Trimestrale d'informazione dell'Associazione culturale

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La Pagoda

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Località Quercia Grossa,33 -Pieve a Socana 52016 Castelfocognano (Arezzo)

 

 

Anno V n° 1 ( gennaio - febbraio - marzo )

Sul Sangha, sulla Comunità di praticanti

di Luciana Favorito

"… Il Sangha è strutturato, formato e generato anzitutto dalla pratica dei componenti del sangha stesso: è la pratica il principale motore, il principale generatore della comunità spirituale, sia la pratica fatta insieme, sia quella individuale. Se non c’è una pratica individuale non si forma un vero sangha. Un altro ingrediente è lo studio che serve alla pratica. Naturalmente sangha non significa perfetta comunità; sarà una comunità con luci ed ombre, conflitti, ecc… credo che sia anche importante investigare quali sono le nostre aspettative nei suoi confronti e nei confronti degli altri praticanti, e quindi quali sono le aspettative verso noi stessi in quanto praticanti. Tutto ciò aiuta la motivazione e la chiarezza. Un’ultima considerazione che vorrei fare sul sangha riguarda la pratica in crescita dei suoi componenti. Questo non si riferisce necessariamente ad una crescita di impegno nel tempo durante le giornate, ma certamente a un crescente investimento della nostra vita e delle nostre giornate nella pratica. Perché se non è crescente allora non è viva. Se è una pratica così così (che non cresce) diventa la pratica "soprammobile", non la pratica "pianta che cresce", che è quella che nutre un sangha. Un sangha di pratica, un sangha vivo, non è un sangha ideologico o di facciata".

Queste mirabili considerazioni di Corrado Pensa tratte da "Insegnamenti del Buddha sulla pratica del dharma 1997-98", contribuiscono ad arricchire ed a chiarire la discussione sul sangha che si è avviata nella nostra piccola comunità.

Il sangha riflette la maturazione spirituale di ogni singolo componente, il quale a sua volta riflette il carattere spirituale del sangha di cui è parte. È proprio questo rapporto reciproco e questa interazione spirituale che dà sostanza e sostegno alla comunità. Io credo che l’impegno crescente, la costanza e una motivazione sempre rinnovata alla pratica producano in ciascuno di noi un atteggiamento di "sana" responsabilità verso l’altro, di protezione e di solidarietà, quasi un’ aspirazione a custodire una cosa così preziosa come la comunità di cui abbiamo scelto di far parte. Del resto il Buddha attribuì un’ importanza eccezionale alla comunità; il sangha è uno dei "tre rifugi del buddista" e quindi è stabilito nel cuore stesso del sentiero spirituale. Questa è la ragione per la quale l’insegnamento del Buddha è sopravvissuto per venticinque secoli.

"O Monaci, rispetto a qualsiasi comunità o gruppo di persone, il sangha dei discepoli del Tathagata è considerato un sublime oggetto di serena fiducia. Coloro che hanno serena fiducia nel sangha hanno serena fiducia in ciò che è sublime, e per coloro che hanno serena fiducia in ciò che è sublime il risultato sarà sublime"

Le parole del Buddha non sono solo l’espressione tout-court della tradizione dogmatica e formale, ma, come dice Corrado Pensa, "la sperimentazione viva di insegnamenti e di pratiche che si è tramandata di generazione in generazione. Quando ci si rende conto della bellezza, ma anche della vastità, della complessità e dell’impegno del lavoro interiore, allora si apprezza molto quel sostegno impareggiabile che è una tradizione, con le sue scritture e i suoi insegnamenti" E che cosa è la "serena fiducia" cui si riferisce il Buddha? È la fiducia nell’altro, è l’empatia che applico "intenzionalmente"nell’ascolto dell’altro, è l’accettazione senza giudizio. E l’accettazione di per sé ha potenzialità formidabili nel processo di unione e integrazione con il tutto, poiché promuove la crescita interiore nostra e degli altri. Ma tutto ciò non viene da sé, spontaneamente; sorge invece dalla nostra pratica, dalla "risoluzione" e dall’ "intenzione" ("retta intenzione") ad applicare la consapevolezza, la compassione, la retta parola e il retto ascolto. Per questo credo che sia di fondamentale importanza la condivisione e l’approfondimento del Dharma attraverso la lettura e la meditazione su temi ed aspetti specifici della pratica e più in generale del lavoro interiore. Se pensiamo invece che la pratica del sangha sia solo quella formale che condividiamo per quaranta minuti e poi nel confronto con gli altri ci rituffiamo negli abissi dell’identificazione, nell’avijja, allora ecco che trasferiamo nella comunità le nostre vecchie problematiche di sempre: quelle che ci assillano in famiglia, nel lavoro, ecc.

