Trimestrale d'informazione dell'Associazione culturale

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La Pagoda

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Località Quercia Grossa,33 -Pieve a Socana 52016 Castelfocognano (Arezzo)

 

 

Anno VIII n° 1  ( Gennaio - Febbraio - Marzo 2006 )

La sensualità del non-attaccamento di Rodolfo Savini

Desideri e aspirazioni sono l’anima della nostra “cultura del progresso”. (Non si affronta qui il tema opposto e per certi versi speculare, di individui e società che trovano nel passato il loro fondamento e che, anziché essere proiettate “verso ciò che sarà”, solo legate a “ciò che è stato”). Già da piccoli, ma con la scuola e con le varie attività collaterali ancor più, veniamo istruiti a cercare “in avanti” il senso di ciò che accade “ora”.  Nello sport, per esempio, si può osservare come di frequente i genitori “gasino” i propri figli ad ottenere risultati che gratifichino in primo luogo loro stessi anziché i figli e tutto ciò a scapito di un’educazione volta ad apprezzare lo sport come divertimento. La competizione stravolge il senso di ciò che facciamo. L’altro non è più un “compagno di gioco”, ma l’ “avversario” che si materializza in un vero e proprio “nemico” da sopraffare con ogni mezzo, anche ricorrendo a “sostanze” sleali.

Certo che l’essere i migliori, l’emergere sugli altri può assumere un aspetto liberatorio sia da quella staticità che può caratterizzare la vita in campagna, sia da quelle società  esplicitamente o implicitamente divise in “caste” che obbligano in specifici ruoli senza possibilità di scampo, sia ancora come opportunità tale da scuoterci dal torpore che accompagna di frequente la nostra quotidianità.

Ci dobbiamo chiedere allora se desideri, aspirazioni, progresso siano  di ostacolo alla crescita interiore dell’uomo e allo sviluppo sociale oppure li promuovano.

Da un lato vediamo che il mettere in discussione questa “pulsione al volere” è visto senza dubbio come la più arrogante minaccia al benessere, a quel filo conduttore di ciò che chiamiamo “storia”, la “storia del progresso”, che però è anche storia in cui alle guerre viene data più importanza che alle paci (almeno si potrebbe fare il contrario!)

Dall’altro però, mentre tutto ciò avviene, la dimensione sociale non riesce a celare e sottacere il confronto, in un modo o nell’altro, con quel “buco” della nostra intima miseria di cui parla, poco sopra, Ludovico. Chi non trascura questa voragine cieca è lo squallore di certa televisione che si compiace di farlo emergere come “spettacolo” da gustare a “scapito degli altri” mai come una “realtà”, anche la “mia” realtà..

Abbiamo appreso a coprire quel buco con le nostre micro-pianificazioni che servono, per lo più, a dare un senso a ciò che facciamo, anche se queste confinano inevitabilmente assai da vicino con altrettante micro-frustrazioni, dovute al fatto che il nostro “sì” non è capace di fare i conti con i “no” della vita. 

Ciò che prevale in questi casi è la dimenticanza di sondare le radici del dissapore, che da un nonnulla scivola versa la strada maestra della conflittualità.

Queste micro-pianificazioni sono il frutto e concorrono a loro volta ad alimentarlo, di una cieca “cultura del progresso”, dove l’attenzione è sempre al “dopo”, ad un “futuro” irraggiungibile e incapace  di appagare non solo della mia esistenza, ma dell’esistenza tutta. 

Quello che sembrava relegato ad “un quotidiano”, il “mio”, è anche una chiave di interpretazione collettiva e sociale, in un circolo vizioso che, anche qui, si auto-alimenta.

Individuo e società, avidamente proiettati verso un risultato, non tengono conto dei “rifiuti” che si lasciano alle spalle: risentimenti e frustrazioni da un lato, povertà e fame, inquinamento e danni ambientali dall’altra.

Già solo intravedere questi limiti, il puzzo di queste “discariche” immateriali e materiali che siano, potrebbe stimolare a prendersi cura di questa “voracità” della mente e della società, perenni fonti di ansia e di conflitto.

In quello che avevamo individuato come buco del “non-senso”, intravediamo ancor più una voragine che vorremmo negare con ogni stordimento. È la voragine della nostra miseria fatta di  micro e macro desideri frustrati, che sorgono dall’esserci troppo sbilanciati in avanti, come detto, ma anche, ricordiamolo, troppo indietro, dove i desideri assumono la forma di “nostalgie”. Metterli a confronto con la morte, apice della frustrazione, potrebbe servire come efficace medicina? Chissà se dalla morte si dovrà rifuggire o sottacerla con qualche ubriacatura, oppure se potrà essa stessa educarci ad  un  “desiderio senza voracità”?

