Trimestrale d'informazione dell'Associazione culturale

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La Pagoda

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Località Quercia Grossa,33 -Pieve a Socana 52016 Castelfocognano (Arezzo)

 

 

Anno VII n° 3 ( luglio - Agosto - Settembre 2005 )

La Rivelazione di Buddha: alcuni Testi antichi sull’equanimità 

accompagnati da brevi riflessioni   di Rodolfo Savini

 

 Il discorso del rinoceronte

Suttanipata, 3,73   -    p. 855

“Praticando nei momenti appropriati la gentilezza amorevole, l’equanimità (upekkha) e la compassione, la liberazione e la gioia partecipe, da nulla al mondo ostacolato, proceda solitario come un rinoceronte”

        

Il racconto del ricordo delle vite precedenti

Visuddhimagga, 13, 40   -    p. 80

 “Coltivate, o mortali, la benevolenza, la compassione, la gioia partecipe e l’equanimità (upekkha), abbiate cura di vostra madre, di vostro padre, e in famiglia onorate chi è più anziano di voi” 

 

Queste quattro “Dimore divine” Brahmavihara (benevolenza,  compassione, gioia partecipe e l’equanimità) ci introducono al contesto in cui l’equanimità può alimentarsi e alimentare la nostra interiorità, il rapporto con il mondo esterno con le diverse circostanze che ci presenta. In questo modo si acquisisce la sensibilità ad avvalersi di “mezzi abili”, tali da produrre azioni appropriate e salutari. Tra queste Buddha ricorda il rispetto, prima di tutto verso quell’età che oggi trascuriamo; vista come un inciampo che non insegna più nulla, o forse solo il dover pagare assistente o casa di riposo. Una giovinezza che pretende in tutti i modi di restare tale e che vede, nel correre degli anni, solo un peso di cui disfarsi. Scivolamento verso la povertà di un ospizio

 

 

L’equanimità

Il grande discorso della dottrina della brama

Majjihima Nikaya , 38   -    p. 42

“Costui, veduta con la vista la forma, sentito con l’udito il suono, odorato con l’olfatto l’odore, gustato con il gusto il sapore, toccato con il corpo un oggetto tangibile, conosciuto con la mente l’oggetto della mente, non si attacca allora  alle forme, ai suoni, agli odori, ai sapori, a ciò che è tangibile e agli oggetti della mente gradevoli, né schiva quelli spiacevoli; consapevole del corpo, egli non vive più senza chiara coscienza, senza conoscere la liberazione della mente, la liberazione della saggezza, in cui gli stati mentali negativi e nocivi cessano senza residuo. In tal modo egli non è più in balia di contentezza e scontentezza e, qualsiasi sensazione provi, - sia essa piacevole, spiacevole o neutra –, non l’approva, non la saluta, non vi si attacca e, così facendo, cessa in lui il godimento. Dunque dalla cessazione del godimento segue la cessazione dell’appropriazione, dalla cessazione dell’appropriazione, la cessazione del divenire; dalla cessazione del divenire, la cessazione della nascita; dalla cessazione della nascita la cessazione della vecchiaia e della morte, della pena, dei lamenti, del disagio, dell’angoscia e della mancanza di serenità. E così si ha la cessazione di tutto quest’aggregato di dolore.

O monaci, in breve, ritenete tutto ciò come la liberazione mediante l’annientamento della brama; considerate il monaco Sati, il figlio del pescatore, impigliato nella gran rete della brama, fra i lacci della brama.

Così disse il Beato. Contenti i monaci approvarono le sue parole”

 

Certo che tutto ciò che piace e non piace, o ciò su cui siamo incerti e dubbiosi ha un varco dentro di noi; ai nostri sensi si aggiungono le molteplici attività mentali, che conducono l’uomo verso il legame o verso la liberazione da tale legame, verso una condizione di crescente confusione-ignoranza o verso una di non-dipendenza, di libertà dall’attaccamento/avversione, di liberazione.

Su qualcosa cade un velo, sul mondo di ciò che può nascere e quindi inevitabilmente morire, ma allo stesso tempo se solleva un altro su ciò che è senza-morte, il nir-vana. Tramonta l’attaccamento a ciò che è tangibile, a sensazioni e oggetti percepiti come spiacevoli, ma al contempo anche su quelli d’aspetto opposto.

Queste formazioni mentali si sgretolano senza residuo. Buddha, con la sua esperienza, dice che allora la mente non sarà più in balia di contentezza e scontentezza. Quel godimento superficiale, quell’appagamento (sempre minacciato dal suo opposto) nasconde un forte senso di attaccamento, il “lo voglio” è nutrito dalla presa dell’io-mio, che tradotta ci dice: “me ne voglio appropriare”. Pretendo, che resti o divenga mio (se mi alletta, il contrario se lo rigetto) ciò di cui ora mi accorgo, ciò che è sorto nella mia mente attraverso i sensi., ciò che è apparso, dimentico che anche questa presa invecchierà sino a perire, lasciandomi nuovamente nella mia solitudine inappagata.

Questa brama lacerante con cui ci confrontiamo quotidianamente già nel piccolo è ciò che, dice Buddha, ci priva di serenità. La mancanza di serenità è mancanza di pazienza nei confronti delle nostre incertezze, è assenza di quella giusta comprensione che permette di vedere ciò che accade, è oscuramento dell’equanimità. Qualcosa serve, ogni giorno, nei molteplici piaceri e disappunti. Serve la capacità di vedere, anche solo per un istante, per il tempo di contare dieci respiri, o sette, o anche solo tre, ciò che accade prima che sorga, con irruenza, il peso dei miei comportamenti stereotipi, lo scontato delle abitudini. Tutto comincia a trasformarsi allora e i miei sensi sono meno dipendenti dai variegati colori dell’appariscenza e così le mie attività mentali, meno soggette al timore delle tinte più oscure o al fascino di quelle più sfavillanti. Serenità, equanimità,  grande comprensione si diffondono in questi spazi di libertà. e, inavvertite, compiono la loro opera.

