Trimestrale d'informazione dell'Associazione culturale

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La Pagoda

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Anno V n° 2 ( Aprile - Maggio - Giugno )

Superare il dolore, soprattutto quello inutile

Tavola rotonda all’Ospedale S. Donato di Arezzo

il 13 aprile 03 per riflettere tra religioni e culture

a cura di Rodolfo Savini

Il titolo dell’incontro promosso dai medici dell’Usl 8 di Arezzo e dell’Ospedale S. Donato è stato molto impegnativo: il "dolore inutile". Intorno a questo tema si è svolta la Tavola rotonda, aperta non solo al personale che più direttamente si confronta e si scontra con il disagio e la sofferenza di chi ha perso la salute, ma anche alle religioni e alla cultura laica in una prospettiva che ha dilatato il problema ad una dimensione diversa, che aiuta a porre domande sulle quali spesso si sorvola, presi come siamo dall’esigenza di una cura immediata.

Il Sindaco di Arezzo, l’ing. Lucherini, ha sottolineato i diversi aspetti che può assumere il dolore, da quello fisico a quello psichico ma ancor più difficile è coglierne le cause, che si annidano spesso in questioni sociali irrisolte. L’incontro, che si è svolto in Ospedale, ci ha posto direttamente al cospetto di una esigenza particolare, quella di un Ospedale che affronti la sofferenza del malato, senza amplificarla per trascuratezza, né con terapie inadeguate, né con cure non idonee.

La dott.ssa Mattesini, Assessore all’Istruzione della Provincia, ha constatato come il dolore sia drammaticamente parte della vita e come i giovani siano incapaci ad affrontarlo scivolando verso facili "fughe". Il dolore inutile può scaturire anche da un Ospedale che ha difficoltà ad assistere il malato una volta dimesso e reintrodotto a casa senza un adeguato supporto offerto a lui e ai suoi familiari.

Il dott. Burbi, Direttore Sanitario dell’Ausl 8, ha ricordato la necessità di continuare a vedere nel malato sempre un cittadino che momentaneamente ha perso la sua condizione di salute. Il dolore da un lato è utile, se non ci fosse non saremmo indotti ad andare dal medico e a farci curare, le malattie più insidiose sono infatti quelle che non danno sintomi. Da un altro lato occorre aiutare il paziente a superare quel dolore che può essere vinto, soprattutto al cospetto di quelle malattie incurabili fonte di grandi sofferenze.

Il Direttore del Presidio Ospedaliero di Arezzo, il dott. Gialli, ha anche lui ricordato come gli Ospedali della Toscana abbiano avviato una "rete per la promozione della salute". Il dolore non va nascosto, ma va reso meno "inutile" sia coltivando, da parte degli operatori, una maggior sensibilità verso i malati, sia rivolgendo più attenzione alla qualità delle terapie, sia ricercando farmaci più idonei.

Il dott. Fineschi, Presidente del Comitato Etico dell’Ausl 8, ha svolto una riflessione sul termine stesso di "malato", che è sì un cittadino, ma un cittadino in svantaggio per la sua salute momentaneamente in crisi. Può anche essere visto come un utente e in tal caso l’Ospedale sarebbe un erogatore di servizi, ma tra "paziente" e medico prevale sempre una relazionalità asimmetrica che non pone i due soggetti sullo stesso piano.

L’Ausl 8 e l’Ospedale S. Donato hanno avvertito l’esigenza di spingersi verso una dimensione multiculturale della cura. La "terapia" si apre così indubbiamente ad una serie di prospettive differenti, locali, regionali, etiche, culturali e transculturali. Dal dolore come sintomo da curare ci si è immersi così verso un dolore che si presenta come una sfida quotidiana: il problema "salute" apre domande più radicali che le religioni e le culture si sono poste con più immediatezza. Questo il senso del tema proposto. Sono così intervenuti esponenti di diverse religioni o della cultura laica.

Don Liberatori, che opera da dodici anni nel carcere di Arezzo, si è accorto di come il detenuto sia sempre una "persona", un "essere sacro". Dapprima era animato da un senso di commiserazione nei confronti delle sofferenze del detenuto, ma questi non cercava commiserazione; allora si è reso conto dell’importanza di entrare in simpatia profonda con lui. Imparare a sollecitare nel detenuto non la domanda "perché proprio a me?" ma ad abituarlo a vedere, nell’esperienza in corso, una sfida, uno stimolo a trasformare la propria condizione in una rinnovata visione dei propri interessi, delle proprie scelte, del proprio tempo. Il dolore non è un castigo di Dio, un’espiazione attraverso cui passare, non è che "più soffriamo qui, più gioiremo nell’al di là". Il Regno è qui e la sofferenza è un’opportunità, si tratta di affrontare le zone d’ombra del nostro passato e del nostro presente per trasformale in una sfida per crescere. Questo riesce nella misura in cui il detenuto non amplifica il proprio dolore con rancore e ulteriore odio, nella misura in cui si accorge che questi stati d’animo scaturiscono da dentro, dal proprio intimo ed è lì che hanno bisogno di essere disciolti e purificati. La compassione non diviene quindi un compatire ma un apprendere a "vibrare insieme" imparando a valorizzare tutto, anche la gramigna, per crescere verso il bene.

