Il giorno quattro, verso le quindici, siamo stati accompagnati (a piedi, dato che non era distante) in porto. Abbiamo percorso un paio di chilometri lungo le vie principali della città e i napoletani, sapendo che eravamo reduci dalla prigionia,  ci hanno battuto le mani in segno di solidarietà e ammirazione.

Giunti in porto, siamo stati accompagnati sottobordo di questi popò di nave che, con tutti i suoi cannoni e le sue torrette, ci ha parecchio impressionati. Tra di noi abbiamo detto scherzosamente “Qui ci portano dinuovo in guerra”. Prima di farci salire a bordo, il Comandante o chi per lui, ci ha dato il benvenuto attraverso gli impianti di amplificazione della nave, scusandosi se non poteva offrirci un servizio migliore, dato che la nave era stata costruita per altri scopi, perciò dovevamo arrangiarci alla meglio e sistemarci ovunque fosse possibile, in coperta, nei corridoi e sfruttare ogni piccolo spazio perché imbarcare sei o settecento persone in un mezzo del genere non era facile. Perfino gli uomini dell’equipaggio, ci disse, poi potemmo constatarlo di persona, riposavano nelle amache predisposte al momento perché lo spazio era ristrettissimo; ci pregò vivamente di non creare problemi a lui, alla nave e all’equipaggio, quindi ci augurò buon viaggio, dando l’ordine che potevamo salire a bordo.

Salendo, abbiamo potuto constatare di persona quello che ci era stato detto dal Comandante: non c’erano saloni come nelle moderne navi passeggeri, forse potevano disporre di cabine solo il Comandante, il suo vice e qualche ufficiale; il resto dell’equipaggio, tutti dentro le reti che sembravano quelle borse per la spesa che si usavano anni fa, prima dell’era dei sacchetti di plastica.

Nelle navi da guerra, il grosso dello spazio era riservato per stiparci armi, munizioni e viveri e l’equipaggio doveva sacrificarsi. Noi, i passeggeri, ci eravamo sistemati quasi tutti in coperta, sotto quei possenti cannoni di cui era armato l’incrociatore. Meno male che la stagione era appropriata per la crociera, il tempo bellissimo, il mare calmo, quindi niente paura.

Intorno alle venti si salpa. Per la maggior parte di noi era una novità assistere alle manovre comandate dai nostromi a suon di fischietto e la cosa ci ha molto divertiti.

Appena fuori dal Golfo di Napoli, la nave punta la prua verso la Sardegna, e via su quel mare liscio come l’olio, per dirla in gergo marinaresco. Non penso abbia spinto al massimo, perché si doveva arrivare con la luce del giorno, dato che i porti erano resi pericolosi dall’ingombro del naviglio affondato. La notte non è che si sia dormito tanto, a causa della grande euforia che provavamo per l’approssimarsi del rientro alla nostra terra, dopo tanti anni di assenza e tante traversie.

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MACERIE E BANDIERE

 

Quando si sono incominciate a vedere le prime propaggini delle montagne sarde, abbiamo gridato di gioia. Dopo qualche oretta, già si scorgeva Cagliari, e la gioia cresceva, però, man mano che la nave si avvicinava, si incominciavano a vedere le ferite della città e del porto; la nave si era inoltrata nel golfo, a momenti si accingeva a varcare la diga foranea, anche questa molto danneggiata. Appena dentro, il “Garibaldi” mollò le ancore e si fermò, non potendosi avvicinare a qualche banchina a causa delle carcasse dei navigli affondati che ingombravano le acque del porto. Da quel punto, abbiamo potuto vedere bene la città martoriata dalle bombe, la via Roma lato mare, quel bel viale di piante meravigliose falciato dalle esplosioni, un’ala del Palazzo Municipale distrutta, l’Hotel Moderno, il palazzo Vivanet, i portici di via Roma tutti altrettanto malmessi, con cumuli di macerie ovunque. Quattro anni prima, quando ero passato da quelle parti per l’ultima volta, non era certo così e credo nessuno avrebbe mai pensato che si potesse arrivare a tanto.

