Trimestrale d'informazione dell'Associazione culturale
La Pagoda |
Località Quercia Grossa,33 -Pieve a Socana 52016 Castelfocognano (Arezzo) |
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Anno IX n° 4 ( Ottobre - Novembre - Dicembre 2007 ) |
L’avversione di Ludovico Petroni
(precedenti: trim.le 3/06; 1/07, 4/07 conclusione)
Il mio personale temperamento collerico ha avuto come naturale palcoscenico il cantiere di lavoro di turno. Gli sbotti d’ira spesso inerenti ‘il non ottenere ciò che si vuole è Dukkha’ (Dhammachakkha sutta e altrove) rappresentano per me sconfitte piuttosto frequenti. Nonostante ciò, ancora confido nella vittoria finale, o almeno cerco di notare dei miglioramenti: se anche non la posso evitare, rimango travolto dalla rabbia molto meno tempo e, solitamente, si trasforma da pulsione dolorosa da riversare all’esterno con tutti i danni del caso, in dolore sordo e muto del tipo ‘ci sono cascato un’altra volta’, che è un po’ una seconda frecciata, ma è anche un po’ compassione per me stesso e relativa assenza di danni collaterali.
Mi consolo anche considerando che la mia modalità rabbiosa, per quanto frequente e palese, forse non è la più dannosa. Ci sono modalità meno evidenti, persone per cui lo sbotto di rabbia non è un problema particolare, ma che, inconsapevolmente, mossi dall’avversione compiono importanti scelte vitali: per avversione si sceglie dove vivere, con chi vivere, come vivere ecc. Da tutto ciò mi sembra di essere poco affetto. ‘Siamo ciò che pensiamo, tutto ciò che sperimentiamo è prodotto dalla nostra mente. Ogni parola o azione che nasce da un pensiero torbido è seguita dalla sofferenza, come la ruota del carro segue lo zoccolo del bue’ (versi iniziali del Dhammapada)
Una considerazione merita la cupa afflizione della mente ipercritica, giudicante, contrariata, abitualmente votata a soffermarsi sulle negatività e sulle mancanze, finalizzata a sviluppare divergenza di opinioni. Il bicchiere è mezzo vuoto e non si vede mai ragione di gioire, se anche si fa qualcosa alla perfezione non la si apprezza. Sullo sfondo c’è un umor nero di infelicità di cui non si vedono le origini- motivazioni, ma che, anche se verbalmente inespressa, contagia i vicini ed appesantisce l’atmosfera.
A volte il soffermarsi sui difetti altrui ci consente di sollevarci nei confronti del prossimo e di coltivare un sentimento di superiorità. Altrimenti giriamo il coltello nelle nostre piaghe insanabili, alimentando un complesso di inferiorità, di inadeguatezza, indulgendo nell’insicurezza e nel dubbio che spesso risulta letale per la pratica.
Tutta l’area dei complessi di superiorità, di inferiorità ed (in Buddhismo) di uguaglianza, tutta la problematica di come siamo abituati a porci nei confronti del prossimo, mi sembra rimanga un po’ negletta, benché ci siano indicazioni di meditazione utilizzabili suggerite dal Buddha:
quale effettivamente è stato ed è, per il nostro cuore, il potere destabilizzante del piacere e del dolore, del guadagno e della perdita, della fama e dell’oscurità, dell’elogio e della critica?
Mi soffermo su questi motivi, perché sono utili ad illuminare l’area della valutazione di sé, la percezione di sé, così intimamente vincolata al giudizio che altri hanno di noi, all’immagine di noi che ci sforziamo di propinare agli altri. E soffriamo quando la nostra immagine vacilla, ci infuriamo quando l’immagine collassa, per il fallimento personale, per non esser riusciti in ciò che ci si aspettava. Nella vera sala di meditazione, che è il posto di lavoro, non mi turbano gli errori altrui, ma sbotto quando l’immagine che crolla è la mia, lasciando scoperte fondamenta di intima fragilità. A volte l’IO duole direttamente.
Potrebbe sembrare difficile discernere tra la mente giudicante-negativa ed una saggia attività di analisi. Diviene chiaro però che il borbottare di critiche e giudizi viene da un luogo di dolore, l’acume con cui si evidenziano le pecche viene da una contrazione penosa, la parola sarcastica e venata di malizia, ancorché socialmente gradita, indica paura, disagio sottile.
L’esser capaci, con grande acume e grande soddisfazione, di rilevare difetti e mancanze non è la cosa più intelligente che si possa fare, perché ciò che alimenta tale tendenza è una sotterranea dolorosa vena avversiva di cui conviene liberarsi.
Forse, qui in Toscana la prossimità tra un certo tipo di intelligenza ed una verve avversiva che conduce alla discordia è particolarmente evidente. Ci compiacciamo ancora del genio di certi personaggi di un passato in cui, per una patologica litigiosità, si divisero tra Guelfi e Ghibellini. La fazione prevalente subito si divise in Bianchi e Neri. Quando non si trova più un nemico contro cui schierarsi fuori o dentro le mura ci si infervora per tornei in cui si confrontano rioni e contrade, purchè rimanga una buona scusa per schierarsi ed eventualmente darsele di ‘santa ragione’
Il moto d’identificazione che contribuisce alla compattezza di un gruppo è tanto più spiccato nell’evenienza del confronto: siamo Italiani perché di là ci sono i Francesi, gli Austriaci ecc., se non ci fossero individui che si identificano come Francesi, verrebbe meno l’essere Italiani. Questo è un meccanismo trasversale in tutte le possibilità di comportamento sociale basilare nello sviluppo del conflitto. Probabilmente coloro pag. 7 che s’identificano come praticanti di discipline spirituali avranno conosciuto tensioni e conflitti potenziali e o conclamati legati all’appartenenza a gruppi diversificati in cui il proprio insegnamento, credo, metodo di meditazione è corretto e qualunque altro conseguentemente sbagliato.
Spero infine che questo mio contributo sia di beneficio e di chiarimento, che non produca confusione ed incertezze, perché finchè dipingeremo la vita della mente con le parole commetteremo degli errori.
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Nirvana significa
estinzione. Estinzione di cosa? Estinzione di tutte le idee: del concetto di
nascita e morte, di inizio e fine, di essere e non essere. Se sarete in grado di
toccare il livello dell'essere, il Nirvana, potrete fare esperienza di una pace
e di un benessere illimitati.
Nel Buddhismo siamo soliti parlare delle due dimensioni della realtà. La prima
dimensione è chiamata storica: tempo, spazio, essere, non essere, nascita e
morte sono visti spesso soltanto nella loro dimensione storica, ma se si tocca
la dimensione storica molto in profondità è possibile scoprire l'altra
dimensione, che è chiamata dimensione ultima. La dimensione storica e la
dimensione ultima non possono essere separate, come le onde non possono essere
separate l'acqua. Quindi, la pratica più profonda, per un meditante buddhista, è
toccare il Nirvana, la dimensione ultima.
da Thich Nhat Hanh “Padre nostro che sei nel nirvana”
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