CALABRIA Il
sacerdote della diocesi di Locri-Gerace, 62 anni, ha lasciato la «vita attiva».
Ma la sua non è una fuga dal mondo
«Nascosto in Dio, per
amore dell'uomo»
Don Ernesto dalla parrocchia all'eremo: «La preghiera, linfa della Chiesa»
Mille anni dopo, come san Nicodemo sui monti della Limina
Giovanni Lucà
Torna alla mente qualche reminiscenza scolastica: limen in
latino era la porta, la soglia, ma anche il limite, il confine. Ecco da dove
deriva il nome Limina: dal vallo di Crasso. Dopo pochi chilometri il
paesaggio cambia totalmente; le colline riarse dalla calura, ingiallite e
secche, diventano un verde altopiano. Tappeti di felci circondati da pini e
castagni riempiono uno spazio immenso; la strada s'insinua docilmente in
questo mare di verde e dopo otto chilometri si blocca davanti ad un grande
cancello. Vi si entra a piedi da un cancelletto laterale. Un grande
basamento con pietra del luogo è stato allestito: sopra verrà collocata la
statua di San Nicodemo, il santo italo-greco vissuto nell'anno Mille che qui
aveva costruito il suo eremo. Sui quei resti negli anni '60 è stato edificato
il nuovo santuario a lui dedicato. S'intravedono a ridosso delle fondamenta
pezzi di muro di quella che doveva essere una chiesa bizantina:
l'orientamento delle tre absidi ne è la riprova. È un peccato che non si sia
fabbricato il nuovo santuario più distante, cercando di riportare alla luce i
resti antichi. All'ingresso una lapide ricorda che Michele di Santa Ciriaca,
Gaudenzio, Astinenzio e Pasquale di Palermo «raccolsero il Verbo» ed
«esaltarono la santità» dell'abate Nicodemo da Cirò. Sulla stessa scia ora si pone un parroco dei nostri
giorni: don Ernesto Monteleone. Dall'11 luglio 2000 è ufficialmente eremita:
il vescovo della diocesi di Locri-Gerace, Giancarlo Maria Bregantini, ha
firmato il decreto che istituisce la vita eremitica, ha approvato la Regola
di vita ed è salito fin quassù per raccogliere la professione solenne di
perpetua scelta eremitica. 62 anni il prossimo dicembre, don Monteleone è
sacerdote dal 1967, originario di Antonimina, a due passi da Locri, la sua
decisione è maturata sette anni fa. I tanti contatti con la Certosa di Serra
San Bruno hanno influito molto sul suo cammino. Il vescovo Bregantini era da
poco arrivato a Locri; don Ernesto gli prospettò i suoi intendimenti, il
presule non lo ostacolò ma gli disse di prendere tempo, di tentare prima un
periodo di "tirocinio". L'attrazione per la vita eremitica si fece sempre più
forte e l'approdo è stato naturale, senza tentennamenti. Appare distante dal
mondo odierno, questa scelta. Don Ernesto intuisce cosa vogliamo sapere e ci
accoglie benevolmente. Da una porta ricavata accanto all'altare del santuario
si accede alla sua abitazione. Ci sediamo davanti ad uno scrittoio piccolino,
alcuni libri riempiono le mensole soprastanti. In un angolo una stufa di
ghisa per le giornate rigide dell'inverno, quando tutto attorno è coperto di
neve. Intuiamo che dall'altra parte ci sarà il letto, il bagno e forse anche
la cucina; ma come faranno a starci? Lo spazio ci sembra troppo poco. Non si
tratta di violare la privacy, semmai ci sembra invadenza. Non chiediamo di
vedere niente più di ciò che ci mostra don Ernesto. Saio e barba bianchi, occhi vivaci, parla a bassa voce:
«Guardi che a me non piace il sacrificio e non faccio questo per punirmi. La
penitenza è un gesto d'amore verso Gesù Cristo e verso l'umanità. È un
momento di incoraggiamento e di condivisione per gli uomini che soffrono».
Chi arriva quassù potrebbe pensare che si tratta di una scelta egoistica:
aria buona, tranquillità, luoghi stupendi. «Veramente era molto più comodo
vivere in parrocchia, dove trovavo sempre la chiesa pulita, a mezzogiorno la
tavola apparecchiata; poi potevo fare un giretto con la macchina, impegnarmi
nelle varie attività e via dicendo». Allora, perché questa scelta radicale?
«Le rispondo con quanto ho scritto nella Regola di vita. Durante il ministero
che ho svolto, la celebrazione della liturgia e in particolare il mistero
velato della Santa Eucarestia, sono stati tantissimi richiami all'amore
infinito, silenzioso e fecondo di Dio e mi hanno invogliato sempre più a
donarmi completamente a Lui, in una vita nascosta». D'accordo, ma quei
sacerdoti che si dedicano ai poveri, alle prostitute, ai drogati? «Mi segua;
la Chiesa è come un albero, io mi trovo nella parte nascosta, nelle radici.
Il tronco, i rami, le foglie sono tutte componenti importanti. Senza le foglie
non ci sarebbe il ricambio dell'aria, ma senza le radici non arriverebbe
linfa al tronco e quindi alle foglie. La preghiera, la contemplazione, la
penitenza: ciò è linfa. La preghiera contemplativa è l'essenza vissuta
dell'ideale anacoretico. Sarebbe assurdo che l'albero della Chiesa fosse
composto da soli frutti o da soli rami. La Chiesa è armonia, come l'albero». Il silenzio che regna attorno accompagna le parole di don
Ernesto. E nel silenzio lo lasciamo. Riflettendo su ogni parola ascoltata, su
ogni gesto, su ogni pausa. «Il linguaggio più eloquente dell'eremita - ci ha
detto - è il silenzio perseguito in penitenza nella separazione dal mondo,
deserto esistenziale, fatto di immolata solitudine materiale, luogo
meraviglioso, pieno della presenza di Dio, dove Dio stesso si compiace di
parlare al cuore dell'uomo». |
Giovanni Lucà |