Non avendo potuto l’incrociatore attraccare a una banchina, hanno dovuto traghettarci a terra con rimorchiatori e altro naviglio minuto, non so chi l’avesse messo a disposizione, ma di certo so che arrivarono fin sotto bordo con questi mezzi pieni di gente con bandiere di tutti i colori fuori che il tricolore; noi ci siamo ribellati e abbiamo detto a quei signori che non era il caso, che noi dovevamo decantare ancora un bel po’ per dimenticare tutti i guai che avevamo passato negli ultimi cinque anni. Loro hanno capito come la pensavamo e, ritirate le bandiere, si sono limitati ai saluti di bentornato, rinunciando alle intenzioni che penso fossero a sfondo politico. Finalmente per me, dopo quattro anni e un giorno, ho rimesso piede sul suolo sardo: ero partito il 4 agosto 1941 e non ci ero più tornato neppure in licenza.

Io e i miei compagni, rimasti soli, abbiamo deciso il da farsi: tanto per cominciare, abbiamo lasciato scendere tutti, poi, radunatici in porto, di comune accordo abbiamo stabilito di andarcene a casa e di presentarci ai nostri Comandi dopo qualche giorno. Saluti, abbracci, e poi ognuno per la sua strada.

Con altri della mia zona, ci siamo recati alla stazione delle Ferrovie Complementari Sarde, anch’esse gravemente danneggiate dalle bombe e con un mucchio di materiale ferroviario distrutto. Questa linea era all’epoca l’unica  via di comunicazione degna di questo nome che collegasse il capoluogo al centro-est dell’isola; esisteva anche qualche strada bianca in pessime condizioni e i mezzi erano pochi, per cui tutti coloro che dovevano recarsi a Cagliari o rientrare ai loro paesi di residenza si riversavano su questi trenini che, anche se molto malridotti dalla guerra (mi sembra addirittura che la locomotiva bruciasse legna anziché carbone) erano sempre strapieni. Ho voluto descrivere questa situazione perché il nostro timore era quello di non riuscire a trovare posto sul treno che ci avrebbe riportati a casa. Fortunatamente questo non accadde, anche se si dovette viaggiare sui pianali, quei carri che le ferrovie usano per la manutenzione della stessa, cioè per il trasporto di ghiaia e traversine.

 

 

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RITORNO A CASA

 

Finalmente, dopo tre ore di viaggio siamo arrivati. Veramente Selegas, il mio paese dista circa quattro chilometri dalla stazione ferroviaria di Suelli, quindi bisogna mettere in conto anche circa tre quarti d’ora di marcia.

Si vede che qualcuno dei passeggeri è arrivato prima di me e diede a tutti la notizia che Amedeo Usai stava arrivando. Il paese, e i miei familiari in particolar modo, si sono mobilitati per ricevermi: la mia è stata una grande sorpresa perché pur sapendo che ero sulla via del ritorno, non immaginavano fosse proprio quel giorno.

L’incontro con i miei familiari è stato molto commovente per entrambe le parti. Anche se erano passati poco più di quattro anni, i miei genitori mi sembrarono molto invecchiati, perfino rispetto all’età che avevano (mamma 55 anni e babbo 62); la sorellina Rosaria, che avevo lasciato bambina di dieci anni era una signorinetta, mio fratello Peppino, che era rimasto vedovo sei mesi prima, si era risposato il giorno precedente il mio arrivo, la sorella maggiore Anna mi aveva procurato altri nipotini: quattro anni  trascorsi senza vederci e due senza avere notizie sono cose che non si dimenticano tanto facilmente. Ringraziamo il buon Dio che tutto sia finito bene.

