Trimestrale d'informazione dell'Associazione culturale

La Pagoda

Località Quercia Grossa,33 -Pieve a Socana 52016 Castelfocognano (Arezzo)

 

 

Anno X n° 1 ( Gennaio - Febbraio - Marzo 2008 )

Il Grande Desiderio del Nirvana 

di Rodolfo Savini

 

Parlare di questo o quel desiderio è facile perchè ne abbiamo sempre qualcuno sotto mano, sono il tessuto della nostra stessa attività mentale. Nell’insegnamento del Buddha si parla però di un “Grande Desiderio” e qui la comprensione può essere meno chiara e quindi anche maggiori i rischi di un fraintendimento. La difficoltà dell’argomento richiede di avvicinarlo sia attraverso lo studio e il pensiero, sia attraverso la pratica meditativa formale, seduta e camminata. La prima attitudine ci aiuta a coltivare la chiarezza mentale evitando gli ostacoli creati da sensazioni superficiali, la seconda ad assimilare tale chiarezza riconducendo al corpo, in senso più ampio, intuizioni capaci di smussare l’abituale panorama mentale stretto dall’abitudine a “sapere già tutto”, ad esprimere un giudizio su tutto. Tale è l’apporto del raccoglimento meditativo,  dell’attenzione sul respiro e della consapevolezza su ciò che accade. 

Per comprendere la difficoltà del sentiero verso una più chiara visione del Grande Desiderio dell’illuminazione e del risveglio dal torpore della coscienza, ci potrebbe essere d’aiuto un confronto con il training di un medico. Al medico sono richiesti anni e anni di studio per sapersi orientare con sicurezza nelle proprie diagnosi e terapie rivolte alla guarigione, nondimeno la pratica meditativa, in tutti i suoi aspetti, è anch’essa un processo di “guarigione” dalle molteplici resistenze egoiche che creano una continua separazione sé/io/altro. La separazione è fonte, se non compresa, di risoluzioni che sfociano spesso in atteggiamenti aggressivi e violenti o passivi e rassegnati. Per orientarsi verso una comprensione e un’esperienza cioè l’insieme unitario delle indicazioni che il Buddha trasmette per liberare l’uomo dalla sofferenza, non è sufficiente la lettura frettolosa di un libro e qualche ritiro.

Ciò che vediamo con l’ “occhio” ordinario, con i nostri cinque sensi e sintetizziamo con la mente, non è altro che il contatto con  le tante sensazioni che si sovrappongono caoticamente creando fraintendimenti (giudizi-pregiudizi) e certezze che si risolvono spesso in autoinganni. L’”occhio” ordinario non riesce ad accogliere e rielaborare gli innumerevoli stimoli che provengono dall’apparato sensoriale, questi lo sommergono e ciò dà l’avvio ad un ineluttabile processo di dipendenza.

Vi è anche la possibilità di coltivare l’ “occhio” interiore che non ha niente a che fare con i sensi ed è svincolato da attrattiva-repulsione (cioè dipendenza) cui essi danno origine. Coloro che lo possiedono spesso vengono descritti come “ciechi”, si veda l’esempio di Omero o ancora quel passo della Bhagavad Gita (II,69) dove si dice “In quella che è notte per tutti gli esseri in quella veglia chi è padrone del sé; ed è notte per il saggio veggente ciò che per gli altri esseri è tempo di veglia”.

Ci troviamo quindi al cospetto della necessità di “ricondizionare” la nostra mente. Che cos’è il Nirvana? Una sua “definizione” ci può essere data attraverso il Nobile Silenzio. Non si tratta di agnosticismo, di un silenzio fatto di disinteresse per la questione. È anch’esso un veicolo con una propria capacità comunicativa che può orientarci, nell’insegnamento del Buddha stesso, attraverso un “lasciar andare” da un lato e una “fede/fiducia” non-condizionata dall’altro.

Attraverso il “lasciar andare” ci accorgiamo che il Nobile Silenzio è al di là della rete di pensieri e sensazioni. Ora questo ostacolo viene riconosciuto come un condizionamento che la consapevolezza è chiamata ad attraversare; è qui che prende corpo la definizione del Nirvana come “cessazione”. Con la presenza mentale i legami fatti di attaccamento, avversione e dubbio si recidono lasciando di conseguenza emerge più chiara la “destinazione” e il “sentiero” da percorrere.

Si legge nel testo “Così è stato detto” (Itivuttaka-Khuddakanikaya,4 -  II,6):

“La serena via di salvezza da tutto ciò che è al di là del ragionamento, è stabile, non-nata, non-prodotta, è una condizione priva di afflizioni, limpida, è la cessazione di ogni sofferenza, la beatitudine cha pacifica il condizionato”

Attraverso la”fede/fiducia” si coltiva una intuizione non definibile; un fiuto per il profumo dell’incondizionato. Qui affonda e si dissolve ogni forma di conoscenza, anche la più sublime, per lasciare spazio alla fiducia che il Buddha ci comunica con la sua stessa esperienza; questo spegnersi di ogni conoscenza, la “cessazione”, è il setaccio del Nobile Silenzio, in cui rimane solo “qualcosa” di non-prodotto, di non-causato. E’ quel “vuoto” in cui l’apparire della più piccola sensazione acceca come un lampo e stordisce come un tuono; ma quel “vuoto” è anche il palmo di quella mano su cui si posa, accolto con serenità, benevolenza e compassione, ogni più piccolo attimo della nostra giornata, annoiata o turbolenta che sia.

