Trimestrale d'informazione dell'Associazione culturale

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La Pagoda

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Località Quercia Grossa,33 -Pieve a Socana 52016 Castelfocognano (Arezzo)

 

 

Anno VIII n° 3 ( Luglio - Agosto - Settembre 2006 )

L’avversione  di Ludovico Petroni 

 

Nel fulcro della ‘Ruota della vita’, oltre al galletto che simboleggia la bramosia, c’è anche il serpente che simboleggia l’avversione.

 

 

 

Con il termine generico di avversione si intende una moltitudine di variegati stati mentali accomunati da una matrice negativa, che hanno la loro origine in un contatto spiacevole, il ‘dover stare con ciò con cui non vorremmo stare è Dukkha’ (dhammachakkha sutta e altrove).

Si va dalla rabbia, alla gelosia, all’irritazione,  all’invidia, all’odio (verso se stessi e verso gli altri), alla contrarietà, alla mal disposizione d’animo, all’umor nero, fino alla negatività più sottile della mente ipercritca, giudicante, appassionata a trovare ed evidenziare difetti e mancanze con grande acume.

Per riconoscere le emozioni caratterizzate da matrice avversiva, si potrebbe considerare che esse sono tutto ciò che ‘offre resistenza’ all’azione purificatrice della Metta, la meditazione sulla Benevolenza, che è la disposizione mentale opposta all’avversione ed il suo antidoto naturale.

Non ci dovrebbe esser bisogno di soffermarsi sul danno che certe pulsioni negative come l’odio portano nei rapporti umani attraverso contrasti e conflitti. Invece, non sempre è chiaro il danno portato dalle altre più sottili sfumature avversive, che,  comunque, solitamente conducono all’abbandono, alla penosa solitudine degli individui e alla disgregazione sociale.

Avendo a cuore l’aspirazione alla Comprensione Profonda della mente e della vita, è opportuno considerare  come l’avversione impedisca di veder bene. Sia nel senso che non si vede ciò che c’è, sia nel senso che si vede ciò che non c’è!!

E’ stato detto che provare avversione verso qualcuno\qualcosa è come afferrare una manciata di brace con l’intento di scagliarla contro l’oggetto della nostra rabbia. E’ possibile che si riesca a ferire qualcuno, ma è certo che, prima di tutto,  ci ustioniamo la mano. Questa è la prospettiva che ci interessa: il percorso doloroso della rabbia comincia nel cuore di chi la sperimenta, per poi eventualmente espandersi direttamente ed indirettamente all’esterno.

Spesso, la persona che provoca la nostra rabbia non ne sentirà minimamente le conseguenze. Prendiamo per esempio il 1° ministro che, in questo paese, è prima o poi coralmente odiato da qualunque parte provenga. Per qualche motivo, oggi abbiamo deciso (perché si decide!) che Mr X in questione merita tutta la nostra sacrosanta rabbia (che è sempre sacrosanta). Cominciamo quindi a percorrere il noto itinerario di arroventamento per mezzo del turbine dei nostri pensieri: -Mi ha insultato, mi ha ferito, mi ha ingannato, mi ha derubato, se coltivi questi pensieri vivi immerso nell’odio- (pagina iniziale del Dhammapada). E’ molto improbabile che il 1° ministro ne rimanga colpito.

I nostri pensieri di avversione influenzano il corpo (e viceversa). Ci ritroviamo un corpo rovente che emana naturalmente il suo insano calore. E non è che il calore rimane circoscritto ed indirizzato verso l’area di presunta origine ( il 1° ministro, il collega di lavoro, il vicino di casa). Una rabbia coltivata sul posto di lavoro non si interrompe sulla soglia di casa, quando giriamo la chiave nella serratura, per accedere al nido delle persone più care.

Il calore del nostro cuore arroventato ha sempre investito le persone più vicine, spesso i nostri cari.

Un po’ come se puntassimo un’arma contro un nemico, ma la caratteristica della nostra arma è che, tirando il grilletto, la canna esplode ferendo noi per primi e chi ci sta intorno.

Cioè le conseguenze vicine e lontane del nostro indulgere in pensieri avversivi non sono circoscrivibili, prevedibili, calcolabili, programmabili, definibili ….

Se non si sa chi e quando la nostra rabbia finisca per colpire, allora non è più neanche certo da dove ci arrivi, chi o che cosa l’abbia provocata in noi. Cioè, la nostra rabbia può non venire dal 1° ministro, dal collega di lavoro o dal vicino di casa: potrebbe esser causata da qualcun altro, magari prima.

Se accogliamo questa prospettiva di incalcolabile contagiosità dell’avversione, ci ritroviamo a guardare con grande circospezione a tutte quelle versioni della rabbia che abbiamo sempre considerato utili, benefiche o utilizzabili.

L’odio non sarà più utilizzabile per portare la pace nel mondo. La coercizione punitiva, così popolarmente diffusa,  non potrà più essere utilizzabile per educare dei cuori ad essere effettivamente liberi da rancori ed animosità. Non sarà più possibile lasciar prosperare malerbe di avversione in angoli del proprio giardino, quando altrove, devotamente, ci impegniamo alla bontà e alla purezza di cuore.

L’estinzione dell’odio conoscerà una radicalità tale che altre tendenze avversive meno palesi e più subdole verranno a loro volta riconosciute e neutralizzate.

Se ci caliamo in questa prospettiva di potenziale incontrollabile contagiosità dell’avversione, vediamo con chiarezza perché un contesto sociale in cui una qualche forma di avversione viene coltivata,  magari per i fini più nobili, quale migliorare il mondo, finisca per esser logorato, paralizzato e disintegrato dai conflitti intestini.

Potrebbe essere che certi obbiettivi preferenziali della nostra avversione siano solo la scintilla occasionale, la scusa che ci consente di attingere al caro vecchio deposito di tossine da cui appassionatamente dipendiamo.

Effettivamente tossicodipendenti, agiamo per procurarci quella rovente sensazione intima, quella penosa contrazione dell’essere, compagna di una sottile seduzione: la rabbia ci procura un vibrante moto di identificazione personale – io sono colui o colei che non sopporta questo o quest’altro, che non accetta quello o questo-

 

Questo importante moto di identificazione è un motivo fondamentale del nostro ricorrere alla rabbia, che di per sé non è difficile da riconoscere, sia nell’ambito del ritiro intensivo sia altrove.

Nonostante ciò liberarsene non è affatto facile. L’attaccamento ad essa consiste in gran parte nella giustificazione razionale. Abbiamo il diritto di arrabbiarci. Abbiamo ragione ad arrabbiarci. Troviamo sempre validi motivi di arrabbiarci (la rabbia è sacrosanta!).

Risulta evidente una fase in cui alla rabbia s’innesta ciò che chiamiamo ‘orgoglio’, cioè un appassionato coinvolgimento dell’IO, destinato a nascere miriadi di volte in un’esistenza. E’ l’inalberarsi, il ‘montare a cavallo’, ci ergiamo su di un piedistallo di ultragiustizialismo, ove l’offesa subita macchia la nostra presunta estrema purezza ed integrità morale. Ciò è funzionale solo al sentirsi feriti in modo più traumatico, risulta utile per potenziare in modo esponenziale le ragioni del nostro risentimento (si noti il significato più letterale ed indicativo della parola ri …sentire).

 

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