Il Rabbino Caro ha ricordato che nell’ebraismo vi è una stretta identificazione tra dolore fisico e dolore psicologico. Sul problema del dolore la tradizione ebraica ha sviluppato articolate riflessioni nel Talmud. Qui si legge che l’uomo deve apprendere a ringraziare Dio per tutto, sia per il bene che per il male, non perché l’uomo ricerchi il dolore, bensì lo teme ma la preghiera, recitata per esempio dal malato e dai suoi parenti, lo aiuta a attenuarne il peso. La sofferenza è parte dell’esistenza. Nella creazione originaria non c’era il male. Giacobbe chiese a Dio di dargli delle malattie per indurre i propri figli a venire a fargli visita. Nei confronti della malattia l’ebreo non ricorre a miracoli, si avvale della scienza medica, ha l’impegno di preservarsi nello stato di salute curandosi debitamente. Sia il paziente che il medico si devono rendere conto che la guarigione dipende da Dio. Il medico deve evitare sperimentalismi, si deve ricordare della drammaticità della malattie che pongono medico e paziente sull’orlo di un abisso in cui potrebbero precipitare. Nei seicentotredici precetti che regolano la vita dell’ebreo vi sono norme particolari per il malato, che può sospendere l’attuazione di alcuni di tali precetti. Per i suoi parenti e amici vi sono invece particolari impegni come quello di fargli visita, dandogli sostegno fisico e morale, senza interferire con le terapie e rispettando il malato. Evitare di visitarlo nei primi tre giorni di malattia, né nelle prime tre ore del giorno così come nelle tre ore che precedono la sera. Nel Talmud si legge che così come Dio è vicino a chi soffre, così l’uomo sostiene il malato, da tutti i punti di vista, anche economici. Chi fa visita ad un malato gli sottrae parte della sua malattia e contribuisce a farlo guarire. Anche nei confronti del medico si trovano norme che vietano al medico di informare in modo esplicito il malato di una sua malattia incurabile. Alcuni sintomi rivelano l’avvio di un processo di guarigione e tra questi, p.es., lo starnuto, l’eiaculazione, il sogno, il sonno.

Il dott. Jamil, per la tradizione islamica ha ricordato l’importanza che la medicina islamica rivestiva in passato: Avicenna, per esempio, era rinomato proprio come medico già all’inizio dell’XI secolo. Ha ricordato il dramma della città di Kerbala, bombardata proprio in questi giorni durante la guerra contro l’Iraq. Già nella seconda metà del VII secolo la città sacra dell’Islam era stata provata da un grande dolore perché la famiglia di Maometto, con a capo il nipote Husayn discendente del califfo Alì (genero di Maometto), era stata decimata dagli Omayyadi, dando vita alla tensione tra sciiti e sunniti. Ancora oggi, durante la guerra che lacera quelle regioni, Kerbala ha subito una ulteriore profanazione, suscitando così, nella tradizione islamica, un rinnovato dolore. Il dott. Jamil ha ricordato, nella sua esperienza islamica indiana, il ricorso ad altri tipi di cura, come alla medicina ayurvedica. Un problema è dato anche dal dolore "psicologico" e "sociale", spesso l’immigrato è considerato un "malato", un "non integrato" nel contesto sociale. Il sentirsi chiamare ripetutamente "extra-comunitario" induce un profondo senso di disagio e dolore. Un suo giovane amico una volta per reazione si è rivolto a chi lo chiamava così dicendoli che era un "extra-afghano".

Il dott. Nkafu, esponente della tradizione africana, ha ricordato che la sofferenza riguarda il singolo e la comunità al tempo stesso ed è espressione della condizione umana. Solo Dio infatti non soffre. Il dolore non ha un connotato che esprima una condizione metafisica, esistono solo persone che ridono, piangono e muoiono, è un’esperienza che si vive direttamente nella comunità e nel gruppo familiare di cui si fa parte. La mia salute è anche la salute degli altri. Il malato, soprattutto l’anziano p.es., non vive in Ospedale o in ospizio, ma nella famiglia. Il malato testimonia agli altri membri una dimensione cui neanche gli altri saranno estranei. La causa della malattia è spesso ravvisata in un segno di lacerazione e di rottura nel legame con gli antenati e con Dio; questo equilibrio spezzato deve essere reintegrato. La morte è dentro la vita, è parte della vita. All’interno della comunità ci sono momenti centrali come la nascita, la malattia e la morte. La prima è un momento di festa, si canta alla nuova vita. La morte è il momento centrale: è quello in cui il malato può diventare immortale. In tal modo la morte non è temuta nella misura in cui la persona scomparsa diviene, nel ricordo comunitario, immortale. Il malato viene visitato da tutta la comunità per ricreare quel rapporto con gli antenati che si è rotto. Un detto dice che un sorriso dato ad un malato è già una medicina. In caso di malattia spesso si ricorre ad una medicina che oggi chiameremo olistica, a base cioè di infusi e di erbe. La malattia è un richiamo della comunità alla vita nella sua interezza, è ricreare quel legame che fa sentire tutti figli della vita stessa. Il problema non è quindi il morire, ma il morire nel ricordo della comunità. Nessuno quindi soffre in privato. La cura degli altri accompagna il neonato alla vita e la cura degli altri lo accompagna, con la morte, verso la condizione immortale di antenato. La celebrazione della vita è connessa alla celebrazione della morte.