 

 

L’equanimità del Tathagata

Il discorso dell’esempio del serpente

 Majjihima Nikaya, 22   -    p. 246

“O monaci, così dicendo, così proclamando, alcuni asceti o brahmana mi hanno rappresentato erroneamente, senza fondamento, vanamente e falsamente nel modo seguente: “L’asceta Gotama è uno che svia dalla retta strada; egli insegna l’annichilimento, la distruzione, la non esistenza di un essere vivente”. Poiché, o monaci, io non sono né un nichilista, né proclamo il nichilismo, alcuni asceti e brahmana mi hanno rappresentato erroneamente, senza fondamento, vanamente e falsamente hanno detto: “L’asceta Gotama è uno che svia dalla retta strada: egli insegna l’annichilimento, la distruzione, la non esistenza di un essere vivente”.

O monaci, in passato e ora, quello che io insegno è una cosa soltanto: la sofferenza e il superamento della sofferenza. Se altri, o monaci, abusano, oltraggiano e rimprovero il Tathagata per questo motivo, egli non prova in sé alcuna rabbia, astio o scoraggiamento. Se altri poi onorano, rispettano, riveriscono e venerano il Tathagata per questo motivo, egli non prova in sè alcuna forma di diletto, giubilo o esaltazione. Se altri onorano, rispettano, riveriscono e venerano il Tathagata per questo motivo, egli, al riguardo, pensa così: “essi si comportano così verso di me in virtù di quello che prima hanno pienamente compreso”.

Perciò, o monaci, se altri abusano di voi, vi oltraggiano e vi rimproverano, voi, al riguardo, non dovete provare alcuna forma di rabbia, astio o scoraggiamento. Se altri poi vi onorano, vi rispettano, vi riveriscono e vi venerano, voi, al riguardo, non dovete provare alcuna forma di diletto, giubilo o esaltazione. Se altri vi onorano, vi rispettano, vi riveriscono e vi venerano, voi, al riguardo, dovete pensare così: “Essi si comportano così verso di noi in virtù di quello che prima hanno coscientemente compreso”.

 

Nichilismo e annichilimento. Dissodare l’incolto occorre battere forte in terra. La crosta si lacera, sembra che di lei più nulla rimanga. Nichilismo, annichilimento. Necessità perché qualcosa di nuovo venga seminato, qualche pensiero appropriato, qualche azione salutare.

Azione e reazione. C’è chi insorge oltraggiando, c’è chi esalta venerando. La rabbia, l’astio o lo scoraggiamento potrebbero sorgere, da un lato, come dall’altro le formazioni mentali del diletto, del giubilo o dell’esaltazione. Di qua e di là l’io-mio viene travolto; le radici dell’attaccamento all’immagine di sé vengono scosse perchè si reagisce sentendosi feriti o perché ci si gonfia nell’autoappagamento.  Può anche accadere, nel primo caso, che quel giudizio svilisca ancor più la propria identità confermando ulteriormente la propria inettitudine (con un ulteriore aggravamento di quella mancanza di energia, che invece, coltivata, costituirebbe un importante fattore di illuminazione).

Equanimità, serenità conquiste di un “io che si spoglia di sé”, che da protagonista indiscusso, diviene un io che attraverso forme, suoni, odori, sapori, tatto e attività mentale sa semplicemente meglio guardare e comprendere.  Maestri, questi ultimi, capaci di condurlo, paradossalmente,  al dissolvimento di ogni resistenza egoica.

 

La notte del risveglio

Il discorso sui due generi di pensiero

Majjhima Nikaya, 19   -    p. 390

“(…) entrai nel terzo stato di assorbimento meditativo, e sentii nel corpo quella letizia per cui i nobili dicono: “Equanime, consapevole e dotato di presenza mentale, egli lietamente dimora”. Dopo di ciò, cessata la letizia e cessato il dolore, scomparsi la felicità e lo scoramento, entrai e dimorai nel quarto stato di assorbimento meditativo, caratterizzato dalla purezza dell’equanimità (upekkha) e della consapevolezza e privo di dolore e di letizia”

 

Buddha si apre raccontando i diversi stati di assorbimento meditativo avvenuti durante il suo grande risveglio. Nel primo, pur nell’isolamento della mente dagli oggetti dei sensi, ancora permane il pensiero discorsivo. Nel secondo la gioia è sorretta dall’assenza di pensiero discorsivo. Nel terzo emerge l’equanimità ancora pervasa da beatitudine e chiara consapevolezza. Nel passo ulteriore svaniscono anche piacere e sofferenza, valicati da purezza ed equanimità.

Da un’indifferenza per sé e per il mondo lo sguardo del Risvegliato trabocca in comprensione che non parteggia, in equanimità che tutto sostiene.

Nel perenne rumore tra chi prevarica e chi è sopraffatto, tra chi vuole e chi rifiuta, tra ciò che pretendo e ciò che rigetto, la sua pace cala come pioggia che rinfresca, come pioggia che nutre, come pioggia che lava. Compassione, benevolenza, gioia partecipe, equanimità: le quattro “divine dimore” che, auspichiamo, possano divenire anche le nostre.

 

Il numero di pagina dei passi scelti citati si riferisce a La Rivelazione del Buddha volume I  Testi antichi, Mondadori (I Meridiani), 2001.

 

   

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