Il Nirvana etimologicamente indica l’atto (ni)  di slegare (van). Si tratta di slegare la coscienza dal “fuoco” che la brucia tramite quel coacervo di avversioni, dubbi, attaccamenti, la fiamma dell’ignoranza. Alcuni, soprattutto lungo la strada della filosofia occidentale possono presentare questa cessazione con una vena di negazione totale; altri ne parlano come di un fuoco che, purificando, riconduce alle potenzialità, alla sorgente primordiale, alla sostanza eterna. L’insegnamento del Buddha non si lascia rinchiudere né nell’una né nell’altra. La sua è la “via mediana” e chi ne segue gli insegnamenti può

 “estinguere il fuoco della concupiscenza  riconoscendo in ogni momento ciò che è impuro. In virtù della gentilezza amorevole (metta), poi, gli uomini migliori estinguono il fuoco dell’avversione e, in virtù della saggezza che conduce all’acuta intuizione, il fuoco della confusione (…) esercitandosi con zelo, notte e giorno, ottengono la perfetta liberazione, senza residuo, e superano in maniera definitiva la sofferenza e (…) non vanno più incontro a nuove esistenze” (“Così è stato detto” V.4) 

Il rapporto con i desideri costituisce il valico tra una vita di sofferenza e una vita di serenità. Il problema non è tanto avere o non avere desideri, il problema centrale e più profondo è quello di “credere” ai nostri desideri, di farli “nostri”, cioè di renderli una “sostanza” fonte di cause-effetti, da cui scaturisce la catena del condizionamento. Ai nostri cinque sensi, vista, udito, olfatto, gusto e tatto, si assomma la mente. Così come i primi hanno per oggetto ciò che è loro direttamente connesso, la mente ha per oggetto i pensieri. Il compito di “chi” è trascinato dal fiume del divenire è indagare la natura di questo legame tra l’apparato sensoriale e i rispettivi oggetti. Costui, questo “io” è, nell’esperienza del Buddha, è un “aggregato” di più elementi. Il corpo e la forma, le sensazioni, le percezioni, i samskara (gli “artefatti”, cioè che è “fatto” dal nostro agire, impulsi prodotti da ogni attività) e la coscienza che ne è il tronco.  

In riferimento p.es. alle sensazioni si può sottolineare che ad un primo sguardo possano sembrare fonte di dolore solo quelle più turbolenti dovute all’avversione e al desiderio. Quelle neutre, cioè legate al dubbio, possono sembrare prive di significato, “spente” e tali da non costituire una minaccia per la nostra persona. Eppure sono proprio queste ad essere un pericolo da non sottovalutare per la nostra presenza mentale, perché danno modo al torpore e all’indolenza di far emergere inquietudini e dubbi radicati nella profondità della nostra coscienza assai più difficili da riconoscere, smussare e dissolvere.

La presenza mentale, nel suo osservare i contenuti della mente così mutevoli e volubili, deve avere un saldo radicamento nel corpo per evitare che il praticante soggiaccia alla lusinga dei pensieri, alle suggestioni piacevoli e spiacevoli, che essi generano dentro di noi e che è facile scambiare per la “realtà” ultima, quando invece sono ancora nient’altro che pensieri condizionati da cause ed effetti.

La forza attrattiva del desiderio è sempre viva, oggi come ai tempi del Buddha, ma il problema non consiste nel valutare quando storicamente era più forte o meno; questo atteggiamento ci  allontanerebbe da ciò che costituisce l’elemento centrale del desiderio. Il problema non è come e che cosa desiderare, il problema con cui confrontarsi è il desiderare stesso, perché è da lì che scaturiscono le mille scintille dell’ignoranza.

Nella pratica di consapevolezza elementi centrali sono quindi, oltre lo  studio e la meditazione formale, la capacità di smussare la tenacia dei desideri alimentando le virtù di dana e sila. Accenniamo soltanto in questo ambito che con il primo termine si indica il donare, che da un donare il sovrappiù, il superfluo, diviene un donare  “regale” che è la massima povertà, il dono di sé. Con il secondo lo sguardo del praticante volge ad un amore via via più aperto, universale, ad una gioia aperta e partecipe. Non troviamo, negli insegnamenti del Buddha, alcun imperativo etico. I suoi insegnamenti e precetti sono il frutto della sua stessa esperienza e il praticante li condivide appieno se divengono essi stessi parte integrante e motivante del proprio processo di sviluppo psicologico.

 

(Si ringrazia Giuliana Martini per gli spunti che ha fornito nella Conferenza del 15 nov07- Auditorium Ando Ducci Arezzo) 

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