L’esponente de La Pagoda, Rodolfo Savini, si è soffermato sulla rilevanza del dolore nell’esperienza buddista, ma su questa relazione torneremo nel prossimo numero del Trimestrale.

Il prof. Roberto Salvadori ha presentato il problema dal punto di vista laico. Ha sottolineato come sia impossibile sintetizzare un’ottica laica, di fatto esistano diverse prospettive. La sua è una di queste. La caratteristica di fondo è che, nel panorama laico, non c’è una verità che pretenda di assurgere a principio universale. Il dolore è lo scandalo per eccellenza. La sua presenza esclude la possibilità che esista un Dio. Primo Levi denunciava il fatto di come, dopo Auschwitz, sia impossibile affermare la presenza di Dio e verrebbe allora di parlare del "silenzio di Dio", riavvicinandosi così all’esperienza di Giobbe circa il dolore dell’innocente. La religione mira a redimere l’uomo dal dolore, mentre la mentalità laica vuole comprenderne le cause e combatterlo. Già Pio XII nel 1957 si poneva la domanda di un possibile ricorso a narcotici pur di attenuare il dolore. Anche oggi in Ospedale si sente parlare sempre di più di una terapia antidolorifica. Il problema si connette strettamente alla questione ancora irrisolta dell’eutanasia. Da questo punto di vista sarà necessario sviluppare, in questa direzione, corsi di aggiornamento sulle modalità atte a superare il "dolore inutile" sia tra i malati, affinchè apprendano a curarsi, sia tra gli operatori sanitari e i ricercatori affinché individuino terapie e sostanze idonee ad attenuare il dolore.

A questo punto il dibattito ha coinvolto il pubblico e da qui sono scaturite alcune riflessioni. C’è chi è intervenuto sottolineando come in certi momenti della Prima guerra mondiale tra i soldati degli opposti schieramenti si fosse creata, proprio a causa del dramma umano cui la guerra conduceva, una intima e inaspettata solidarietà che faceva superare la condizione di nemico. In questa prospettiva si può aprire un nuovo sguardo interpersonale che avvicini gli uomini tra loro. Un altro intervento ha sottolineato come certe culture, basti pensare ad alcune popolazioni africane, siano estranee all’esperienza agghiacciante di Auschwitz che, più che essere attribuita al silenzio di Dio, può essere ascritta alla violenza che alberga nell’animo umano. Un'altra riflessione ha messo in risalto che spesso noi conosciamo solo il "nostro" dolore e difficilmente riusciamo ad entrare in sintonia con l’altrui sofferenza, da qui la necessità di vivere con immediatezza il postulato "tu soffri come me, io soffro come te". Un’altra questione ha riaperto il caso del dolore cronico in cui il paziente va aiutato a gestire la propria sofferenza. In questo senso si è riaperta la questione dell’eutanasia. Per i Testimoni di Geova un intervento ha posto in risalto due condizioni estreme. In Genesi l’uomo viene condannato a lavorare con dolore, mentre nell’Apocalisse-Rivelazione viene detto che non ci sarà più sofferenza. Tra queste due condizioni estreme c’è il significato profondo che accompagna la speranza dell’uomo nella promessa di Dio.

Abbiamo pensato di riportare per esteso queste riflessioni poiché, nel pensiero buddhista, il dolore costituisce la Prima Nobile Verità e ci sembra estremamente importante che intorno a questo tema si apra un confronto che permetta di cogliere dimensioni plurali di questa condizione, affinché si possano individuare con più partecipazione le sue cause e i suoi effetti, nonché la sua stessa natura. Nel prossimo numero ci soffermeremo sull’intervento da parte buddhista, ma sollecitiamo chi si troverà tra le mani questo opuscolo, a contribuire con le proprie riflessioni e le proprie esperienze (inviandole per scritto alla sede de La Pagoda o con e-mail al sito internet) a gettar luce su questo morso che priva l’uomo della serenità necessario per abbracciare la vita con gioia partecipe.

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