Verso il dieci di agosto, d’accordo con gli altri colleghi rientrati in Sardegna il giorno cinque, ci siamo presentati al Comando R.G. di Finanza di Cagliari, Ufficio delegato per la discriminazione dei finanzieri dispersi in concomitanza con l’Armistizio chiesto dalle autorità italiane agli Alleati l’8 Settembre 1943. Il Comandante del reparto era il colonnello Demontis (spero di non sbagliare) una persona piuttosto robusta, molto simpatica, che masticava sempre la cicca di tabacco. Era stato incaricato di svolgere singolarmente gli interrogatori e di mettere tutto quanto da noi dichiarato a verbale. “Dov’eri l’8 settembre 43? Che cosa è successo in conseguenza? Dove hai trascorso i due anni di assenza?” Praticamente ha voluto sapere tutto quello che ci era capitato. Terminato l’interrogatorio e firmato da ambo le parti il verbale, mi hanno lasciato libero: da quel momento è finito ufficialmente lo status di prigioniero. Il Comandante mi chiese quindi se volevo continuare a far parte della R.G. di Finanza, io dissi di sì e lui mi strinse la mano facendomi i migliori auguri e invitandomi a passare in un altro ufficio per il disbrigo delle pratiche relative alla mia situazione e perché mi fosse consegnato un foglio indicante mesi due di licenza per rimpatrio, allo scadere dei quali mi chiesero dove volevo essere assegnato. Io chiesi Cagliari, credo che dopo quattro anni di lontananza fosse un diritto. Fui accontentato per tre o quattro mesi, poi arrivò il trasferimento per la Legione di Venezia.  mesi dopo, praticamente sulla stessa linea, anche se al contrario, da Cagliari a Napoli.

 

EPILOGO

 

In molti si domanderanno perché ho fatto passare cinquantacinque anni prima di decidermi a raccontare questa drammatica storia. Avete ragione, ero sempre incavolato con tutti, specialmente con i politici e con la stampa, perché troppo poche volte si sono ricordati delle sofferenze patite in due anni di prigionia dai Militari Italiani Internati, rastrellati dai tedeschi nei Balcani e in tante altre località, Italia compresa, di certo non per colpa nostra ma degli Alti Comandi che, in un periodo tanto difficile, non sono stati in grado di gestire la situazione.

In questi ultimi anni, sono stato invitato dalle insegnanti di quinta classe della scuola elementare, che spiegavano ai loro alunni la Seconda Guerra Mondiale, perché volevano interessare i ragazzi all’argomento con la testimonianza di chi i fatti li ha vissuti in prima persona. In quella e precedentemente in altre occasioni mi sono reso conto che i libri di storia sull’argomento prigionieri hanno spesso sorvolato e delle stesse insegnanti, solo alcune conoscevano quel che era capitato a quei seicentocinquantamila poveracci, avendo avuto qualche ex internato tra i loro congiunti.

Io dico: si è tanto parlato della Resistenza e si poteva spendere qualche parola per rispetto a quei poveretti che, non certo per colpa loro, nei campi tedeschi ci hanno lasciato la vita. Nelle occasioni ufficiali un accenno a ricordare questi “resistenti passivi” certo non guasterebbe.

In questi giorni, gli organi d’informazione stanno dicendo che le autorità tedesche sarebbero intenzionate a stanziare fondi per rimborsare in qualche modo i prigionieri-schiavi di Hitler, costretti al lavoro coatto. Mi piacerebbe sapere dove verranno collocati i Militari Italiani Internati, certamente fuori, per il “troppo” interessamento dello Stato italiano. Personalmente, non chiedo soldi, ma almeno un atto di scusa da parte della Germania democratica di oggi per quello che ci è stato fatto dai tedeschi di allora. Voglio ricordare a tutti che, in ordine di pessimo trattamento da parte dei tedeschi, occupavamo il secondo posto, insieme coi russi, subito dopo gli ebrei. Tutti gli altri prigionieri e internati, inglesi, francesi, polacchi, belgi, greci, cechi, jugoslavi eccetera, erano sotto la tutela della Croce Rossa Internazionale, che i tedeschi erano tenuti a rispettare perché soggetti a continui controlli. Inoltre ricevevano  tante altre forme di assistenza, compreso l’invio di pacchi contenenti viveri e generi di conforto. Per noi, che non eravamo riconosciuti internazionalmente come prigionieri di guerra ma solo come Militari Italiani Internati non c’era niente di tutto questo.

 

FINE

 

 

Amedeo Usai

Selegas,lunedì 20 dicembre 1999