Ci si potrebbe accorgere della poca libertà che vi è nel nostro “desiderare-volere”. Quella vantata “libertà” potrebbe essere soltanto il frutto già noto di un condizionamento latente, non ancora riconosciuto e che, come un fantasma, riprende sembianze diverse, senza cambiare però la propria natura..

E’ vero che nel simbolismo della “Ruota della Vita” della tradizione tibetana, come ricorda Ludovico nelle sue riflessioni (vedi sopra), queste forze prendono una forma e meglio si “fanno scorgere”. Esse appaiono con disagi e sofferenze inasprite dall’ “attaccamento”. Se non ci accorgiamo della “sete” che abbiamo, del desiderio incolmabile che accompagna i nostri sensi e gli organi del nostro corpo, questi senz’altro correranno all’impazzata e noi “appresso” a loro.

Nessuna diga, per quanto imponente sia, riuscirà mai a fermare quel

possente fiume del desiderio sfrenato. Rassegnazione allora? Forse si dovrebbe vivere così, come dice Baudelaire: “Quasi tutte le nostre infelicità giungono a noi poiché non abbiamo saputo restare nella nostra camera”. Qui si potrebbe intuire il senso della vita di clausura o quella dell’eremita, di chi si chiude nel proprio mantello come fa quel  beduino nel deserto al sollevarsi della tempesta di sabbia.

Forse la “sete” scaturisce dal “vedere” qualcosa che sembra  migliore o dal “rifiutare”, ugualmente, ciò che sembra peggiore; nasce dal confronto valutativo e competitivo.

Riuscire ad entrare in “contatto” con la realtà esterna, l’avvalerci dei nostri sensi (fortunatamente ne abbiamo solo cinque, più la mente!), avvertire la prepotente sete che ne nasce può già essere un modo per smussare il disagio-dolore della perenne insoddisfazione del presente.

Un progresso senza il motore dell’attaccamento potrà mai diventare il senso della nostra esistenza? Oppure l’avidità egoica  continuerà a rivolgere contro noi stessi le nostre stesse scoperte? Educarci ed educare a queste domande potrebbe portare ad un progresso non egoico, ad un progresso altruista, ad una crescita nel rispetto dell’altro e alla necessità intima di aiutarlo, con ogni “mezzo”, verso il proprio benessere, che è sia suo che nostro. O tutti progrediremo o nessuno riuscirà a progredire a scapito degli altri, le rivoluzioni saranno sempre pronte ad impedirglielo. La vita ci costringe a mangiare con un cucchiaio dal manico lunghissimo: non potremo mai nutrire noi stessi, mentre si potrà nutrire chi ci è di fronte. Al desiderare per gli altri, gratuitamente, senza aspettarci che gli altri facciano lo stesso con noi è forse uno dei significati più profondi dell’educazione. Non c’è da aspettarsi nulla, perché si ha la certezza che prima o poi impareremo a farlo. È nella necessità della vita; “apprendere” l’altruismo è evitare che si venga “costretti” a farlo.

Come può essere vero ciò che dice il venerabile Sayadaw U Pandita: “Ogni pensiero può sorgere in qualunque mente in qualunque momento. Come se non fossero nostri. Che sollievo!”?  Perché questo sollievo? Come può esservi sollievo in questo mare di egoismi? Di chi sarebbero questi pensieri allora? Forse che il turbine di quella tempesta egoica che agita e sommuove il fango dello stagno, potrebbe placarsi e divenire un soffio di vento, o addirittura una brezza leggera? Se così fosse allora si potrebbe scoprire con stupore che, guardando in profondità nello specchio d’acqua di quello stagno, non scorgeremo più la nostra immagine, ma quella di tutto ciò che è.  Non solo di ciò che è bello e piacevole, purtroppo anche di quel fango che, agitandosi, incupisce e acceca.

 

Che possa sorgere il desiderio di guardare quella melma che è depositata nell’intimo di ognuno, e che invano vogliamo rimuovere con mille sotterfugi. Che si possa avere il desiderio di raccoglierla  con la mano ferma di chi comprende, un po’ più, il dolore che vi è riposto. “Liberarci” e “liberare”. Che ci si possa accorgere che il  dolore che accompagna quel “fango” aiuti a rendere meno radicato un tipo di desiderio e ad incoraggiarne il sorgere di un altro. Forse il barlume di una nuova “comunità”, un sangha “assetato” anch’esso, ma di comprensione e compassione. Che sollievo!

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