Personalmente ho avuto modo di sperimentare proprio queste dinamiche; mi sono accorta di trasferire nella comunità alcuni schemi mentali che attivano inconsapevolmente paure, ansie e atteggiamenti di chiusura. Questa scoperta, frutto dell’investigazione interiore, mi ha spinto a lavorare con maggior risolutezza e costanza sperimentando (sati) un contatto maggiore con me stressa e anche un sentimento di "responsabilità" verso i compagni del sangha. Se la vera pratica progredisce e avanza, essa sarà in grado non solo di sorreggere ma anche di alimentare quella dell’altro e viceversa. La crescita interiore non è solo un cammino individuale, ma è anche un processo che si svolge in una relazione universale.

"Certamente – ci ricorda Corrado Pensa – non sarà una comunità perfetta, sarà fatta di ombre, luci e conflitti".

Io credo, infatti, che dobbiamo sentirci liberi di esprimere totalmente il nostro punto di vista, i nostri dubbi, le paure, le incertezze e il disagio senza alcun condizionamento; altrimenti non sarebbe un sangha autentico e non servirebbe a nulla. Non sono i conflitti in sé e nemmeno le diversità di opinione, che anzi sono fonte di ricchezza e di crescita a creare disarmonia e separatezza. È invece l’ "attaccamento" al giudizio che in sé può essere giusto; è quella carica avversiva, condannante e censoria che accompagna il giudizio, che ci separa dagli altri e affievolisce la fiducia del sangha. Qualcuno dice: "I conflitti fanno crescere". Io penso che i conflitti possano essere fattori di crescita quando noi ci sforziamo di affrontarli con "discernimento" (retta comprensione, sati) e compassione poiché vuol dire che a "guidarci" nella loro gestione e soluzione non sono i nostri stati emotivi di cui siamo in balia, ma appunto la comprensione e la solidarietà. Se essi sono invece semplicemente il prolungamento della nostra sfiducia e avversione e "scegliamo" di alimentarli, convinti di sentirci liberi di esprimere la nostra opinione, allora essi divengono soltanto un fattore di divisione e di "rimozione" prima di tutto per noi stessi e poi per gli altri; poiché in quel momento non stiamo affatto esprimendo la nostra "libertà", ma al contrario la nostra "egoità" e ignoranza (avijja), cioè la nostra prigione interiore. Siamo liberi di farlo naturalmente, nessuno ce lo vieta, ma incontrarsi così non serve a nulla; o perlomeno non serve al nostro "intento" di liberazione. Servirà a qualcosa d’altro.

Che cosa mi aspetto da me stessa e dalla comunità della Pagoda? Appamada, sollecitudine, karuna, compassione: sollecitudine e attenzione verso la pratica, l’investigazione verso la "comprensione" che illumina la realtà del mio "essere" e allenta la morsa dell’ignoranza e della sofferenza. Compassione, empatia e accettazione di me stessa e dunque degli altri, del tutto. Ma mi aspetto anche un ambiente e un clima dove la consapevolezza sia incoraggiata e non ostacolata da una visione dualistica.

Voglio terminare questo scritto, così come l’ho iniziato, con le parole di C. Pensa:

"Se mettiamo la pratica innanzi a tutto, essa ci traina in avanti, se la mettiamo in secondo piano rimane marginale e non ci farà avanzare".

Grazie.

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